1. Il critico come artista e viceversa
Cos’è un critico? Chiedendo in giro – o leggendo qualcuna delle mail che mi arrivano – si scoprirebbe che un critico è, prima di tutto, un artista fallito, pronto a riversare rancori antichi e invidioso sdegno su quelli che hanno avuto la fortuna, il talento o la disciplina necessari per avere successo. Questa convinzione è tanto diffusa da rappresentare una sorta di dogma nella credenza popolare. Qualsiasi critico in attività potrebbe facilmente mettere insieme, da lettere cestinate o mail cancellate, una serie di variazioni sul tema: «Sei solo geloso» e «Vorrei proprio vedere se tu sapresti fare di meglio».
Di rimando, si potrebbe sempre far notare (presuntuosamente, e dunque in maniera non persuasiva) che la storia e le biografie forniscono un’empirica dimostrazione del contrario: una lunga lista di critici importanti che furono anche maestri in svariati campi artistici. A metà del XIX secolo Charles Baudelaire scrisse brillanti saggi sulla pittura moderna senza che né le sue abilità né la sua reputazione di poeta ne risentissero. Stessa sorte toccò, nella seconda metà del XX secolo, a John Ashbery e Frank O’Hara. Philip Larkin, un altro poeta, scrisse di jazz con passione e acume, senza lesinare qualche stoccata rifilata con la consueta ruvidezza. Hector Berlioz fu un grande compositore nonché un eminente critico musicale. George Bernard Shaw fu sia uno dei più grandi critici del teatro in lingua inglese sia uno dei più importanti drammaturghi inglesi del suo tempo. Gli scritti di Le Corbusier sull’architettura esercitarono un’influenza pari a quella delle sue realizzazioni, e sono forse più accessibili di queste ultime. I principali registi della Nouvelle Vague francese – Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Claude Chabrol, François Truffaut – cominciarono le loro carriere come critici cinematografici, al servizio dei Cahiers du Cinéma. Nella maggior parte dei casi, i critici di poesia, a partire almeno dal Romanticismo, sono stati anche poeti, e alcuni di loro (Samuel Taylor Coleridge, T.S. Eliot) sono considerati dei punti di riferimento in entrambi i campi. Pensate un po’, quindi!
Ma il critico che voglia così difendersi dalle accuse potrebbe essere costretto ad ammettere che tali figure sono casi particolarissimi, eccezioni che confermano una regola imperante. E questa regola prevede la distinzione gerarchica, scontata e apparentemente immutabile tra quel che fanno i critici e quel che fanno gli artisti. Una persona può fare entrambe le cose, ma è chiaro da che parte stia il valore autentico – l’opera vera. «I romanzi non sono male, ma le recensioni sono ancora più belle»: si può immaginare un elogio più debole e meno lusinghiero di questo? Gli scrittori e i poeti per i quali possa valere questa affermazione appartengono nella maggior parte dei casi alla schiera dei minori e dei quasi-famosi: si tratta di quegli autori adatti a fornire materiale di studio per intrepidi laureandi, scrittori che aspettano nell’ombra con stoica e ingrigita pazienza che avvenga la loro rivalutazione e riscoperta. Il numero di critici che sono riusciti a resistere al tempo – a rivendicare unicamente sulla base della loro produzione critica un posto nel Parnaso o uno spazio nel canone – è del tutto trascurabile.
Questo senza dubbio perché la critica è considerata un’attività effimera, secondaria, di mera reazione, pronta a sottrarre ogni temporaneo prestigio, importanza, clamore al durevole lavoro dei veri artisti. Dopo essere sopravvissuta al travagliato momento della sua nascita, la loro arte si lascia alle spalle non solo le reazioni che ha suscitato in origine, ma anche il mondo che ha concepito tali reazioni. Nella strada verso il suo approdo futuro – dall’altare di una chiesa al museo, dallo scaffale di libreria alla scuola, dalla sala di concerto allo studio di registrazione, dai decadenti cinema di second’ordine di Times Square al cofanetto dvd in edizione speciale, dal regno precario degli artefatti fisici allo sterminato archivio digitale – l’opera acquisisce nuovi ammiratori e detrattori dell’ultim’ora, e richiede interpretazioni che sappiano scoprire all’interno dei familiari contorni dell’opera appagamenti e significati prima ignorati. In altre parole, l’arte è duratura ma anche mutevole, mentre la critica è inamovibile e dunque deperibile. Il compito della critica è di essere al servizio dell’arte; quello dell’arte è di essere e basta.
Da questo punto di vista, la critica è, nel migliore dei casi, utile e provvisoria, un supporto inessenziale e sostituibile come un divisorio temporaneo in una galleria d’arte o la copertina piazzata sull’edizione economica di un classico. Utile, forse, ma fondamentalmente superflua. Ed è sempre breve il passo tra il riconoscere che si può vivere senza critica e il decidere che si dovrebbe farlo. Nelle pagine di apertura di Vere presenze, un saggio sui segni silenziosi del divino nella cultura secolare, George Steiner si figura una società utopica – una «immagine inversa della Repubblica di Platone» – dove sarebbe «vietata ogni discussione che verte sulle arti, sulla musica e sulla letteratura» e «dove il recensore e il critico sarebbero messi al bando». Il fatto che Steiner sia egli stesso un critico di chiara fama non è sintomo di cattiva fede, quanto piuttosto di idealismo; un idealismo che perlomeno si spinge a immaginare una situazione culturale liberata dall’«egemonia della cultura secondaria e parassitica» che determina la nostra attuale, infelice condizione.
L’attacco di Steiner alla critica è una difesa dell’arte. Non si tratta di prendersela contro singoli critici che con livore e senza pietà feriscono i sentimenti di determinati artisti, ma di un più profondo antagonismo: la risposta a una minaccia più sistemica e pericolosa. Nell’ottica di Steiner – e in quella di molti altri che, seppur sprovvisti della sua erudizione, ne condividono i pregiudizi – la critica è un’escrescenza perniciosa e parassitaria sul possente corpo della creatività umana. Almeno nelle credenze degli ideologi anticritica (che sono spesso critici professionisti loro stessi), le grandezze della creazione possono essere comprese solo se queste escrescenze deformanti vengono rimosse. Si tratta di una battaglia all’ultimo sangue, esistenziale: perché l’arte viva, la critica deve morire.
È invece perfettamente vero il contrario. Sono convinto che la critica, lungi dal minare la vitalità dell’arte, sia invece ciò che le procura linfa vitale; che la critica, compresa nella maniera corretta, non sia una nemica da cui l’arte debba difendersi, quanto piuttosto un altro nome – la parola che dovremmo in effetti usare – con cui chiamare la difesa dell’arte stessa.
Permettetemi di spingermi oltre. La critica è la sorella gemella dell’arte, nata però dopo di lei. Entrambe attingono forza e identità dalla stessa fonte, anche se, come spesso succede tra fratelli, la loro mutua dipendenza è di frequente intrisa di rivalità e diffidenza. Sarebbe sospetto o presuntuoso dire che la critica è a pieno titolo un’arte in sé? Non nel senso ristretto e comune secondo cui «arte» è più o meno sinonimo di abilità, bensì nel significato grandioso, esaltante e romantico della parola. Dire che il critico sia una specie di artigiano è piuttosto scontato; a me però interessa insistere sul fatto che il critico è anche un creatore. E se i miei stessi scrupolosi tentativi fossero inadeguati a sostenere tale affermazione – dato che, diciamolo, c’era una data di consegna da rispettare e il curatore ha tagliato le parti migliori e tanto nessuno mi capisce –, lasciatemi fare un passo indietro nel tempo e richiamare la tesi di un’autorità in materia.
Henry Louis Mencken, il «saggio di Baltimora», flagello di tutto ciò che di fasullo e fiacco circolava nella cultura americana nella prima metà del XX secolo, dichiarò che ogni buon critico agiva «non con le intenzioni del pedagogo, ma con quelle dell’artista». Respingendo l’errata e diffusa convinzione secondo la quale il critico «scrive sospinto da un afflato illuministico, confutando errori e falsità allo scopo di diffondere una qualche dottrina» – e cioè per produrre delle tesi –, Mencken individuò un impulso più elementare. A motivare il critico «non è altro che il semplice desiderio di agire nella libertà e nella bellezza, dando forma esteriore e oggettiva alle idee che ribollono nell’interiorità e che possiedono in sé un fascinoso richiamo, di liberarsene in modo clamoroso suscitando un gran frastuono nel mondo». Esatto!
Questa gioiosa affermazione di autonomia creativa e intellettuale – sostenuta dalla bravura e dall’intuizione proprie del Mencken migliore, e dal posto di primo piano che si ritagliò nel pantheon della letteratura americana – è resa ancor più complessa dalla natura della particolare forma artistica che persegue il critico ideale teorizzato da Mencken. Il nodo della questione sta nella contraddizione che la critica sia un’arte prodotta in riferimento a, e dunque in conflitto con, le altre arti. T.S. Eliot, che non aveva dubbi nell’accostare la critica alle «altre belle arti» ne metteva in evidenza anche il carattere dominante e la differenza fondamentale rispetto alle arti «sorelle». Amava descrivere l’arte (la poesia, in particolare, che egli prediligeva non solo per motivi professionali, ma anche in nome della tradizionale superiorità attribuitale dall’estetica occidentale) come «autotelica», nel senso di completa in se stessa o autosufficiente. Una poesia, una statua o un brano musicale sono tutti essenzialmente (o così si presume) indipendenti e autonomi, mentre ogni forma di arte critica, per quanto straordinaria, deve sempre poggiarsi e fare riferimento a qualcos’altro.
Ciò fa della critica un’anomalia. L’arte può anche essere frutto di una lotta con le asperità della vita e con la refrattarietà dei materiali a disposizione, ma si tratta comunque di una battaglia che non comporta davvero un’ostilità personale e reciproca. Lo scultore non è nemico della pietra. Il pittore non entra in competizione con la forma umana. La chiave di violino non si sente offesa quando il compositore ne fa uso. Le parole non odiano i poeti. Ma la critica, come osserva Mencken, è diversa. E questo in parte perché è, o sembra, personale:
Quando [il critico] si mette al lavoro, l’artista in questione smette di essere un amico e diventa semplice materia grezza utile alla sua opera. Per esperienza personale so che gli artisti, immancabilmente, si offendono nell’essere trattati in modo così sprezzante. Sono contenti fintanto che ci si limita al modesto compito di interpretarli – preferibilmente negli stessi termini con cui loro si autovalutano – ma nel momento in cui il critico si mette a eseguire le proprie variazioni sul tema, portando nuove idee all’opera e confrontandole con quelle degli artisti, ecco allora che questi si fanno insofferenti. È precisamente in quel momento che la critica diventa autentica. Prima non era che mera recensione. Quando un critico oltrepassa quel punto perde i suoi amici. Divenendo un artista, si fa avversario di tutti gli altri artisti.
La conclusione di Mencken è che questo stato di ostilità è sostanzialmente benefico a tutti gli interessati: «In effetti, la letteratura dà sempre i frutti migliori in un clima di profondo conflitto».
Concordo pienamente. E lo stesso vale per le altre arti. La critica è l’arte che si oppone a esse, sia per loro stesso vantaggio, sia per promuovere i propri fini estetici – per suscitare un gran frastuono nel mondo. Ciò significa che la critica, lungi dall’essere un’arte minore, trascurabile e secondaria, è di fatto un’arte più vasta delle altre: ce n’è una quantità maggiore, il suo scopo è più ampio e i suoi metodi sono più eclettici di quelli delle sue rivali; infatti li comprende tutti e li costringe a mettersi al servizio delle sue necessità. Non è parassitica bensì primaria.
So bene come tutto questo possa sembrare un sofisma, una fanfaronata, un ammasso di sciocchezze arroganti. Nel senso inteso e praticato da Mencken, la critica sarebbe un’attività relativamente moderna e limitata, e nella storia dell’uomo numerosissime tradizioni artistiche sono fiorite senza essere state minimamente sfiorate da ciò che noi o Mencken riconosciamo come critica. Non è mai stato rinvenuto alcun cartiglio che presupponesse l’esistenza di un qualche saggio egizio intento a incoraggiare il pubblico a non perdersi una visita alle piramidi. È anche vero che non vederle allora era davvero impossibile. Scribi e calligrafi vissuti in epoche precedenti alla nascita dei giornali e delle riviste non avevano il tempo o l’interesse necessario per appuntarsi e trascrivere le reazioni nei confronti dell’ultimo madrigale o della nuova pala d’altare. Passeggiando nelle gallerie d’arte possiamo commuoverci o deliziarci alla vista di maschere africane, vasi greci e rotoli cinesi senza sapere – in alcuni casi senza neppure essere in grado di immaginare – ciò che avrebbero potuto pensare gli eruditi locali del tempo.
Ma va anche tenuto presente che questi oggetti e queste pratiche non sono giunti fino a noi senza passare attraverso un processo di esame critico, cominciato al momento del loro concepimento e che ha caratterizzato ogni stadio della loro gestazione. Ogni oggetto prodotto risponde a – e cioè si oppone a, e ogni tanto trascende – norme estetiche e scopi culturali che sono impliciti nella cosa stessa, per quanto imperscrutabili possano essere allo sguardo dei posteri o degli stranieri. Un’opera d’arte è già di per sé un saggio di critica.
Lo scopo dell’esperimento mentale di George Steiner – spazzar via senza esitazione la nebbia di commenti che secondo lui avvolge i migliori prodotti del genio umano – è di chiarire in modo esatto questo punto. «Ogni forma seria di arte, di musica e di letteratura» scrive «è già un atto critico.» Con questo Steiner non vuol dire soltanto che l’arte in generale costituisce «una critica della vita» (per dirla con Matthew Arnold), ma anche che «incarna una riflessione espositiva, un giudizio di valore sulla tradizione e sul contesto al quale appartiene».
Questo è un modo formale e un po’ troppo rigido di osservare che, lungi dall’esistere in una condizione di isolamento pacifico e autotelico, le opere d’arte vanno al di là di loro stesse, dialogando con altre opere che le affiancano o precedono e con le circostanze storiche nelle quali sono nate. Da un lato, il concetto è così scontato che non servirebbe nemmeno discuterne: biblioteche, programmi universitari, musei, l’iTunes Store poggiano tutti sulla fede nella connaturata esistenza di generi, tradizioni, periodi storici e altre forme di appartenenza culturale. Ci viene sistematicamente insegnato a fare attenzione al «contesto», termine gradevolmente vago per definire ciò che potremmo voler sapere a proposito dell’oggetto che stiamo osservando e anche, più precisamente, ciò che quell’oggetto sembra presupporre.
Possiamo continuare a sostenere il mito del creatore solitario che si consuma in una soffitta aspettando l’arrivo dell’ispirazione poetica, ma la realtà della creazione è sempre stata molto più ricca di interazioni. Non solo perché ogni pittore o scrittore, che lo voglia o no, fa probabilmente parte di un certo ambiente o di una scuola, e non solo per la natura fondamentalmente collaborativa e collettiva di attività quali il teatro, il cinema, l’architettura e la musica: qualsiasi arte riconoscibile come tale ha a che fare, in un qualche modo, con le altre arti. Ogni scrittore è un lettore, ogni musicista un ascoltatore, qualcuno mosso dal desiderio di emulare, correggere, migliorare o rispondere ai modelli antecedenti. Sarebbe esagerato dire che ogni artista è un critico fallito, incapace di apprezzare ciò che già esiste senza aggiungervi qualcosa; ma non mi pare scorretto sostenere che ogni arte sia una forma di critica ben riuscita.
Si tratta, mi pare, di un’osservazione semplice e concreta; ma vorrei anche fare un cenno a quella che considero essere una più grande e fondamentale verità. Nella nostra epoca post-tutto, ci siamo abituati a un’estetica del frammento, della contaminazione, del pastiche. Da vari decenni ormai – un’epoca segnata da rifacimenti hip-hop, show televisivi autoironici, parodie letterarie e omaggi cinematografici – la cultura si nutre di diverse forme di prestiti, citazioni, metacommenti, molti dei quali decisamente originali. Nel peggiore dei casi, ci siamo dovuti sorbire irritanti e cinici bombardamenti di remake e riadattamenti; ma ciò che più colpisce in questo panorama è l’assoluta novità che spesso emerge dall’osservazione e dalla reinvenzione dell’antico. L’hip-hop è forse l’esempio supremo di questo apparente paradosso: un linguaggio musicale autenticamente e a volte radicalmente nuovo, creato a partire da ritmi e mix sonori rubati da modelli precedenti. Pratiche simili – l’allusione e l’ammiccamento, la parodia e l’omaggio, il remix e la rielaborazione – hanno modo di palesarsi ovunque si posino i nostri occhi. Registi come Quentin Tarantino o i fratelli Coen (per citare solo due dei casi p...