Marianna Sirca
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Marianna Sirca

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Marianna Sirca

Informazioni su questo libro

Marianna Sirca, ricca proprietaria terriera, si innamora, ricambiata, di Simone Sole, bandito ribelle e coraggioso fino ad allora rassegnato alla solitudine e alla vita da reietto. Disposti a tutto pur di essere padroni della loro vita e del loro amore, i due giovani lotteranno contro le tradizioni familiari e contro Sebastiano, cugino di lei, deciso a porre fine alla loro relazione.Ledizioni ripubblica quest'opera fuori diritti in formato cartaceo ed ePub.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2015
eBook ISBN
9788867053353

II.

Al buio, mentre cercava di addormentarsi nella sua stanzetta dove penetrava l’odore del bosco, Marianna rivedeva la figura di Simone nell’atto di afferrare la terra e balzare su come per dominare lei e tutte le cose intorno. Sì, così come dalla terra nuda, egli era balzato dalla sua oscura sorte di servo per diventare l’ospite temuto dei suoi stessi padroni. E lo vedeva guardarla dall’alto, con occhi dolci e terribili: se fossero stati soli egli l’avrebbe afferrata come una preda.
Eppure, comunque egli fosse, e sebbene il polso le ardesse ancora per la stretta di lui, ella si sentiva sempre la padrona; era certa che con un solo suo sguardo lo avrebbe sempre atterrato.
Le sembrava di rivederlo ragazzo, mandriano in quello stesso ovile, al servizio dei pastori dello zio: magro, alto, olivastro, sempre taciturno, col viso basso un poco reclinato a destra, come preoccupato da gravi pensieri, di tanto in tanto scuoteva la testa sul collo e volgeva intorno gli occhi luminosi. Ogni domenica la madre andava in casa dei padroni a chiedere notizie di lui come di un bambino alla scuola. Sì, egli si comportava bene: era fidato, attento, laborioso. Verso Pasqua tornava per fare il precetto pasquale, e a Natale accompagnava il padrone alla messa di mezzanotte. Non guardava le donne, non beveva, non aveva vizi. Marianna non ricordava ch’egli le avesse mai mancato di rispetto. Ed ecco un giorno si era assentato dall’ovile e non aveva più fatto ritorno. La famiglia lo aveva pianto come morto, per mesi e mesi; si credeva, dapprima, ch’egli fosse stato presente a qualche misfatto e i malfattori, per evitare la sua testimonianza pericolosa, lo avessero ucciso, nascondendone il cadavere. La madre sola si ostinava a tornare di tanto in tanto da Marianna a chiedere notizie com’egli si trovasse ancora nell’ovile. Aveva un aspetto strano, a volte, la madre; pareva chiedesse ai padroni, ai quali lo aveva affidato quasi ancora bambino, che le restituissero il suo figliuolo.
Più tardi Simone aveva mandato sue notizie, e lei s’era chiusa nella sua casetta, per non più uscirne. Marianna, contenta di non vedersela più davanti con quei grandi occhi pieni di angoscia e di domande, s’era dimenticata del piccolo servo, come fosse davvero morto. Ed ecco invece egli adesso le balzava davanti, risorgeva dal sepolcro della sua miseria e afferrava quanto gli capitava sotto mano.
«Quello che è mio è mio e guai a chi lo tocca!»
Tutte le parole di lui le restavano in mente, e cercava di contraddirle ancora, col pensiero; ma la replica di lui gliele ribatteva sul cuore. Si volse sul suo lettuccio e cercò di addormentarsi, sorridendo un po’ di se stessa. Il sonno non veniva. Qualche cosa si interponeva tra lei e il sonno. È ancora lui; le stringe ancora il polso fissandola minaccioso e implorante. Anche nel sogno si guardavano come si conoscessero da anni ed anni e uno sapesse dell’altra sino in fondo all’anima. Ella gli diceva: «Io so che ti piaccio e che ti vuoi vendicare d’essere stato mio servo»; ed egli rispondeva: «So che tu aspettavi un uomo come me: eccomi, ti do tutto di me, il bene e il male, ma ti prendo tutta, col tuo bene e col tuo male».
Si volse ancora, infastidita, accaldata. Sentiva bene che tutto questo era un sogno della sua fantasia eccitata dal passaggio di Simone nella solitudine dell’ovile: canzone passeggera come il mormorio del bosco agitato nella notte dal vento di levante: forse Simone non sarebbe più ripassato nella sua vita, eppure… eppure in fondo sapeva già che non era così. Egli sarebbe tornato. Le aveva messo un anello intorno al polso, di cui non era facile liberarsi. E di nuovo lo rivedeva nell’atto di guardarla tutta con uno sguardo intenso come la carezza di una mano amorosa; e sollevando gli occhi nel buio, arrossiva sul suo guanciale come se il viso di lui, pure intraveduto nel sogno che non ha consistenza, si accostasse al suo e il battito delle loro tempia si confondesse in un battito solo.
S’egli fosse lì fuori e spingesse la porta? «Ho la febbre», pensò, toccandosi il polso; «Marianna, che fai?»
Il mormorio confuso del bosco le rispondeva, cullandola un poco. Ripensò alla sua casa di Nuoro, calda, oscura, quieta, piena di cose preziose; rivide la serva Fidela che vegliava contro i ladri, e tornò a sorridere di se stessa. «Marianna, che fai?» le pareva di sentire la sua voce lenta e calma, «ti è entrato un verme nel cervello, stanotte? Perché un uomo un poco brillo ti ha stretto il polso ti fai venire la febbre? O è il demonio che ti tenta? Che ti entra in corpo?»
E il pensiero che il demonio le fosse davvero penetrato nell’anima e nel corpo sotto forma di Simone, le diede un senso di angoscia e di vergogna.
«Marianna, che fai? Non ti ricordi chi sei? Tu la padrona, egli il servo, tu anziana egli giovane, tu ricca egli miserabile senza casa e senza libertà!»
«Ma appunto per questo: la vita è bella così nel contrasto, nel pericolo, come dice la canzone.»
«Ah, Marianna, che fai? Ecco che egli ti è davvero dentro. È la tentazione.»
«Signore Dio liberami», mormorò tirandosi il fazzoletto sul viso: e le parve di essere come un uccellino che si nasconde sotto la sua ala.
Simone partì durante la notte, e nei giorni seguenti non si lasciò più vedere. Ma-rianna non lo aspettava, certo; anzi le pareva di aver sognato e non voleva più neppure ricordare il suo sogno; a volte però sollevava la testa sembrandole di sentire un passo lontano e si incantava a guardare il bosco.
Un gruppo d’elci fioriva, al di là del prato: le foglie morte cadevano sospinte dalle nuove, e i fiori spuntavano e s’aprivano in pari tempo con le foglie, tutti di uno stesso colore d’oro pallido che anche dopo il tramonto dava agli alberi millenari uno splendore, come ci fosse ancora il sole. Lei s’indugiava alla finestruola della cucina, verso sera, guardando quella distesa chiara tra il verde cupo della foresta; non sapeva perché provava un senso confuso di gioia a vedere i vecchi elci ringiovanirsi tutto d’un tratto e risplendere come di luce interna. Sebastiano la vide così, al finestrino, pallida ma con gli occhi luminosi, un giorno che tornò per portarle i denari della caparra per il sughero. Anche lui era allegro, come sempre quando aveva occasione di avvicinarsi a lei; ma un’ombra di gelosia tornò a oscurargli il viso nel sorprenderla così.
«Ecco», le disse contandole i denari sul piccolo davanzale «puoi tenerli anche qui fuori; nessuno si accosterà per rubarli finché hai così buona guardia».
Marianna sentì il suo cuore sbattersi, dentro, come un uccello che si desta nella sua gabbia: aveva capito; ma volle saper meglio.
«Di chi parli? Di Simone? Poteva farsi vedere ancora: lo abbiamo forse trattato male?»
«Male? Lo avete trattato come un re, cugina cara! Solo, sta attenta a te; non dargli troppa libertà.»
«Io non ho mai dato libertà a nessuno e non ho bisogno di nessuno!», lei replicò subito, sdegnosa, «del resto sei stato tu a consigliarmi di riceverlo bene.»
Sebastiano se ne andò placato, ma lei rimase inquieta, offesa per le insinuazioni di lui, e in fondo felice per la vicinanza di Simone.
Verso sera s’aggirò un po’ di qua e di là nel prato, assistendo al rientrare delle vacche dal pascolo. L’erba folta, nel silenzio sereno della tanca, vibrava tutta di canti di grilli e i più piccoli rumori avevano un’eco profonda.
Ella credeva sempre di sentire un passo in lontananza. Andò un poco oltre il boschetto di elci, fino ad un’altura dalla quale si dominava il sentiero; non era stata mai così lontana, sola, di sera. Si domandò il perché di tanto ardire. La risposta le venne sincera dal cuore: sperava d’incontrare Simone. Ed ebbe vergogna e tornò indietro.
Dopo cena sedette, come faceva ogni sera, davanti alla porta della sua stanzetta. Il padre e il servo dormivano già, nella cucina, e tutto era silenzio, luccichio di stelle, canti di grilli, intorno a lei; la luna tramontò, ella rimase ancora.
Ripiegata su se stessa le pareva di aver vinto le sue fantasie, di vergognarsi ancora della sua piccola passeggiata serotina; e si toccava lievemente le dita fredde per contare i giorni che ancora le rimanevano per tornare alla sua casa di Nuoro: ma questo pensiero le dava un senso di gelo; le pareva di pensare ad una prigione.
D’un tratto sollevò il viso ansioso. Sentiva di nuovo il passo, e pure credendo d’illudersi ascoltava palpitando. Il cuore non la ingannava: un uomo veniva dritto verso la casa, verso di lei: lo riconobbe subito, e si portò le mani al viso come per nascondere il suo turbamento. Non si alzò, non si mosse.
Con sorpresa si accorse che i cani, sebbene l’uomo passasse sotto la quercia, non s’inquietavano: ed egli s’avvicinò alla porta socchiusa della cucina, guardò, vide i pastori addormentati e andò dritto a lei.
«Buona notte, Marianna; sei ancora alzata?»
«Buona notte, Simone; ancora da queste parti?»
«Ancora. Sono stato di nuovo a vedere mia madre; va meglio.»
«Vuoi venire dentro?», ella chiese, alzandosi, ma egli l’afferrò per il braccio e la costrinse a rimettersi a sedere. E senza togliersi il fucile sedette accanto a lei sullo stesso scalino, ansando un poco come avesse corso.
Pure vicini tanto che ella sentiva il calore e l’ansito del fianco di lui, non si sfioravano.
Per un attimo ella attese con smarrimento che egli la stringesse a sé o le prendesse almeno la mano, poi si rassicurò. Non parlarono. A poco a poco anche il respiro di lui ritornò regolare, calmo. Dopo qualche momento egli si alzò, tirò su il fucile sulla spalla e se ne andò come uno che dopo essersi riposato sull’orlo della strada riprende il suo cammino.
Tornò altre volte, di giorno però, trattenendosi coi pastori intenti alle loro faccende e salutando appena Marianna seduta quieta a lavorare all’ombra della casa.
E a lei pareva un altro, uno che rassomigliava al suo antico servetto ma più rigido, quasi con un’aria di straniero. Accorgendosi ch’egli la guardava di sfuggita, come vinto ancora dalla soggezione e dal ricordo della sua servitù, spiando però in lei un gesto e uno sguardo che lo invitassero a essere più audace, lo fissava in viso, ferma, impavida, con dentro però un tremito di attesa angosciosa.
Egli d’altronde non s’indugiava, non accettava mai l’invito di rimanere a mangiare e a dormire coi pastori, e questa offerta di ospitalità, dopo la prima sera, pareva piuttosto irritarlo. Solo alla vigilia del ritorno di Marianna a Nuoro s’attardò insolitamente con lei sotto l’albero della radura. Pareva volesse dirle qualche cosa, finalmente, ma non trovasse le parole. Seduto su una pietra, con la testa fra le mani, sollevava di tanto in tanto gli occhi pieni di ombre e di luci rapide cangianti, guardava lontano, poi tornava a chiudersi in sé, cercando qualche cosa.
Finalmente domandò:
«Lo sai, Marianna, perché sono fuggito, quella volta, da casa tua?».
Lei accennò di no; non lo sapeva: nessuno ancora, neppure la madre di lui, lo sapeva.
«Ebbene, te lo voglio raccontare, Marianna.»
E cominciò a raccontare la sua vita, fin da bambino. Parlava sottovoce, come fra sé, col viso sulla mano rivolto a lei. Pareva si confessasse e a volte le sue parole si perdevano in un soffio. Marianna lo guardava, e quel viso pallido nell’ombra le sembrava rischiarato da una luce lontana. Le cose che egli diceva le erano già note come vicende a cui lei stessa avesse preso parte; eppure le davano un’impressione di mistero: le sembravano avventure fantastiche.
La famiglia era povera, egli raccontava, il padre sempre malaticcio per un’ernia inguaribile, le sorelle giovinette che non potevano certo andare a far le serve perché di gente per bene, e poi belle così che fuori di casa sarebbero divenute subito preda di qualche libertino: la madre si consumava di lavoro per tener su la famiglia in modo che la miseria di dentro non trasparisse fuori; e anche lei era malata ma fingeva di no, per non aumentare il dolore del marito. Lui, Simone, era il più piccolo della famiglia: le sorelle lo avevano tirato su, sempre in braccio, sempre a ridere con lui. Ma egli cresceva e loro crescevano più di lui, e le più grandette invecchiavano e nessuno le voleva perché erano troppo belle e troppo povere. E le annate erano tristi; il grano che il padre stanco portava a casa scarso, l’olio del piccolo oliveto scarso; tutto era scarso, nella famiglia chiusa nel recinto del suo cortiletto, come in esilio dalle gioie del mondo.
Le sorelle grandi non ridevano più: cucivano, sotto l’ombra del fazzoletto tirato sulla fronte; cucivano sopravvesti di cuoio duro come la loro sorte, o trapuntavano camicie e corpetti da sposi, ma non per i loro sposi. Il guadagno era scarso però; tutto scarso nella loro vita.
Un parente aveva preso Simone ragazzo con sé al suo ovile; passava per uomo ricco, questo parente, ma era ricco solo di apparenza, e aveva vizi e debiti, e gli usurai gli rosicchiavano l’anima. Grasso e d’aspetto bonario, a volte diventava feroce, non si sapeva perché.
«Avevo dieci anni, ma lui mi parlava come ad un uomo fatto. Mi diceva: “Simone, uomini bisogna essere, non lepri”. E mi spingeva giù a precipizio per qualche china, a rischio di rompermi le ossa, per insegnarmi a saltare agile, a salvarmi in caso di inseguimento. Una volta mi portò addirittura in un burrone e mi ci lasciò in fondo. Lui era a cavallo e presto fu in alto. Di lassù mi gridava: “così impari a venire su, a non aver paura”. Ed io mi arrampicai, e quando fui in alto non lo trovai più e dovetti cercare da me la strada: non piangevo, no: ma sentivo il cuore gonfio in petto. Poi egli morì e i debiti mangiarono i suoi averi. La mia famiglia aveva sperato invano nell’eredità. Poi fui pastore, e fui solo, per anni ed anni, solo, servo. La mia abilità, la mia agilità non mi servivano a nulla. Tornavo a casa e trovavo mio padre sulla stuoia, mia madre stanca e malata anche lei, le mie sorelle a trapuntare le vesti delle altre spose. Loro non si sposavano mai. E io, avevo diciotto anni, odiavo gli uomini perché non cercavano le mie sorelle, e le donne perché tutte più o meno avevano l’amante e nessuno invece badava alle mie sorelle. In quel tempo ero a casa tua. Sì, odiavo anche te perché eri ricca e potevi sposarti e loro no. Ero grande e pensavo ancora cose da bambino. Pensavo di chiudere te e tuo zio in una camera, una notte, di legarvi, di costringervi a darmi tutti i vostri denari: ma gli occhi di tuo zio, il Signore mi aiuti, mi facevano paura; li vedo ancora adesso: e anche la tua serva, che si svegliava ad ogni rumore, mi dava da pensare. Una volta mi mandaste a fare un viaggio: e io andai dal mio padrino, un prete ricco che vive in un villaggio; andai con la scusa di domandargli se mi voleva per servo, ma in verità perché speravo, non so, che mi prendesse con sé e mi lasciasse l’eredità, come tuo zio faceva con te. Egli mi accolse bene, malanno gli frughi le viscere, ma non mi volle neppure per servo. E così mi è passata la fanciullezza. Pensavo di andare a rubare per far ricca la famiglia; ma avrei voluto rubare molto, molto, non un agnello o un bue. Fare qualche bardana, sì, andare nella casa magari del mio padrino e rubargli il tesoro; non un agnello come l’aquila o la faina. Ma dov’erano i compagni per la bardana? Passati quei tempi, Marianna mia! Il malanno è che andavo a raccontare a tutti queste cose: e mi feci una mala fama, e fui tenuto d’occhio, e sorvegliato e spiato, io che non facevo male ad una mosca. E quando tornavo a casa, mia madre mi guardava triste e mio padre mi predicava dalla stuoia con la voce che pareva venire di sotto terra. Io glielo dicevo: “padre, siete un morto vivo; siete così, seppellito senza terra perché non avete mai avuto forza e coraggio, perché siete vissuto come una lepre nel suo nido”. Le mie sorelle sorridevano, sotto i loro fazzoletti, quasi approvandomi… Così, Marianna, così un giorno pensai di cambiar vita. Lo ricorderò sempre: era d’inverno, una domenica di carnevale. Io mi ero mischiato alla gente, giù dietro alle maschere, ma mentre tutti si divertivano io pensavo alle mie sorelle sedute tristi in casa attorno al focolare, e a mio padre appoggiato al muro fuori nel vicolo deserto. A che ero buono io, se non riuscivo ad alleviare la vita grama della mia famiglia? Quella notte dovevo tornare qui all’ovile e invece me ne andai ai monti di Orgosolo. Dapprima non avevo una idea chiara, in mente; ma pensavo di unirmi a qualche bandito e cercare la sorte con lui. Era sempre meglio che fare il servo tutta la settimana e tornare a casa per sentire le prediche di mio padre. Incontrai Costantino Moro, il mio compagno, che stava a scaldarsi a un fuoco sull’orlo della strada come un mendicante. Quando mi contò le sue pene risi, in fede mia di cristiano: mi fece pietà; ma per non stare solo rimasi con lui. E così, Marianna, fui subito accusato di mille delitti che non ho commesso. E farei ridere il giudice se glielo dicessi. Però adesso… adesso…»
Tacque, riabbassò la testa.
«Adesso», riprese dopo un breve silenzio, «adesso vorrei di nuovo cambiare vita; ma come, Marianna, come?»
«Ci sarebbe, il modo…», rispose Marianna con una voce rauca di cui lei stessa sentì l’incertezza e il turbamento; e non ebbe coraggio di proseguire.
Simone però intese subito ciò che lei voleva consigliargli; e parve destarsi, ribellarsi. La guardò di sbieco, quasi con odio, poi si alzò, si scosse tutto, accomodandosi bene la cartucciera intorno alla vita e riprendendo il suo fucile. Dall’alto cercò ancora gli occhi di lei, ma ella non lo guardava più. Pareva si tendessero scambievolmente un laccio e badassero tutti e due a non lasciarsi prendere.
«Del resto è tutto bene, pur di non perdere la libertà», egli disse con voce forte. «Tutto, Marianna; fuori che tornare servi. Scusa se ti ho contato tante storie. Addio, Marianna; dammi la mano.»
Marianna gli porse la mano, sollevando gli occhi; ma fu adesso lui a non guardarla; le strinse appena le dita e se ne andò, senza voltarsi. Dal suo posto ella lo seguiva con gli occhi, provando un senso di liberazione e nello stesso tempo un dolore ardente, un impeto di orgoglio e di umiliazione, come se il suo antico servo l’avesse offesa pure non riuscendo a toglierla dalla sua condizione di padrona.
«Va in buon’ora», gli augurava fra sé «tanto non ci rivedremo mai più.»
In fondo però sentiva ch’egli sarebbe tornato.
Dopo cena preparò le sue cose per il ritorno a Nuoro; doveva partire alla prima alba, tuttavia a tarda notte stava ancora in faccende e non si decideva ad andarsene a letto. Guardava intorno per la stanzetta solitaria avvolta come un nido dal vago mormorio degli alberi, e la sua grande casa di Nuoro, umida e scura, col portone ferrato e le finestre solide, tornava ad apparirle come una prigione: non mancava neppure la guardiana inesorabile, la serva Fidela, con le chiavi alla cintura, e gli occhi di spia. Del resto tutti nella vita siamo così, in carcere, a scontare la colpa stessa di esser vivi; o rassegnarsi o rompere i muri come Simone. Verrà per tutti l’ora della liberazione e del premio.
Sedette sul limitare della porta verso oriente, pensando tutte queste cose sagge; ma si sentiva agitata; le pareva di doversi preparare ancora per il viaggio di ritorno, e che dimenticasse qualche cosa di importante, anzi la più importante; non sapeva quale.
Gli uomini dormivano nella cucina, tutto era silenzio, scintillìo di stelle, canti di grilli come quella sera della seconda visita di Simone: ella desiderava di addormentarsi così sulla soglia; le pareva di essere come ubbriaca, ubbriaca di tutta quell’aria bevuta in quei giorni, di quel tepore di primavera.
Vedeva l’albero in mezzo alla radura argentea e i cani addormentati nell’ombra; e più in là le due ali del bosco, chiara quella degli elci fioriti, nera quella dei soveri; e fra un’ala e l’altra il vuoto della lontananza rischiarato dall’alba della luna coi monti che cominciavano a profilarsi come avvicinandosi attraverso un tremulo velo di luce.
Dapprima fu il monte d’Oliena, bianco, fatto d’aria, poi i monti di Dorgali a destra e quelli di Nuoro a sinistra, azzurri e neri; e d’un tratto tutto l’orizzonte parve fiorire di nuvole d’oro. Era la luna che spuntava.
E subito al velo d’oro che si stese dai monti alla Serra parve sovrapporsi un altro velo, una rete di perle che tremava sopra tutte le cose e le rendeva più belle, vive nel sogno. La foresta rideva nella notte, eppure le foglie che cadevano dagli elci parevano lagrime. Erano gli usignuoli che cantavano. Uno era proprio sull’albero della radura che con quel canto e la luna in mezzo ai rami raggiava tutto come una sfera.
Marianna ricordava confusamente che da bambina, nella notte di San Giovanni, aspettava qualche cosa di simile; aspettava, nel buio cortile di casa sua, che il cielo a mezzanotte si aprisse e lasciasse scorgere Dio in mezzo a un giardino luminoso.
Si sollevò stupita; sentì di nuovo il passo lontano, vide un uomo avanzarsi dalla radura, dapprima piccolo poi sempre più alto, più alto, alto fino a toccare il cielo. Riconobbe Simone. Allora tornò a sedersi irrigidita da un’attesa quasi paurosa.
Lo sapeva, che sarebbe tornato; e si accorgeva che era rimasta lì sulla soglia ad aspettarlo. Adesso avrebbe voluto ritirarsi e non poteva più; le pareva di vedere gli occhi di lui brillare nell’ombra dorata della luna, fissi su lei con uno sguardo che la inchiodava alla pietra; e le mani di lui tendersi per afferrarla come quella prima sera davanti a lei avevano tentato di afferrare la terra.
Tornò ad alzarsi. Aveva paura; ricordava bene che due uomini erano lì accanto pronti a proteggerla; eppure le sembrava di essere sola nel mondo, sola con l’ombra dolce e terribile che si avanzava silenziosa come nei sogni; e in fondo sentiva che nessuno poteva liberarla dal pericolo che la sovrastava, se lei stessa non riusciva a difendersi.
A misura però che l’uomo si avvicinava ella perdeva anche la coscienza ultima della sua forza. Le ginocchia le si piegavano; e quando Simone le prese le mani e l’attirò giù invitandola a sedersi di nuovo e anche lui sedette davanti a lei per terra a gambe in croce, senza rallentare la stre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pagina del Titolo
  3. Colophon
  4. Sommario
  5. I.
  6. II.
  7. III.
  8. IV.
  9. V.
  10. VI.
  11. VII.
  12. VIII.
  13. IX.
  14. X.
  15. XI.
  16. XII.
  17. XIII.
  18. XIV.
  19. XV.
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