1. Cambio della guardia
Kamasi Washington affrontò a testa alta numerosi grossi palcoscenici nel suo «anno di predominio». Oscillando a tempo, soffiando raffiche pesanti nel suo sassofono tenore, trasudava la compostezza regale di un eroe vincitore: impavido, sicuro di sé, infiammato da una robusta risolutezza. Il timbro del suo sax – prolungato e sfrenato oppure secco e incalzante – indicava una forza quasi tattile, un elemento fisico. La sua presenza scenica era quasi altrettanto imponente, con la sua acconciatura afro trasandata, una barba folta e un dashiki di tela stampata, liberamente drappeggiata sul suo fisico corpulento. E mentre il suo gruppo infuriava intorno a lui, il crescendo esultante della musica metteva in atto un rituale trascendente: impetuoso ed estatico, forse leggermente mistico. Per i tanti che vi assistettero, si trattava di qualcosa in cui credere sfacciatamente.
Tali dettagli formarono una costante affidabile di tutta la traiettoria fulminea di Washington, da notorietà locale a celebrità globale, dopo la pubblicazione del suo album d’esordio, The Epic, nel 2015. Musicista garbato ma risoluto, radicato nel centrosud di Los Angeles, emerse come l’incarnazione jazz più convincente del nuovo orgoglio nero, in un momento in cui pochi gruppi sociali in seno alla cultura americana facevano più pressione.
Washington, la cui immagine richiamava un revival di ideali afrocentrici del Black Arts Movement degli anni sessanta e settanta, promosse tale interpretazione. Era un noto collaboratore di Kendrick Lamar, l’ambizioso, ribelle, giovane rapper politicamente impegnato di Compton, e Washington parlò spesso e con grande intensità della sua esperienza di giovane di colore in America. Come penultimo brano di The Epic, propose «Malcolm’s Theme», un pezzo vocale solenne con testi riadattati dall’elegia di Ossie Davis per Malcolm X. Il commiato dell’album, «The Message», era un raga funk dalla strana metrica, in cui Washington iniziava il suo assolo con uno scroscio sempre più rapido di frasi ritmiche, si spostava su un incanto febbrile per poi mettersi a urlare nel sax.
The Epic si dipana su tre cd, con una vibrazione evocativamente cosmica e deflagrazioni occasionali di voci corali e archi d’orchestra. Ottenne plausi ininterrotti da una vasta serie di media che, di norma, non sono particolarmente interessati al jazz. Con esso, Washington si aggiudicò il primo American Music Prize per il miglior album di debutto, sbaragliando un campo che annoverava grandi novità pop, country e R&B. Apparve in entrambi i talk show di punta della Pbs, Tavis Smiley e Charlie Rose, rispondendo coraggiosamente a domande come quella fatta da Rose sulla posizione del jazz nell’attuale clima musicale.
«Be’» disse Washington, schiarendosi la gola, «credo che il jazz sia stato intrappolato in un’immagine scadente.» Aggiunse:
E penso che sia stato intrappolato nell’immagine di qualcosa di simile a una reliquia storica o di qualcosa che viene fatto per soddisfare uno scopo che non è il mero divertimento. E io penso che come musica sia l’opposto. È una musica davvero espressiva e, quando senti del jazz, senti davvero una comune di persone che si esprimono insieme.1
Parlava per interesse personale, essendosi imbarcato nel suo primo tour da headliner alla fine dell’estate del 2015. Insieme alla sua band, i Next Step, aveva rapidamente attraversato gli Stati Uniti e l’Europa, per poi spostarsi in Australia, Nuova Zelanda e Giappone. Avevano suonato al selettivo Big Ears Festival, a Knoxville, Tennessee. Avevano suonato al Bonnaroo Music and Arts Festival, che quell’anno vantò una presenza di settantacinquemila fan indipendenti. Avevano tenuto concerti di fronte a vaste folle a New York, non solo al Blue Note Jazz Club, dove la coda si estendeva lungo tutta West Third Street, ma anche alla Webster Hall, una sala rock cavernosa, e a Central Park, sotto un cielo notturno estivo. Avevano avuto un loro momento trionfale a Coachella, il summit nel deserto californiano dei boho-chic, dove Washington era stato intervistato da Esquire. L’articolo si apriva con un titolo che catturava lo spirito del momento: «Kamasi Washington on the Pressures of Being Called Jazz’s Savior».2
Quando Washington parlava di «immagine scadente» del jazz, in realtà stava descrivendo il contrario: una comprensione comune di quella musica come qualcosa di rarefatto e prezioso e persino leggermente noioso. Dai primi anni ottanta, il jazz era divenuto sinonimo di rispettabilità, confacendosi al titolo di «musica classica americana». Una musica raffinata e sicura, un significante di sofisticazione adulta, atta a fare da sottofondo in una caffetteria o da colonna sonora di una pubblicità di beni di lusso. Era devotamente storica, costantemente impegnata a ricatturare l’atmosfera del 1959 o del 1963. E beneficiava del sostegno di istituzioni come Jazz at Lincoln Center e National Endowment for the Arts. Quando la persona comune pensava al jazz, l’immagine che le veniva in mente era spesso qualcosa di elegante ma inerte, qualcosa che aveva a che vedere con l’iconografia tanto quanto con il fare musica.
Secondo le storie della musica più diffuse – come Jazz, la serie di documentari del 2001 di Ken Burns, vista da oltre trenta milioni di spettatori sulla Pbs –, si trattava della condizione naturale di una disciplina che aveva raggiunto la maturità a metà del secolo. Tutto quello che era successo da quel momento in poi sarebbe stato formulato attraverso l’autoreferenzialità o in termini nostalgici, come quando si racconta più volte la storia di una famiglia. Se ciò implicava mettere il jazz e le sue tradizioni sotto vetro, fuori dalla portata del fango deturpante della cultura pop, tanto meglio. Non se lo meritava dopotutto, il jazz? I suoi eroi si erano battuti con coraggio per tutto il xx secolo pur di ottenere un livello simile di rispetto.
Per un artista come Washington, il rispetto non era il primo problema. Quello di cui lui parlava e quello che cercava di affrontare attraverso la sua musica era la tenace lotta del jazz per ottenere rilevanza. Ed è facile capire come una campagna abbia fissato i termini dell’altra: come il jazz abbia conseguito una vittoria di Pirro quando si era assicurato un livello di alto lignaggio in quanto «forma d’arte americana quintessenziale». C’erano state conseguenze e ripercussioni non volute a livello culturale. Alcune erano insidiose e difficili da analizzare, altre platealmente chiare.
Se la vostra esperienza della musica viene da canali istituzionali, potreste sostenere a ragione che il jazz abbia smesso di crescere e di cambiare molto tempo fa. Ci sono schiere su schiere di musicisti la cui opera ha dimostrato qualcosa di diverso, sostenendo l’idea che il jazz stia in realtà per entrare in una nuova, favolosa fase evolutiva. Ma la macchina della cultura e del commercio è decisamente più preparata a sottolineare successi storici. Ciascuno di questi artisti dei giorni nostri compete nello stesso mercato di Miles Davis, John Coltrane e Charlie Parker, e in un periodo storico in cui le vendite degli album jazz hanno fatto segnare un fosco risultato darwiniano – ovvero, nella media, meno del 3 per cento del mercato nel complesso, talvolta addirittura l’1,4 per cento – molti successi si sono presentati con la garanzia di una qualità sancita dal tempo. Un cofanetto di cinque cd intitolato Ken Burns Jazz: The Story of America’s Music ha venduto quarantamila copie prima che venisse trasmesso il primo episodio della serie.3
Tutto ciò ha preparato il terreno per la comparsa di Washington come nuova grande speranza musicale. Che avesse i titoli per un compito simile non conta. C’è una forte insicurezza insita in ogni nuovo tentativo di invocare un salvatore del jazz: la stessa idea presuppone una mancanza vitale nella forma d’arte. Washington era semplicemente l’ultima incarnazione di un’idea i cui dettagli sono dinamici e fluidi, come le condizioni atmosferiche. Qualunque cosa si pensi faccia fortemente difetto al jazz in un dato momento è ciò che si suppone che un salvatore porti con sé: apprezzamento culturale, diffusione sociale, connessione storica, rappresentanza contemporanea, prestigio istituzionale, energia da musica di strada, rinnovamento, definizione, libertà.
La base di partenza della musica nella cultura popolare ha una correlazione precisa con le notizie sul suo stato di salute o sul suo declino. Qualsiasi cosa stia realmente accadendo allo stato dell’arte, esercita minore influenza sui musicisti che ne rappresentano lo zoccolo duro. Pertanto, l’intimazione «salvare il jazz», come se la forma d’arte fosse una damigella in pericolo, legata a binari ferroviari, ha iniziato a circolare diffusamente negli anni sessanta, uno dei decenni più animatamente creativi nella storia della musica. In parte, si è trattato di una reazione all’ascesa di un’avanguardia dinamica che sembrava mettere ogni cosa – forma, tonalità fissa, persino ritmo – in discussione. Il contraltista Ornette Coleman fu il principale agente del cambiamento di quell’era: lanciò una sfida che i suoi pari più lungimiranti si sentirono costretti ad accettare. La stampa e il pubblico non furono soggetti a tale obbligo: nel 1961, quando John Coltrane guidava una band coraggiosamente pionieristica insieme al coetaneo di Coleman, Eric Dolphy, un critico di DownBeat – la principale rivista jazz – apostrofò la loro musica, come è tristemente noto, definendola «anti-jazz».
Ma la minaccia più preoccupante arrivò dall’esterno negli anni sessanta, quando il rock’n’roll, che aveva coesistito con qualche difficoltà ma in modo sostenibile con il jazz nel decennio precedente, fagocitò quasi del tutto la cultura. I Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, Janis Joplin: la loro comparsa in blocco mise in fortissima discussione la presa del jazz sul pubblico, soprattutto tra i più giovani. Qualche jazzista di quella generazione, come il vibrafonista Gary Burton, scelse di proiettarsi in quel senso, formando le prime band di quella forma ibrida che sarebbe divenuta nota come fusion. Altri perseverarono tristemente o approfondirono con maggiore attenzione l’astrazione.
Altri ancora, come l’organista Jimmy Smith e il contraltista Cannonball Adderley, rafforzarono i loro legami con il pubblico popolare afroamericano, operando nel già affermato sottogenere del soul-jazz. Tra gli album pubblicati da Adderley ci fu quello di un originale concerto dal vivo al Troubadour nel 1971, The Black Messiah, dal titolo di un brano del suo tastierista, George Duke, che avrebbe poi avuto una carriera prolifica come solista, fondendo jazz con funk, rock e R&B.
Una simile confluenza di stili formava il profilo estetico della Cti Records, fondata nel 1967 dall’esperto produttore Creed Taylor. Con un’elevata qualità di produzione che si estendeva alle foto di copertina di Pete Turner, la Cti creò una nuova corsia commerciale per musicisti jazz già a...