1. Ancora tu
o del viaggio nel paese della reincarnazione
Sinceramente non ricordo il mio umore la mattina in cui sono nata, però immagino che mi sentissi un po’ fuori luogo: non vedevo nulla di familiare, solo della gente vestita in modo assurdo che mi fissava emettendo strani suoni. Tutto sembrava troppo violento, e niente aveva il benché minimo senso. Che è più o meno come mi sento adesso.
La mia comoda vita da americana della middle-class è finita due notti or sono al mio atterraggio all’Indira Gandhi International Airport. Oggi sono rinata sotto forma di un’imbecille agitata che non sa ordinare un pranzo o trovare la toilette.
Sono in India per trascorrere una settimana di lavoro sul campo con Kirti S. Rawat, direttore del Centro internazionale di ricerche sulla sopravvivenza (intesa come sopravvivenza dell’anima) e sulla reincarnazione. Si tratta di un professore in pensione che insegnava filosofia all’Università del Rajasthan, nonché di uno dei pochi accademici (sei o sette, non di più) che vedono la reincarnazione come una via di mezzo tra una metafora e un insegnamento religioso; perciò, quando ci sono dei ragazzini che parlano di persone e di fatti risalenti a una vita passata, loro li prendono sul serio, li vanno a trovare a casa (possibilmente, sia quella attuale sia quella della vita precedente), intervistano i membri della famiglia e i testimoni, catalogano prove a favore e contro, e di solito cercano di stabilire un contatto con il fenomeno. Per loro sfortuna, di solito la comunità scientifica li ignora o, peggio, li schernisce.
Il mio primo approccio con l’argomento è stato un articolo di giornale di un americano che è un’autorità in materia: Ian Stevenson ha seguito ben ottocento casi in trent’anni, durante i quali insegnava all’Università della Virginia e intanto i suoi scritti comparivano sulle riviste più accreditate come jama e Psychological Reports. L’Università stessa gli ha pubblicato quattro volumi sui casi di reincarnazione e di recente anche la casa editrice accademica Praeger ha dato alle stampe un suo libro intitolato Reincarnation and Biology. Io mi sono fatta incantare sia dall’uomo sia dall’imponenza delle sue pubblicazioni: se Ian Stevenson pensa che valga la pena studiare la trasmigrazione delle anime, mi son detta, allora forse c’è effettivamente qualcosa.
Il professore ha passato gli ottanta e ormai di rado fa ricerca sul campo. Quando mi sono messa in contatto con lui, mi ha consigliato di rivolgermi a una sua collega di Bangalore in India, preavvertendomi però che lei non mi avrebbe concesso nulla senza prima incontrarmi di persona (presumibilmente a Bangalore, che, in effetti, è un po’ lontanuccia solo per farsi una chiacchierata). Una serie di e-mail senza risposta parve confermare questa impressione. Nel frattempo avevo preso contatto anche con Kirti Rawat, che negli anni settanta aveva collaborato con Stevenson. Per combinazione il dottor Rawat era in California, da suo figlio e sua nuora, a un’ora di strada da me. Saltai in macchina e andai a prendere un caffè con la famigliola. Fu un bel pomeriggio e ci mettemmo d’accordo che, quando al dottore fosse capitato un nuovo caso, saremmo andati insieme in India per un paio di settimane.
Il Kirti Rawat che mi aspetta in aeroporto è di tutt’altro umore. Ha appena litigato con quelli dell’hotel dove avevo prenotato. La mattina successiva facciamo i bagagli e attraversiamo Delhi per accamparci all’«Hotel Alka» («L’alternativa migliore al lusso»), dove lui e Stevenson, un tempo, erano soliti scendere. I tappeti sono appiccicaticci e l’asse del water si risolleva di colpo appena ti alzi; l’ascensore, poi, ha le dimensioni di una cabina del telefono. Ma Rawat apprezza la cucina vegetariana e il servizio attento fino all’esagerazione. Fattorini con giacche luccicanti e pantofole dalla punta a ricciolo spalancano le porte al nostro passaggio manco fossimo ambasciatori stranieri in visita o Paris Hilton in uno dei suoi giri di shopping.
Sono le nove del mattino del nostro primo giorno di viaggio e un autista ci attende all’esterno. Non è poi una cosa così eccessiva: la macchina è una Ambassador del ’65 con un solo tergicristallo funzionante. Il mio accompagnatore non sembra turbato: l’unico commento che sono riuscita a cavargli è che le Ambassador «cominciano a essere un po’ fuori moda». Di quell’auto in particolare apprezza soprattutto il guidatore: «è docile» mi confessa mentre scendiamo «una qualità che stimo molto».
Oh cielo!
Il caso della settimana riguarda un bambino del villaggio di Chandner, a tre ore di viaggio da Delhi. Rawat ottimizza i tempi spiegandomi i dettagli mentre siamo in macchina, ma prestargli attenzione mi riesce difficile. Siamo nel traffico della periferia di Delhi; non ci sono delle vere corsie, soltanto due correnti di veicoli in direzioni opposte. È un mix di caso e caos, come se tutto fosse stato shakerato e poi risputato sull’asfalto. Ogni tanto sembra che qualcuno si diverta ad aggiungere al casino generale pure un gruppetto di mucche, tipo fotomontaggio. Le vacche ce le troviamo a spasso nella corsia centrale o sdraiate con calma inverosimile in un sonnacchioso pigiama party riservato in mezzo alla strada. Finiamo in una rotonda che è un caleidoscopio di traffico; nel centro, nell’occhio esatto del ciclone, rifugiato in un riparo di cemento, staziona un vigile eroico che fa andare le mani. Non capisco se stia dirigendo il traffico o semplicemente facendosi aria.
Mi domando a voce alta dove vada tutta questa gente. «Ciascuno ha una sua destinazione», è la risposta. Una precisazione sul dottor Rawat: una delle sue due lauree e il dottorato sono in filosofia, che rimane una delle sue grandi passioni insieme alla musica religiosa indiana e alla poesia. È il più sognatore degli scienziati. La sera prima, in un bollente, rumoroso taxi dall’aria irrespirabile, si è sporto verso di me domandandomi: «Vorresti sentire una delle mie poesie?».
Adesso mi sta spiegando che il nostro soggetto è un caso da manuale. Il bambino, Aishwary, intorno ai tre anni si è messo a parlare delle persone che ha conosciuto in una vita precedente. Il 95% dei bambini studiati da Stevenson cominciano a parlarne fra i due e i quattro anni, poi, intorno ai cinque, se ne scordano.
«Altrettanto classica è la morte improvvisa, quando non violenta, della P.P.»
«Scusa, di chi?»
«Della personalità precedente.» Il morto che pensano si sia reincarnato. «Noi abbreviamo in P.P.» Potrebbero anche evitare.
La famiglia di Aishwary crede che il bambino sia la reincarnazione di un operaio di nome Veerpal: costui abitava pochi villaggi più in là ed è rimasto ucciso da una scossa elettrica poco prima della nascita di Aishwary. Rawat tira fuori dalla valigetta un dossier di foto recenti; è un mese che ha iniziato a studiare il caso.
«Ecco il piccolo Aishwary al compleanno di suo “figlio”.» La foto mostra Aishwary, quattro anni; suo «figlio» ne ha appena compiuti dieci. Come se la questione dell’età non fosse già abbastanza alla rovescia, l’elastico del cappellino da compleanno del «figlio» è stato dotato di una barba bianca posticcia. Un attimo dopo, sfogliando la corrispondenza, mi cadono gli occhi su una lettera contenente la frase: «Sono felice che tu riesca a sposare tua figlia». Sono sufficientemente, ma non del tutto, sicura che «sposare» voglia dire «dare in sposa».
«Qui il ragazzino è con Rani», cioè la vedova dell’operaio, di anni ventisei. Nella foto, il marmocchio sta teneramente – con struggimento, verrebbe da dire, dopo aver passato un po’ di tempo con dei ricercatori che si occupano di reincarnazione – accanto alla sua presunta ex moglie. È la cosa più improbabile che abbia mai visto, una chimera. Per distogliere lo sguardo, getto un’occhiata dal finestrino e vedo… un elefante che ciondola in autostrada.
Un operaio reincarnato, per me che sono californiana, è una novità; noi occidentali, infatti, di solito crediamo che i casi di reincarnazione riguardino i membri delle famiglie reali o dell’aristocrazia. Rawat, invece, mi spiega che qui è normale: «Sono persone qualunque che ricordano vite qualunque». Con le dovute eccezioni: a conti fatti, gli erano capitati sei finti Nehru e otto sedicenti Gandhi.1
Nel caso di Aishwary, la personalità precedente proviene da una famiglia altrettanto povera. Secondo il dottore, ciò rende il caso più credibile perché esclude la motivazione economica. Si sa di famiglie povere che s’inventano storie di reincarnazione sperando che i parenti della personalità precedente (scelta per le sue finanze) si sentano economicamente in debito con i nuovi congiunti del defunto. E Rawat mi racconta anche un’altra applicazione creativa: la reincarnazione per sfuggire a un matrimonio sgradito. Qualche anno fa, infatti, ha studiato il caso di una donna ammalata che affermava di esser morta «per un po’» e di essersi poi risvegliata con una nuova anima. Essendo rinata come qualchedun’altra, sosteneva di non poter vivere sotto lo stesso tetto e coricarsi nel medesimo letto di suo marito (nella società indiana, il divorzio resta ancora una macchia indelebile). Rawat raccolse la dichiarazione del medico che aveva visitato la donna. «Non era affatto un medico, al massimo era un cerusico.» Un tagliaossa. E lei non era morta. «Il sedicente dottore mi disse: “Beh, sì, le è andato giù il polso”.»
Rawat si appisola e io sfoglio le pagine del suo Reincarnazione: validità della prova scientifica. Lasciamo perdere la validità e parliamo di «scientifica». Come la maggior parte delle teorie psicologiche e filosofiche, la reincarnazione non può essere provata in laboratorio; non la si può vedere mentre ha luogo e non c’è una condizione biologica per spiegare come avviene. Le tecniche di chi studia queste cose somigliano più a quelle di polizia. È una ricerca sfiancante ed esatta di fatti che vanno verificati uno per uno: contattare i parenti del ragazzino; andare nel loro villaggio (o nella loro città); chiedere loro di ricostruire esattamente quel che è successo, parola per parola, dettaglio per dettaglio (cosa ha detto il bambino quando si è messo per la prima volta a parlare di gente o posti di un passato che chiaramente non corrispondono alla vita di adesso?); cercare testimoni credibili alle affermazioni del bambino e intervistare pure loro.
Tempo che gli esperti arrivino in loco, la famiglia, di solito, ha già individuato un candidato adatto a essere l’incarnazione precedente del ragazzino. Molti indiani delle zone rurali considerano la reincarnazione un dato di fatto e basta poco perché in tutti i villaggi dei dintorni si venga a sapere di un bambino che parla di una vita precedente. La personalità precedente non può essere interrogata, perché passata a miglior vita; i suoi parenti però sì. Se il bambino riconosce la sua vecchia casa, o la città o dei membri della famiglia, il ricercatore intervista testimoni che abbiano assistito agli incontri o alle presunte visite.
I casi più solidi sono quelli in cui i genitori hanno messo per iscritto le frasi con cui il bimbo (o la bimba) ha parlato per la prima volta di una vita passata, prima di incontrare qualsiasi familiare o amico conosciuto in quella vita. (Non capita spesso: di tutti i casi esaminati da Stevenson solo una ventina hanno un resoconto scritto.) Senza una relazione scritta, i ricercatori devono lavorare sui ricordi dei parenti. Con il risultato di avere prove fragili, non perché i testimoni siano disonesti ma perché la memoria umana è profondamente ingannevole. È inaffidabile ed è facile che siano le sue stesse credenze e aspettative a sviarla. Aishwary, per esempio, ha mai parlato di scossa elettrica prima che i suoi genitori iniziassero a confabulare della morte di Veerpal? Non è che per la prima volta ne ha sentito parlare da loro? Ha detto veramente di esser stato ucciso da una scossa elettrica, o è sua mamma che, dopo aver saputo come sono andate le cose, ha interpretato in quel senso delle frasi ambigue? Forse il ragazzino si riferiva a un grosso filo, a una corda, ma la madre, essendo venuta a conoscenza dei fatti, si è immaginata un cavo elettrico. E via dicendo.
Di quasi tutti i casi raccolti, Stevenson fornisce anche un elenco riassuntivo delle presunte affermazioni del ragazzino reincarnato sulla sua vita passata e sulle persone da lui (o da lei) riconosciute. Per ognuna di queste frasi, il professore indica anche un testimone (se c’è) e il relativo commento. Di solito sono elenchi di una decina di pagine che logorano il vostro scetticismo accumulando nomi in caratteri illeggibili. Se prendete il lavoro di Ian Stevenson alla lettera, sarà difficile ne traiate una conclusione diversa da «la reincarnazione esiste».
Gli scettici tendono a tralasciare a priori il lavoro di Stevenson, pochi lo esaminano caso per caso. Uno che ci ha provato è Leonard Angel, poi divenuto professore alla facoltà umanistica del Douglas College nella British Columbia. Scelse il caso di un ragazzino libanese di religione drusa, Imad Elawar, indicato da Stevenson come uno dei più credibili. Di tutti i casi con documentazione scritta antecedente all’identificazione della personalità precedente, questo è l’unico le cui affermazioni siano state raccolte da Stevenson stesso (dunque, si può escludere una ricostruzione tendenziosa). Angel tuttavia contesta al professore di non aver riportato le frasi precise del ragazzino o dei genitori, ma semplicemente «i genitori credev...