Introduzione. Una moneta per la pace
di Luca Fantacci
John Maynard Keynes morì il giorno di Pasqua del 1946 per ferite di guerra. Non aveva combattuto in prima linea, ma aveva presidiato un altro fronte, forse ancora più decisivo per la guerra e per la pace: quello in cui era stato disegnato un nuovo ordine economico internazionale. Non aveva riportato lesioni, ma era stato minato nel corpo e nello spirito da cinque anni di intenso lavoro e di estenuanti negoziati, volti a formulare un piano e sostenerlo, prima presso il governo inglese poi nelle trattative bilaterali con gli Stati Uniti. Il colpo letale fu la delusione nel vedere il suo progetto stravolto e tradito: il sistema approvato alla conferenza di Bretton Woods, come Keynes intuì, avrebbe solo perpetuato quegli squilibri che nei trent’anni precedenti avevano consegnato il mondo alla depressione economica e alla guerra.1
Il progetto di riforma del sistema monetario internazionale al quale Keynes dedicò gli ultimi cinque anni di vita costituisce il suo vero testamento spirituale. Il nome di Keynes è comunemente associato, tanto dai detrattori quanto dai sostenitori, a misure di espansione fiscale, di investimento pubblico, di spesa in deficit e, ancor più genericamente, di intervento statale: le cosiddette «politiche keynesiane». Ma a ben vedere Keynes non fu né il solo, né il primo, né il più fervente fautore di simili politiche, da applicare come contromisure alle crisi economiche. Anzi, dal suo punto di vista, si trattava di meri palliativi per un sistema affetto da depressioni cicliche. L’obiettivo ultimo non era curarle, ma prevenirle.2 Come aveva cercato di spiegare a Lord Macmillan, presidente dell’omonima commissione istituita dal governo inglese nel 1930 per indagare cause e rimedi della crisi, «non è questione di fornire un ospedale economico. Penso invece che siamo costretti ad avere un ospedale solo perché, usando le armi sbagliate, abbiamo fatto così tanti feriti».3 La pianificazione postbellica offriva l’opportunità di ricostruire il sistema su basi nuove e più sane. Combattere la crisi con politiche espansive era il meglio che si potesse fare a regime vigente: la necessità dell’intervento statale, dunque, costituiva per Keynes una constatazione, non un auspicio.4 Ma dopo due guerre e una depressione mondiali era giunto il tempo di definire regole nuove, per costruire un sistema immune da crisi. La sua risposta fu la riforma monetaria.
I testi raccolti nel presente volume segnano i punti fondamentali della parabola che inizia con il primo coinvolgimento di Keynes nella pianificazione postbellica nel 1940, attraversa le principali fasi di elaborazione e promozione della proposta e si conclude con il suo definitivo accantonamento in favore del piano statunitense, approvato alla conferenza di Bretton Woods nel luglio del 1944 e poi varato alla conferenza di Savannah nel marzo del 1946, appena un mese prima della morte di Keynes.5
La proposta di una moneta internazionale per gli scambi commerciali costituisce il coronamento dell’intera opera di Keynes, la conclusione coerente di tutta la sua riflessione teorica, la risposta strutturale agli squilibri economici su cui si era concentrata la sua analisi. Non è un caso che, vent’anni prima, avesse dedicato alla riforma monetaria il primo dei suoi trattati economici. D’altro canto, come proverò a mostrare, proprio il rifiuto della moneta internazionale proposta da Keynes, e la successiva instaurazione di un regime monetario internazionale basato sull’uso di una moneta nazionale come il dollaro – il cosiddetto sistema di Bretton Woods – ha portato all’acuirsi di quegli stessi squilibri, e delle conseguenti tensioni politiche. A distanza di settant’anni, la proposta di riforma monetaria di Keynes costituisce ancora il suo lascito più importante, il suo insegnamento più disatteso, la sua proposta più promettente.
Un nuovo ordine economico
Fin dall’inizio del conflitto mondiale Keynes viene coinvolto nella progettazione di un ordine economico internazionale per il dopoguerra. Siamo nel 1940. In Germania, il ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank, Walther Funk, ha già elaborato – nell’ambito del «Nuovo Ordine» – una proposta che prevede tra l’altro, per i pagamenti esteri, il ricorso a meccanismi di compensazione in alternativa all’oro. La propaganda tedesca promette: «L’oro non controllerà mai più i destini di una nazione». Il governo britannico si prepara a replicare, presentandosi come paladino dello status quo, favorevole al ripristino del regime aureo prebellico. Nonostante l’instabilità che aveva caratterizzato la sua riedizione nel periodo fra le due guerre, il gold standard continua a essere associato, nel Regno Unito, alla prosperità e all’espansione commerciale dell’epoca vittoriana, autentica età dell’oro dell’Impero britannico.
In novembre, Keynes viene interpellato in proposito da Harold Nicolson, funzionario del ministero dell’Informazione, il quale gli chiede di tracciare le basi di una contropropaganda da opporre ai disegni tedeschi. Keynes però non esita a prendere apertamente le distanze dall’orientamento ufficiale inglese. La sua risposta è chiara: «Ovviamente, non sono l’uomo adatto per predicare le bellezze e i meriti del gold standard d’anteguerra».6
Infatti, già vent’anni prima Keynes aveva osteggiato il ritorno all’oro, definendolo una «reliquia barbarica» e un «dogma consunto».7 Nel 1925 aveva attaccato il cancelliere Winston Churchill per la sua decisione di riportare il Regno Unito alla parità aurea prebellica, prevedendone gli effetti deflativi.8 In seguito, allo scoppio della crisi, aveva potuto osservare il dispiegarsi di quegli effetti per opera dell’auri sacra fames, l’«esecrabile fame dell’oro», che sottraeva la moneta alla circolazione e aggravava la depressione.9 Nella Teoria generale (1936), aveva apertamente imputato al regime aureo la tendenza ad acuire non soltanto la crisi economica, ma anche i contrasti politici internazionali: «Non si è mai concepito nella storia un metodo tanto efficace per porre i vantaggi di ciascun paese in contrasto con quelli dei suoi vicini quanto il gold standard internazionale».10
In effetti, molte profezie di Keynes avevano trovato una triste conferma nello scoppio della crisi prima e della guerra poi. Tuttavia, non si era accontentato del ruolo di Cassandra e, in tutte le sue opere principali, oltre a criticare il sistema esistente, aveva provato anche a prefigurarne uno nuovo, indicando i principi che avrebbero dovuto informarlo. Fin dalla Riforma monetaria del 1923, l’obiettivo di Keynes è far sì che la moneta non sia dogmaticamente identificata con una merce, come se si trattasse di un bene in sé, ma sia invece regolata scientemente e scientificamente quale mezzo e misura per lo scambio dei beni reali.11 La Seconda guerra mondiale fornisce un’ulteriore prova dei danni provocati dal vecchio sistema monetario internazionale e, insieme, l’occasione per progettarne concretamente uno nuovo.12
Proprio in quest’ottica, agli occhi di Keynes, il piano tedesco non è affatto da disprezzare. Al contrario: «Se prendiamo il piano di Funk al valore facciale, è eccellente ed è esattamente ciò che dovremmo pensare di fare anche noi».13 Il principale pregio della proposta tedesca è, secondo Keynes, l’idea che per scambiare servano beni, non moneta, e che, senza bisogno di un preventivo accantonamento di metallo, sia sufficiente una pura unità di conto per registrare debiti e crediti commerciali, consentendo scambi in compensazione. Il suo principale difetto è stabilire che la compensazione debba essere attuata su base bilaterale, e che quindi i crediti derivanti dall’esportazione di beni in un paese possano essere usati solo per acquistare beni da quel medesimo paese. Questo significa non solo ridurre la libertà di commercio, ma anche, di conseguenza, piegare continuamente i rapporti di scambio all’interesse del più forte. Perciò, in un precedente documento di contropropaganda pubblicato dall’Ambasciata britannica a Madrid, Keynes non aveva esitato a individuare nel piano tedesco «sostanzialmente uno strumento di sottomissione e corruzione; una variante aggiornata dei dispositivi di scambio che la Germania si è tanto impegnata a elaborare negli ultimi anni per ottenere qualcosa in cambio di niente».14 Si tratta, dunque, di mostrare che il principio è buono ma l’attuazione cattiva, e che la Gran Bretagna può offrire un sistema migliore proprio in quanto multilaterale, e quindi libero da costrizioni.
Ma Keynes non vuole limitarsi alla propaganda. Anzi, è convinto che la migliore propaganda sia la capacità di offrire un’alternativa migliore. E non ha dubbi circa i principi a cui dovrebbe rispondere una moneta internazionale, per essere davvero tale: «Un particolare tipo di moneta è un mero meccanismo, che può funzionare bene o male. Ciò che qualifica una moneta sono i beni che essa può acquistare».15 È però costretto a riconoscere che un’alternativa concreta ancora non esiste. Così, si adopera per elaborarla.
L’occasione è offerta da una richiesta del ministro degli Esteri, Lord Halifax, il quale, tramite il cancelliere dello Scacchiere, Sir Kingsley Wood, propone a Keynes di redigere «un documento ufficiale per esporre il carattere fallace delle promesse tedesche».16 Keynes accoglie l’invito e produce una serie di «Proposte per contrastare il “Nuovo Ordine” tedesco». La prima versione è già pronta il 25 novembre, e l’intento è chiaro fin dalle prime battute: «Gli autori del Trattato di pace di Versailles fecero l’errore di trascurare la ricostruzione economica dell’Europa, nella loro ansia per i confini e per le concessioni politiche. A tale negligenza sono seguite grandi sventure per tutti. Il governo inglese è determinato a non fare di nuovo lo stesso errore».17 Nella dichiarazione d’intenti che Keynes scrive per il governo risuonano tutta l’amarezza di un rimpianto personale e tutta la veemenza di un appello accorato.
Com’è noto, Keynes aveva partecipato alla Conferenza di Versailles come giovane funzionario del Tesoro inglese, per poi dare le dimissioni in aperto contrasto con un arrangiamento delle relazioni economiche e finanziarie che prometteva di creare più danni della guerra stessa: le conseguenze economiche della pace, prefigurate da Keynes nel 1919, erano state effettivamente alla base di gran parte degli sconvolgimenti economici e politici che avevano innescato la Seconda guerra mondiale. La decisione di addossare tutto il peso della ricostruzione e dei debiti di guerra sulle spalle della Germania sconfitta, attraverso l’imposizione di riparazioni impossibili da pagare, non aveva potuto che portare al collasso dell’intero, fragile edificio.18
Ora, al fine di evitare il ripetersi di un dopoguerra senza pace, Keynes comincia a delineare con chiarezza i requisiti di un nuovo regime: «Ci impegniamo a istituire un sistema di scambi internazionali che apra tutti i nostri mercati a ogni paese, grande o piccolo che sia, e che dia a ciascuno uguale accesso a tutte le fonti di materie prime che possiamo controllare o influenzare, sulla base di uno scambio di beni contro beni».19
L’inizio del laissez-faire
La posta in gioco è alta: si tratta di affermare in nome di che cosa si combatte, in vista di quale idea di pace e di ordine globale. L’obiettivo dichiarato di Keynes è quello di predisporre un insieme di regole compatibile con la più ampia libertà del commercio internazionale, in armonia con i principi fondamentali dell’ordine postbellico concordati da Roosevelt e Churchill nella Carta Atlantica.
A partire dal gennaio 1941, Keynes lavora a un documento che viene sottoposto al Tesoro, alla Banca d’Inghilterra, ai ministeri degli Esteri e della Guerra e, infine, al primo ministro Churchill. Nel frattempo, Keynes si convince della necessità di tradurre i principi di fondo in un progetto concreto. La prima versione del piano, denominata «Proposte per un’unione valutaria internazionale», porta la data dell’8 settembre 1941, ed è preceduta da una diagnosi spassionata del problema che intende affrontare: «Il sistema monetario internazionale del dopoguerra» (Documento I).
Keynes è consapevole che le condizioni per il libero commercio devono essere costruite: in particolare, per promuovere la libertà dei mercati dei beni ritiene necessario limitare la libertà dei mercati finanziari. Questo è un altro punto su cui si è consumato uno dei più gravi fraintendimenti del lavoro di Keynes. Egli non era affatto contrario al laissez-faire, finché riguardava lo scambio dei beni. Al contrario, fu sempre un convinto e coerente sostenitore del libero commercio. Ma era altrettanto convinto che proprio la necessaria libertà del commercio richiedesse di imporre adeguate restrizioni al mercato della moneta e del credito. È proprio questo, peraltro, il senso del noto saggio «La fine del laissez-faire»: se soltanto ci si spinge oltre il titolo, ci si avvede di come Keynes metta in luce i difetti del mercato laddove è questione di investimenti, non di scambi.20 E i limiti del mercato concorrenziale come modo di organizzare il sistema degli investimenti sono anche il tema dell’analisi condotta nel Capitolo 12 della Teoria generale.
Nell’esaminare il problema secolare degli squilibri finanziari globali, Keynes ribadisce l’argomento in maniera particolarmente esplicita e chiara, estendendolo su scala internazionale:
Supporre che esista un meccanismo d’aggiustamento automatico perfettamente oleato, capace di preservare l’equilibrio se solo confidiamo nei metodi del laissez-faire, è un’illusione dottrinaria che ignora le lezioni dell’esperienza storica senza poggiare su una solida teoria. Il laissez-faire monetario, ben lungi dall’aver promosso la divisione internazionale del lavoro, che è il fine dichiarato del laissez-faire, è stato una fonte inesauribile di tutti quei maldestri ostacoli al commercio che le comunità in sofferenza hanno escogitato pur fra mille perplessità – reputandoli meglio di niente – per proteggersi dalle insopportabili pressioni causate dai disordini valutari.21
La legittimazione del libero scambio poggia sulla sua capacità di assicurare al commercio internazionale equilibrio ed equità, prosperità e pace. L’estensione del libero mercato su scala globale favorisce la divisione internazionale del lavoro: ciascun paese concentra la propria attività nel settore in cui è relativamente più produttivo, in cui cioè ha un vantaggio comparato; il mercato internazionale gli consente di scambiare ciò che produce in eccesso rispetto alle proprie esigenze con merci e servizi di cui ha bisogno e che sono prodotti da altri; ciascun paese riceve beni equivalenti a quelli che cede, ma più abbondanti e migliori di quelli che avrebbe potuto produrre al proprio interno. Il mercato è in equilibrio e tutti ne traggono vantaggio.
Se però si pretende di applicare il libero scambio anche alla moneta e al credito – se cioè il laissez-faire cede il passo al laissez-faire monetario –, ecco allora che il commercio internazionale può generare situazioni che non sono né eque né equilibrate. Il mercato continua a favorire la divisione internazionale del lavoro ma, poiché ora include anche moneta e credito, alcuni paesi continuano a specializzarsi nella produzione di beni e servizi, mentre altri si specializzano nella produzione di debiti pubblici e privati da vendere sui mercati internazionali. Gli uni e gli altri continuano a trarre dal libero scambio un mutuo beneficio: i primi, orgogliosamente, concepiscono se stessi come «Exportnationen», e vendono sul mercato estero tutto ciò che, di quanto producono, non serve a soddis...