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1. La fondazione dell’Udi
Inusuale, anomala nella tradizione dell’associazionismo femminile, la nascita dell’Udi: nel fuoco della lotta di Liberazione nazionale dall’occupazione nazista, in mezzo alle macerie di un’Italia devastata. Senza la tragica esperienza di anni di guerra non sarebbero divenute protagoniste della politica, per la prima volta nella storia italiana, tantissime donne semplici e illetterate delle regioni del Mezzogiorno che, negli anni del conflitto, mentre figli e mariti erano su fronti lontani, avevano dovuto provvedere da sole alla famiglia, fuggire dalle città bombardate, abbandonare le loro case distrutte, adattarsi a vivere da sfollate e sinistrate. E, soprattutto, senza la partecipazione di migliaia di donne alla Resistenza non si sarebbe sviluppata un’associazione radicata e interclassista. Alla lotta di Liberazione, infatti, hanno preso parte non solo le operaie e le braccianti, eroine delle lotte sindacali del primo Novecento, o le intellettuali e professioniste, pioniere delle battaglie per il suffragio del periodo prefascista, ma anche contadine, mezzadre, casalinghe, studentesse; si è operata così una saldatura tra donne di ceti sociali diversi, di differente livello culturale e orientamento ideale che, in quella esperienza, hanno acquisito consapevolezza della propria forza e del proprio ruolo. Si racconta – è forse una leggenda, ma significativa – che quando Olga Prati, poi presidente dell’Udi di Ravenna, raggiunse in montagna la brigata partigiana del Partito d’azione, il comandante avesse detto «Meno male che sei arrivata, guarda come sono strappati i miei pantaloni» e che lei gli avesse risposto: «Ecco ago e filo, rammenda, io sono venuta per combattere, non per riparare i vestiti».
Nel moto resistenziale – come è noto – si sono saldate la tradizione socialista, quella dell’associazionismo cattolico, dell’anarcosindacalismo, della lotta operaia nelle fabbriche, delle battaglie nelle campagne e nelle risaie, le idealità politiche dell’antifascismo che pochi avevano per vent’anni attivamente alimentato e senza i quali sarebbero mancati gli organizzatori del movimento. Ma anche l’opposizione segreta, eppure profonda, che tante donne avevano coltivato in modo più o meno tacito contro il fascismo – il regime delle cartoline-precetto – che strappava loro i figli e che aveva fatto della violenza e della guerra un cardine della propria politica e ideologia.
Dalle masse femminili veniva al moto resistenziale anche il patrimonio di valori, di ideali, di consuetudini conservate e tramandate nella famiglia; confluiva e si incontrava, in un comune impegno con le forze laiche e socialiste, la tradizione del mondo cattolico. Questo innesto di valori e storie diverse, questo convergere di esperienze tra loro lontane non poteva non avere conseguenze sulla nuova associazione femminile che proprio nella Resistenza si veniva strutturando come movimento unitario, nazionale, teso a far riconoscere alle donne pienezza di diritti e di cittadinanza.
Formalmente l’Udi ha origine nel congresso di Firenze del 1945, nel quale avvenne la fusione dei circoli sorti nell’Italia liberata, a opera del Comitato di iniziativa (costituitosi a Roma nel 1944), con i Gdd, che avevano agito nell’Italia occupata. Per parlare della nascita dell’Udi occorre dunque partire dalla lotta di Liberazione nazionale.
Poiché vivevo a Roma, non sono in grado di parlare, per conoscenza diretta, delle donne protagoniste della Resistenza nelle regioni del Centro e del Nord. Mi limiterò allora a rievocare ricordi sulla lotta clandestina nella capitale, anche se poco significativi, sia perché limitati nel tempo (vivemmo sotto l’occupazione nazista solo nove mesi, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944), sia perché la mia è stata una «resistenza senza armi»: non ho mai preso un’arma in mano se non per trasportarla e ho fatto soltanto quello che centinaia e centinaia di donne hanno fatto in quei mesi.
Nella Resistenza romana le donne svolsero un ruolo decisivo. A Roma, infatti, forse ancor più che in altre zone, la Resistenza si è configurata non solo come opposizione passiva della grande maggioranza della popolazione all’occupazione nazista, ma anche come ribellione attiva, della quale le donne sono state il tessuto connettivo. Come è stato riconosciuto non solo da leader antifascisti, ma dagli stessi comandi tedeschi, senza il contributo delle donne non avrebbero potuto sussistere e agire nella capitale né l’organizzazione politica clandestina del Cln, né la sua rete militare. Già l’8 settembre, nella battaglia in difesa di Roma, centinaia di donne spontaneamente erano scese in strada ad aiutare i combattenti e furono ben ventotto le cadute in quella battaglia! Per l’ingenua freschezza con cui gli avvenimenti sono narrati, vale la pena citare il resoconto che ne venne fatto in un opuscolo anonimo, pubblicato subito dopo la liberazione di Roma:
Durante le due tragiche giornate in cui si svolsero i combattimenti, instancabili le donne dei quartieri dove infuriava la battaglia, come Ostiense, Porta S. Paolo, Testaccio, Trastevere si trovarono immediatamente vicine ai combattenti sfidando i pericoli […]. In via Panisperna più di un soldato ebbe salva la vita per l’intervento di alcune donne, che, incuranti delle bombe lanciate dalle finestre da cecchini sui nuclei di resistenza, li trascinarono nei portoni, li fecero mutar d’abito e li nascosero alle ricerche delle pattuglie tedesche […]. In Trastevere le donne lessavano patate e raccoglievano per le case sfilatini di pane per i combattenti […] le donne romane hanno aperto la porta delle loro case ai fuggiaschi, esse li hanno accolti, vestiti, nutriti, nascosti un po’ ovunque, nelle cantine, nei rifugi antiaerei, nelle intercapedini […] esse hanno accolto come figli i prigionieri alleati, russi, americani, inglesi, jugoslavi.
Col passare dei mesi l’occupazione nazista si fece più dura e opprimente, uscivano i bandi minaccianti morte e rappresaglie contro chi proteggesse o nascondesse militari alleati; si scatenò la caccia ai carabinieri che si erano sottratti a servire i tedeschi e ai ragazzi renitenti alla leva per l’esercito repubblichino; si moltiplicarono le razzie dell’organizzazione Todt.
La vita a Roma era diventata impossibile. Gli arresti e le fucilazioni si susseguivano, le deportazioni erano all’ordine del giorno, le razzie nelle strade, nei tram, nei cinematografi avvenivano sempre più di frequente. Iniziò allora a Roma una caccia all’uomo. Ogni suo passo era diventato un rischio terribile: l’andata al lavoro, il lavoro stesso, anche la casa ove in piena notte irrompevano le pattuglie…
Fu emozionante per me conoscere Adele Bei, dirigente del Pci, che dopo essere stata in esilio era venuta a Roma con Egle Gualdi, a organizzare, anche nella capitale, i Gruppi di difesa della donna, già operanti al Nord nell’Italia occupata. Il programma appello dei Gdd, approvato nel novembre 1943 a Milano recitava:
Organizzare nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nelle campagne, la resistenza alle violenze tedesche, il sabotaggio alla produzione di guerra, il rifiuto dei viveri agli ammassi; esigere nelle fabbriche la proibizione del lavoro notturno, del lavoro a catena e del lavoro nocivo alle donne, esigere un salario femminile (per lavoro eguale) uguale a quello dell’uomo e un’adeguata assistenza alle madri; reclamare con gli scioperi, con le fermate del lavoro, con le manifestazioni di massa, l’aumento delle razioni alimentari, l’alloggio per le famiglie degli sfollati e dei sinistrati, i combustibili, i vestiti, le scarpe per i fanciulli, i locali necessari per le scuole; raccogliere viveri, denaro, indumenti per i combattenti della libertà ed aiutare questi combattenti in ogni modo: assistere le famiglie dei fucilati, dei carcerati, degli internati in Germania e tutte le vittime del nazifascismo.
Era evidentemente finalizzato alla lotta civile e militare contro il nemico invasore, cioè a un obiettivo generale e comune a tutti, ma conteneva in nuce alcune delle future rivendicazioni delle donne, in particolare delle lavoratrici; allora battersi per tali obiettivi diveniva un atto di guerra. Così, dal moto spontaneo di solidarietà delle donne, verificatosi fin dai primi giorni, si sviluppò man mano un movimento organizzato e consapevole.
La rete di solidarietà per offrire nascondiglio, cibo, collegamento ai dirigenti del Cln e dei partiti antifascisti, per fornire aiuto alle vittime (arrestati, deportati) e alle loro famiglie, si estese grandemente; vi lavorarono le persone più diverse, di ogni estrazione sociale, da aristocratiche romane a popolane delle borgate.
Ho più volte ricordato in conferenze e celebrazioni alcune di loro e mi scuso per le tante, tantissime, i cui nomi non sono in grado di far emergere dal gorgo della memoria. Ci conoscemmo, con molte, dopo la Liberazione, perché la divisione di Roma in zone, a scopo di maggior sicurezza, creava dei compartimenti stagni. Ricordo ancora tantissime di loro.
Restano vive nella memoria anche le lotte per il pane, che cominciavano quasi spontaneamente, con un gruppo di donne che bloccava un «cascherino» e gli sottraeva il pane dalla cesta. Poi vennero gli assalti ai forni e infine ai magazzini; in qualche occasione si sparò e una donna, una borgatara, Caterina Martinelli, venne colpita a morte. Anche le manifestazioni per ottenere la liberazione degli uomini razziati dall’organizzazione Todt avevano come protagoniste le donne. L’uccisione, davanti a una caserma di viale Giulio Cesare, della moglie di un razziato, Teresa Gullace, è divenuta celebre perché ha ispirato Rossellini per il personaggio di sora Pina in Roma città aperta.
I tedeschi non avevano mai rispettato le loro dichiarazioni che Roma sarebbe stata «città aperta». In particolare, dopo lo sbarco degli Alleati del 22 gennaio 1944 ad Anzio, transitavano nella città carri armati, automezzi e truppe, che attiravano sulla capitale i bombardamenti americani. I Gdd organizzarono una vastissima agitazione con la diffusione di manifestini firmati «Comitati femminili di lotta per Roma città aperta», con comizi volanti nei mercati e nei luoghi di lavoro: il 12 marzo numerosi gruppi di donne confluirono a piazza San Pietro, in occasione del discorso di Pio xii per la ricorrenza della sua incoronazione, manifestando al grido di «Viva la pace e fuori i tedeschi».
Dopo la liberazione di Roma, nel giugno del ’44, avevo acquisito anche una modesta esperienza di lavoro legale tra le donne. Facevo parte del Partito della sinistra cristiana (Psc) in cui militava un gruppo numeroso (specialmente se si considerano le ridotte dimensioni di quella formazione politica) e affiatato di giovani compagne impegnate e capaci. Alcune erano state le «staffette» romane del periodo della cospirazione antifascista, prima del 25 luglio 1943, altre provenivano dalla lotta clandestina e dai Gdd durante i nove mesi dell’occupazione nazista. Per molte avevano contato i legami familiari, ma la cospirazione antifascista e la lotta clandestina costituivano il retroterra in cui si erano formate all’attività politica. Alcune di esse, come si vedrà , sarebbero divenute dirigenti dell’Udi. In seguito, dopo la liberazione del Nord, ci sarebbe stato nel Psc l’apporto di donne di grande personalità , tra le quali Lucia e Adda Corti, Fulvia Sebregondi e Lisetta Giua, allora compagna di Vittorio Foa.
Era allora opinione diffusa che le donne italiane, ancor più degli uomini tenute dal regime fascista lontane dalla possibilità di formarsi una coscienza politica, non fossero mature per entrare nei partiti. Era questo un atteggiamento intellettualistico o, meglio, snobistico, basato su poche settimane di vita legale e riferito soltanto alle donne di Roma e del Mezzogiorno, poco capace di comprendere il valore, per la coscienza delle donne, dell’esperienza della guerra, delle sofferenze a essa legate, delle responsabilità che erano state costrette ad assumersi.
All’inizio dell’ottobre del 1944, al i convegno dei quadri del Psc, avevo svolto una relazione (credo la prima della mia «carriera») sulle «masse femminili», destinata a far comprendere alle donne come la politica non fosse solo cosa da maschi e soprattutto a convincere gli uomini di quanto fosse importante far avvicinare le donne all’impegno pubblico, per farne un sostegno della nascente democrazia. La preoccupazione per lo scarso coinvolgimento delle donne alla vita dei partiti era diffusa: «Dobbiamo vincere la grande riluttanza che vi è nel mondo femminile, specialmente nel Mezzogiorno, a iscriversi e a prendere la tessera» avrebbe lamentato De Gasperi al congresso della Dc ancora nell’aprile 1946.
Va precisato che a me, ma non si trattava soltanto di un’esperienza individuale (penso anzi che tale sia stato a lungo il tipico atteggiamento di moltissime, forse della maggioranza delle donne), non interessava la «politica» nel senso della professione o della carriera. Questa ipotesi non era ancora presente nel nostro immaginario: l’esigenza casomai era agire, «fare» qualcosa di utile. Ovviamente eravamo ben lontane dal supporre che il personale potesse essere politico e tantomeno che la politica si potesse porre al servizio del personale. In quel convegno venne approvato un ordine del giorno nel quale si chiedeva al governo e agli Alleati di favorire «la partecipazione, la più larga possibile, delle masse femminili alla vita del paese, immettendole adeguatamente in tutti gli istituti della vita pubblica». Si faceva riferimento in particolare all’elezione delle donne nelle commissioni interne e nei posti direttivi del sindacato, alla nomina di donne in posti di responsabilità in tutti gli organismi democratici del paese e si sollecitava la concessione del voto amministrativo e politico. Ho motivo di pensare che, nell’autunno del 1944, le dirigenti donne fossero già sensibili alla tematica dell’emancipazione. Di questa esplicita o sottesa consapevolezza dei quadri femminili non appare però nulla nel dispositivo finale dell’ordine del giorno che, al contrario, forse per preoccupazioni diplomatiche dei dirigenti del partito nei confronti della Santa Sede, contiene sia un’indicazione di contenuti programmatici assai «moderati», sia una polemica nei confronti dei diritti delle donne a dir poco sconcertante:
Ritenendo che ogni rivendicazione dei diritti politici della donna vada intesa nel concreto significato storico, come momento della ricostruzione della vita democratica del paese e che pertanto debba denunciarsi ogni rivendicazione in sé e per sé di tali diritti come sterile atteggiamento che richiama il femminismo, fenomeno non di massa e come tale reazionario [il corsivo è mio] / invita tutte le donne cattoliche italiane a partecipare attivamente alla vita delle organizzazioni democratiche del paese, sicuro che tale attiva partecipazione delle masse femminili cattoliche garantirà nel nuovo Stato democratico, insieme con i loro particolari interessi e aspirazioni, il rispetto della religione, la libertà della persona, l’integrità della compagine familiare, e, attraverso l’autogoverno delle masse popolari, una politica internazionale di pace.
In quanto responsabile femminile del Psc, e con questo retroterra, ho partecipato fin dall’inizio ai contatti preliminari per la costituzione del Comitato di iniziativa dell’Udi, avviati il 12 settembre del ’44, una volta ripresa la vita legale dopo la liberazione di Roma il 4 giugno. Si concordò di costituire un Comitato di iniziativa provvisorio composto da due compagne del Pci, due del Psi e due del Psc, oltre «eventualmente ad altri elementi senza partito o di altri partiti», per dar vita a un’associazione unitaria delle donne, l’Udi.
Ho ritrovato un appunto con i compiti che avevamo prefissato:
1 Pubblicazione di un manifesto invitante a costituire l’Unione delle donne italiane e raccolta delle firme in calce ad esso;
2 Preparazione di un numero straordinario di noi donne (1º ottobre) dedicato all’Udi, preceduto da un comunicato stampa per i giornali di «opinione» (a Roma: Tempo, Corriere della Sera, Quotidiano, Domenica ecc.);
3 Contatti con il governo, il Cln, la Cgil ecc.;
4 Campagna di stampa, sul voto amministrativo e politico alle donne, sui problemi dell’alimentazione dei bambini (tesseramento secondo le età ), nonché sulle scuole, i nidi e l’assistenza ai bambini profughi, sul problema del rimpatrio dei prigionieri, stabilendo criteri prioritari per il rimpatrio (durata della prigionia, numero dei figli a carico, lavoratori agricoli), nonché l’assistenza alle famiglie dei prigionieri e l’adeguamento dei sussidi e delle pensioni al carovita, sul problema del baraccamento, rimpatrio e alloggio per gli sfollati, sulla «compilazione di una precisa serie di rivendicazioni sindacali delle masse femminili», controllo organizzativo e politico dell’associazione sul piano nazionale.
A quest’ultimo fine si decideva di inviare una circolare ai partiti invitandoli a far sorgere comitati provinciali e locali o a prender contatto con le «organizzazioni femminili di massa spontanee esistenti»; si concordavano poi norme organizzative (comitati provinciali, circoli «aperti a tutte le donne non compromesse con il fascismo» o «note come immorali» o «capaci di disgregare l’associazione come disonestà e personalismi»).
Si fissava in 5 lire il prezzo della tessera, valevole dall’ottobre ’44 al dicembre ’45. noi donne sarebbe divenuto l’organo dell’associazione.
L’obiettivo dell’operazione era offrire una sponda al movimento dei Gdd che, sotto l’egida del Cln, operavano nell’Italia occupata e, al tempo stesso, di mobilitare sul terreno democratico e chiamare all’attività politica e all’opera di ricostruzione del paese le donne dell’Italia liberata. In particolare, ci si preoccupava di ottenere per le donne, da subito, senza attendere una futura assemblea costituente, il diritto di voto. Promotrice dell’iniziativa era stata Rita Montagnana, del Pci, affiancata da altre due dirigenti storiche comuniste, Egle Gualdi, che tutti chiamavano col nome di battaglia di Sandra, donna con un passato straordinario di lotta antifascista, e Maria Baroncini, compagna di Mauro Scoccimarro. La figlia di Pietro Nenni, Giuliana, assieme alla moglie di Giuseppe Romita, Maria, veniva alle riunioni per il Partito socialista. Luigia Cobau e io rappresentavamo il Psc. Successivamente nel Comitato di iniziativa entrarono Josette Lupinacci, Bastianina Musu ed Emilia Siracusa Cabrini. Josette de Menasce Lupinacci, moglie di Manlio, giornalista già famoso, era liberale, credo abbastanza di destra, ma aveva un passato femminista. Un’altra militante di lunga esperienza era Bastianina Musu, del Partito d’azione, madre di Marisa (già staffetta del Comitato degli antifascisti romani, poi gappista e medaglia d’argento della Resistenza). Emilia Siracusa Cabrini era la rappresentante della Democrazia del lavoro, una concentrazione di democratici soprattutto meridionali, e non penso avesse molta esperienza politica. Probabilmente era stata catapultata nell’iniziativa dal suo partito. L’invito alle donne Dc di far parte del Comitato di iniziativa dell’Udi venne avanzato in un incontro tra Rita Montagnana, Giuliana Nenni e la sottoscritta, ad Angelina Cingolani, dirigente democristiana, proveniente dalla tradizione non integralista del vecchio popolarismo, sensibile ai problemi delle donne: lei si riservò di rispondere.
La risposta non arrivò; interpretammo il silenzio come un rifiuto. Poiché il programma dell’Udi si articolava su tre filoni fondamentali (partecipazione politica, azione diretta a rimuovere le discriminazioni e le disparità , attività concreta sui problemi più brucianti e immediati) era difficile che su di esso potessero esistere divergenze; si trattava infatti di tematiche giuridiche e sociali comuni a tutte le forze impegnate nei Cln. Ma, sebbene facess...