Maroni il tessitore frena il ribaltone
La Lega sotto i riflettori, Roberto Maroni in azione. Nella giornata più difficile di Bossi – va col Pds? resta con Forza Italia? si spacca il partito? – è il ministro dell’Interno che conduce il gioco. Provoca, media, ricuce. Una partita in tre tempi che finisce dove era cominciata, ma dopo un equilibrismo da brividi. Si parte dalla prospettiva, data per certissima – dopo il voto di mercoledì alla Camera – di un ribaltone: governo Lega-Pds-Ppi aperto, forse, a qualche colomba di Forza Italia. Primo tempo, la prospettiva si ribalta: Maroni ispira e guida cinquanta dissidenti anti-Bossi (e anti-Pds) e annuncia che non starà in nessun altro governo che non sia questo. Forza Italia esulta. Secondo tempo: Maroni frena i dissidenti e rassicura Bossi, non ci sarà spaccatura, dice, meglio restare uniti su posizioni diverse. I dissidenti e Bossi si incontrano, parlano per un’ora e mezzo: l’importante è che non si vada a un «governo organico» col Pds, concludono, e la parola chiave è organico. Una maggioranza più ampia, col Pds e «altri in mezzo» come dice Bossi, si può fare senza rompere la Lega. I dissidenti convengono: se ci fosse anche qualche forzista, allora... Atto terzo: Maroni e lo stato maggiore della Lega studiano, con Bossi, la «sfiducia costruttiva» al governo. Si traccia un programma alternativo a quello di questo governo, poi si vede chi ci sta: popolari, Pds, e chi vuole. Eccoci daccapo, ma in posizione più morbida, sfumata. Come voleva Maroni. Un passo indietro, al punto di partenza.
Sono le 11 e mezzo di mercoledì sera, Roberto Maroni entra all’Albergo Nazionale, davanti a Montecitorio. Lo aspettano i 36 leghisti dissidenti – i fedelissimi del Polo – che hanno firmato il documento (si dice scritto o quanto meno ispirato proprio da Maroni) contrario all’accordo con il Pds. Lo hanno firmato in 53 fra deputati e senatori, ma qualcuno non è venuto. In sala ci sono Luigi Negri, Marcello Lazzati (amico di antica data di Maroni), Francesca Valenti, Gualberto Niccolini, i senatori Renato Ellero, Mario Rosso. Racconta Niccolini: «Maroni ci ha spiegato i termini dell’accordo con Pds e Ppi, ci ha raccontato che il giorno prima D’Alema e Buttiglione nella stanza di Bossi discutevano di un governo Lega-Ppi a guida Lega, con l’appoggio esterno del Pds. Il Pds avrebbe indicato un paio di ministri tecnici: Lavoro, Giustizia». Presidente Pivetti o, come vorrebbe Bossi, il sindaco di Milano Formentini. I dissidenti hanno orrore dell’asse Lega-Pds: gli elettori già li inondano di fax ingiuriosi. «Sono arrivati anche a me» racconta il bossiano Leoni Orsenigo. Alle due di notte si congedano così: non voteremo la sfiducia a Berlusconi, e se Bossi non vorrà accettare la nostra posizione ce ne andremo. «C’è già una costola leghista del gruppo misto della Camera pronta a far da contenitore per quelli di noi che usciranno. Si chiamerà gruppo federalista liberaldemocratico» rimugina il triestino Gualberto Niccolini. «Io direi di votare la fiducia al governo» annuisce poi Francesca Valenti. Col governo «dei Giuda» come lo chiama Berlusconi, mai.
La mattina si apre con il Consiglio dei ministri. Il destino del ribaltone appare incertissimo: se anche ci fossero i numeri (nonostante l’esodo dei dissidenti) sarebbe un margine risicato su cui né D’Alema né Buttiglione accetterebbero di scommettere. Da Palazzo Chigi escono, verso le 11, Maroni e Tatarella a braccetto, vanno a prendere il caffè. «Non sono disponibile a fare il ministro in una nuova maggioranza, in un governo diverso» dice Maroni. Il vicepresidente Tatarella, gran mediatore e artefice di molti accordi, sorride. Per tutti è il segnale che l’alternativa è naufragata. Clemente Mastella, ministro Ccd, è raggiante: «Si va a un Berlusconi bis, Maroni ha fatto delle dichiarazioni di grande dignità . Ha paura di fare il Tambroni di sinistra». Alessandro Meluzzi, forzista in ascesa: «Era chiaro: o si spaccava Forza Italia, o si spaccava la Lega. Si è spaccata la Lega. Del resto, la prima regola delle congiure è non raccontarle in anticipo». La congiura dei Giuda è fallita, ride Meluzzi: Berlusconi vivrà . Ma la giornata è ancora lunga. In Transatlantico è già partito il mercato per comprare e vendere gli incerti: Bossi, D’Alema e Buttiglione cercano di tirare dalla loro parte la sinistra di Forza Italia – Dotti, Della Valle. Forza Italia cerca adepti nella Lega. «Vogliono comprarci» ringhia Bossi, e già circolano le cifre. Erminio Boso racconta che «quelli là » offrono a ciascun leghista disposto a passare con loro duecento milioni una tantum, o venticinque milioni al mese per due anni. Corrado Peraboni a pranzo conferma: «La cifra è 25 milioni al mese».
Roberto Maroni sente aria di massacro e corregge svelto il tiro: «I nostri parlamentari non sono in vendita» dice «la Lega non si spacca. Ieri sera alla riunione ho chiesto: se vi offrissero qualcosa per spaccare la Lega accettereste? Tutti hanno detto no. La mia indisponibilità a fare il ministro di una nuova maggioranza è un fatto personale, di coerenza. Tornerò a fare il soldato della Lega». Circolano i primi sondaggi: la Cirm ne ha uno che dice che il 52 per cento degli italiani si pronuncia per un «governo di tregua» che comprenda anche Lega, Ppi e progressisti, il 42 per cento un Berlusconi bis. Il ribaltone riprende quota. Nella stanza di Bossi, presenti Gnutti e Speroni, arrivano in delegazione i dissidenti: sono Negri e Lazzati. Un’ora e mezzo a discutere. «Sono ottimista» dice uscendo Negri «tra noi ci sono dissensi ma non rotture. Potremo evitare fuoriuscite, anche di uno solo. Molto dipenderà da come finiranno i contatti con Pds, Ppi e Forza Italia. Se ci fosse l’adesione della parte moderata di Forza Italia al governo, questo avrebbe un baricentro politico più equilibrato.» Prende quota l’operazione «sfiducia costruttiva» studiata per accogliere i moderati di Forza Italia. Maroni legge e rilegge il testo, quello finale può andare. Salvo novità , ovviamente. Al voto di fiducia di mercoledì mancano ancora cinque giorni. Per ora il «governo di Giuda» un po’ addolcito è ancora lì. Attraversa il Transatlantico Francesco Storace, An: «Ho invitato a cena i colleghi della Lega, l’ultima cena da maggioranza. Pago io, ho detto. A ciascuno una borsa con trenta denari».
(1994)
Uno spot in faccia a Bossi
Lo spot preparato dalla Fininvest, società commerciale editrice di tv, contro Umberto Bossi, politico e capo della Lega, è concepito così: sul teleschermo appare, dentro una cornice, l’immagine di Bossi che quasi piegato in due arringa i suoi dal palco del Palatrussardi di Milano, congresso leghista, una settimana fa. Dice Bossi, urlando arrochito: «Richiamo le istituzioni a verificare se, nei confronti della Fininvest, non esistano gli estremi per configurare in quelle televisioni lo strumento per la ricostituzione del Partito fascista. Se così fosse si proceda a oscurare quelle televisioni». In basso sul video appare una scritta, il commento Fininvest: «Ogni pretesto va bene per chi vuole oscurare la nostra libertà che è anche la vostra». Stampatello, in grande: «PENSATECI».
Dicono che l’abbia pensato direttamente il presidente Fidèl, Fedele Confalonieri, il quale del resto non ha nascosto in varie interviste il suo fastidio per gli attacchi politici e giudiziari portati all’azienda dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, azienda che lui provvisoriamente dirige. Dicono anche che Enrico Mentana gli abbia dato una mano a realizzare lo spot.
Fatto sta che il manufatto anonimo (nessuna firma, nessun messaggio che avverta se si tratta di propaganda, pubblicità , spazio editoriale) è andato in onda per la prima volta martedì sera su Canale 5 nel mezzo di Striscia la notizia, programma di satira, e poi ieri per decine di volte sulle reti Fininvest. «Molto efficace, direi di efficacia sgarbiana» sogghignava divertito ieri mattina Vittorio Sgarbi, presidente della commissione Cultura della Camera: «Bossi è una caricatura strepitosa, non trova? La caricatura di se stesso. Non è detto nemmeno che sia uno spot anti-Bossi. L’Umberto è così simpatico, magari la gente si convince di quel che dice». Magari, ma «l’Umberto» non si è divertito per niente.
Raccontano che ne abbia parlato subito con Irene Pivetti, martedì sera. Riferiscono che neppure la presidente si sia divertita, essendo tra l’altro già alle prese con gli attacchi del Polo per le posizioni «bossiane» espresse al congresso. A questo si aggiunga che la commissione Tv voluta dalla presidente della Camera – quella per cui Bossi l’ha pubblicamente ringraziata proprio dal palco del Palatrussardi, dicendo che la commissione sarebbe servita a «togliere le tv a Berlusconi» – stenta a decollare: Forza Italia non indica i nomi dei deputati che dovranno farne parte. «Per me, quella commissione, la dobbiamo boicottare» dice Pietro Di Muccio. Le mani sulla tv, la Rai, la campagna elettorale alle porte.
In un Transatlantico già surriscaldato e in «prepartita» lo spot anti-Bossi segna ufficialmente l’avvio della campagna elettorale. Progressisti, Lega, Patto Segni e popolari insorgono di prima mattina, scrivono interrogazioni e vanno in processione dal garante. Vincenzo Vita, Pds, parla al ministro delle Poste Guarino, quando dice che «gli spot politici sono armi improprie, vanno definitivamente aboliti, anche al di fuori del periodo di campagna elettorale».
Guarino, che domani porta in Consiglio dei ministri la sua proposta sulla par condicio, prenda nota. Vita fa anche notare che «gli spot sono utilizzabili da chi ha molte risorse o molte reti. In Italia solo Berlusconi assomma le due caratteristiche». Argomento che fa vacillare anche qualcuno nel Polo, se Sgarbi ammette che «in effetti questo è il punto debole dell’iniziativa; viene usato un potere economico forte per fini politici». I leghisti sono furibondi. Luca Leoni Orsenigo si aggira per i corridoi della Camera a raccogliere firme per l’interrogazione al ministro delle Poste e la lettera al garante. Si consulta con Antonio Marano, esperto del ramo. «Meglio insistere sul fatto che non è pubblicità , quindi è propaganda gratuita fatta dalla Fininvest in favore del Polo» convengono. «Potrebbe persino essere una forma di finanziamento illecito dell’azienda di Berlusconi a Forza Italia» azzarda Orsenigo.
La nota ufficiale del Carroccio è durissima: «Bossi ha usato il condizionale, lo spot usa l’imperativo. Questo sì che è fascismo. Chi ha finanziato lo spot? La società li deve fatturare tutti, ci mostrino la fattura, o saremmo autorizzati a pensare che questa pubblicità sia stata pagata coi soldi trovati dalla magistratura sui libretti al portatore, che Confalonieri dice essere di proprietà di Berlusconi». Al Senato Rinaldo Bosco, leghista, era stato il primo a presentare ieri mattina un’interrogazione congiunta con colleghi progressisti e popolari. Stamattina alle 11 tutti dal garante: Sandra Bonsanti, Giuseppe Giulietti, Rosy Bindi, i pattisti di Segni, e i leghisti andranno da Santaniello a chiedere che blocchi subito ogni forma di pubblicità politica in tv.
(1995)
Un flirt d’interesse
Allora, questo controribaltone, lo facciamo? Capannello di leghisti ed ex leghisti, ieri pomeriggio alla Camera, mentre in aula si vota e in corridoio ciascuno parla d’altro. Allora, chiedono gli ex leghisti già da tempo riallineati sulla destra: tornate con noi? Dall’altra parte, fra i lumbard, imbarazzo, sorrisetti, mezze frasi.
Il problema è che Bossi non c’è, e quando non c’è Bossi a dar la linea nessuno sa che dire. Nessuno che si azzardi a prevedere cosa passa per la testa del capo, nessuno che sappia dire se questa riunione «delle opposizioni», la riunione congiunta di An, Lega e Forza Italia contro la Finanziaria, sia un «fatto tattico» come dice Fini, «un avvertimento a D’Alema» come suggeriscono i forzisti, oppure davvero una prova tecnica di controribaltone dopo l’onta suprema del ribaltone, appunto, quando Bossi si sfilò dal governo e fece franare Berlusconi, ricevendone in cambio insulti e promesse d’odio eterno. Ma in politica i sentimenti non hanno albergo, e dunque nessuno si è stupito, giovedì, a vedere Berlusconi, Fini, Buttiglione e Casini ben contenti di sedere accanto al capogruppo leghista Comino, a sentire Biondi che diceva «sono un padano preterintenzionale» e a trovar tutti felici e contenti, come ai vecchi tempi. Ma Bossi? Bossi non c’era, e invece c’era due settimane fa in Veneto a bloccare sul nascere il tentativo dei suoi di fare fronte con Forza Italia.
Commento di Antonio Marano, uno che ha fatto il sottosegretario per Bossi nel governo Berlusconi: «Questo film l’ho già visto». Nel senso che, dice, «ora tocca a Comino far quello che feci io per tanto tempo, cioè buttar giù i ponti: il ponte fra Polo e Ulivo, in questo caso, perché vede, la Lega è come una palla che rimbalza fra destra e sinistra, e per farlo ha bisogno di spazio, serve che i due poli siano il più lontano possibile. Quando si avvicinano e si stringono, la palla si ferma». Bisogna impedire l’accordo fra Polo e Ulivo, insomma: le «larghe intese», il patto sulle riforme. Niente controribaltone, solo tattica.
Ma sì, si stringe nelle spalle Gianfranco Fini: «Sono solo intese tattico-parlamentari per mettere in difficoltà il governo. Del resto capitava anche a noi, quando eravamo Msi, di votare coi comunisti contro il governo. Finché la Lega resta secessionista, le nostre posizioni sono lontanissime».
E poi – si avvicina Marco Follini, vicesegretario Ccd – «vede, Bossi non c’è, alle votazioni, ed è un’assenza eloquente. Loro puntano al secessionismo, e questo chiude la strada a qualunque alleanza». E però, tanto per stare tranquilli, a sinistra i loro conti li hanno fatti. Poche chiacchiere, valgono i numeri, ride Fabio Mussi: «La verità è che il Polo se la riprenderebbe pure, la Lega. Ma la Lega deve restare sulle posizioni di Bossi, il dio Po e la madonna Ticino, sennò è fregata. E poi guardi, anche se passano di là , i leghisti, ad avere la maggioranza gli mancano sempre», conta sulla punta delle dita, «quattro, cinque, sei: otto voti».
(1996)
D’Alema guastafeste al weekend dell’Ulivo
Li ha lasciati tutti di sasso. Massimo D’Alema al castello di Gargonza è arrivato per primo ed è partito per primo, è rimasto quelle sette-otto ore di cortesia, giusto per non indispettire gli alleati di governo già reduci da una settimana non facile, ha ascoltato Prodi e Augias, Paissan ed Eco, Omar Calabrese nelle vesti di gentile organizzatore del fine settimana in canonica, ha salutato l’eccentrico padrone di casa, conte Guicciardini Corsi Salviati, ha sopportato le incursioni del Gabibbo e le «provocazioni intellettuali» di Petruccioli (Maurizio Costanzo non c’era, Manconi nemmeno, tutti e due con la febbre), le barzellette di Eco e di Vattimo e poi, quando è stato il suo turno, è salito sul palco e ha detto: signori, c’è un grosso equivoco. La politica fuori dai partiti non esiste, e l’Ulivo per ora non è un partito. I comitati, questi raggruppamenti della cosiddetta società civile – ha aggiunto a uso degli esponenti della società medesima, riuniti lì a convegno – non servono a governare, ma solo a fare una politica «tardosessantottesca».
«Scusatemi se sarò spigoloso» aveva esordito prima di spiegare a politici e intellettuali dell’Ulivo che, nell’ordine: a) la distinzione fra politici e intellettuali (titolo della giornata dei lavori) è sbagliata, perché «la politica è una delle attività specialistiche della professione intellettuale»; b) bisogna confrontarsi con l’Europa e in Europa ci sono partiti, non aggregazioni; c) l’Ulivo è un cartello elettorale, «per ora un’alleanza e nessuno sa cosa sarà in futuro. O lo trasformiamo in partito, e allora facciamo un programma comune ed eleggiamo un segretario, ma mi pare difficile. La strada indefinita dell’Ulivo che è qualcosa di più della somma dei partiti della coalizione, mi risulta incomprensibile».
Stupefatti gli astanti, sinceramente costernato Omar Calabrese che due ore prima aveva lanciato l’iniziativa del doppio tesseramento: la prima tessera, come ciascuno la vuole, la seconda dell’Ulivo, «ne abbiamo già distribuite 25mila, altre 100mila sono pronte». In effetti l’iniziativa era sembrata un poco prematura (Mattarella: «Non ne so niente». I pidiessini del giro di D’Alema: «La distribuiscono gratis, quella dell’Ulivo?»). Niente lasciava ancora immaginare la bastonata che D’Alema avrebbe dato ai convegnisti, tanto che tutti, entrando nell’antico borgo, rilasciavano dichiarazioni di speranza e di concordia.
Prodi: «Abbiamo scelto per l’Ulivo la strada intermedia, né cartello elettorale né partito». Calabrese: «Abbiamo scelto una forma a metà fra movimento e partito, se non ci riusciamo me ne vado». Don Mazzi: «Una bella avventura, con tante teste diverse». Paolo Flores D’Arcais: «L’Ulivo deve essere qualcosa di più dei partiti che compongono la coalizione. Qui è in questione il monopolio della politica di mestiere». E invece ecco il requiem al movimentismo sessantottesco di D’Alema. Nervosi e silenziosi i popolari, Prodi e Andreatta si attaccano al telefono, il giovane vicesegretario Ppi, Enrico Letta, a domanda precisa: «Non so che dire. Mi è sembrato spericolato il passaggio in cui D’Alema dice che abbiamo perso le elezioni, e che siamo solo stati più bravi a interpretare la legge elettorale. Incomprensibile quello in cui ha spiegato che i tre partiti da cui nasce l’Ulivo, Pci, Dc e Psi, in quarantacinque anni hanno perso 15 milioni di voti». «Più che incomprensibile, è campato per aria» aggiunge seccato l’ulivista Claudio Petruccioli.
E quando la pa...