Non gioco più, me ne vado
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Non gioco più, me ne vado

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Non gioco più, me ne vado

Informazioni su questo libro

Il giorno prima, l'attesa lieve, agitatissima: cosa accadrà? E poi è il giorno. Lo stadio è una muraglia di colori, di cori, di rumori. Ai lati del percorso gli appassionati di ciclismo si accalcano, attendono, scalpitano sui sandali. Sfilano i campioni in campo. I panchinari. Gli arbitri. Il quarto uomo. Sfilano i campioni sulla strada. I gregari. I fotografi. I suiveurs e i giornalisti. Il durante e il dopo. L'attesa, la tensione, la rassegnazione, la gioia. L'euforia. La poesia. Questo è un libro di sport, di calcio e di ciclismo. Di poesia. «Non gioco più, me ne vado»: un libro su di noi, che ci riconosciamo in quelle sfide, in quei momenti. Come eravamo, dove eravamo, quando Tardelli urlava sotto il cielo di Madrid, e dove quando, nel 2006, il cielo di Berlino si tingeva d'azzurro e noi ridevamo, piangevamo, urlavamo. Come e dove quando Pantani volava sul Galibier, e come e dove e quando e perché Pantani chiuse le ali in quell'alba grigissima, in quella grigia stanza d'albergo. C'è tutto questo, c'è il giorno memorabile e il giorno comune, il giorno euforico e il giorno disperato, in questo libro. E il giorno come un altro. Non ancora compiuti vent'anni, Gianni Mura inizia la sua carriera alla Gazzetta dello Sport. Assiste alle partite di provincia, ma subito dopo si trova a raccontare, nel 1965, quello che succede sulle salite estreme, strette, affollate, e sulle discese ventose del Giro. Ci sono giorni che non si possono dimenticare. Ci sono giorni, ci sono anni, che sono ormai troppo lontani, i giorni di ciclisti in bianco e nero, che qui Gianni Mura disegna, come in diretta, come in una macchina del tempo, e sono veri e propri quadri d'epoca. Ci sono giorni in cui è come se una nuvola avvelenata ammorbasse l'aria. Sono quelli in cui si scopre che il calcio non è più sport, che il ciclismo non è più sport; quando si perde e non si è sicuri di aver perso davvero, perché sono i giorni, gli anni, del calcio truccato dalle scommesse, del doping rabbioso e compulsivo. Ci sono giorni poi in cui si può – come in questo libro – ripercorrere tutto, come se fosse la prima volta; attraversare vicoli che non abbiamo mai attraversato; guardare scorci di cielo che no, non avevamo mai notato. Colli, pianure e distese e le note di Jean Ferrat e George Brassens. I borghi illividiti dalle furie del tempo. I colori e i profumi della Provenza e di Sanremo. Le passeggiate nei cimiteri marini. Odore di strada. E di vino forte. E così ci ritroviamo lì, ai Mondiali del 1982. Grazie a loro, siamo andati in giro a cantare, a gridare, a baciarci, a tamponarci. Era come aver avuto la patente d'esser vivi. E, ora, lo riviviamo. Siamo nel 1985. C'è un uomo, al comando della nave dei sogni: la sua maglia è azzurra, il suo sinistro non perdona. Il suo nome è Diego Armando Maradona. E poi Bartali e Coppi, il rigore di Baggio, e Paolo Rossi e Zoff, e Ian Rush, che beve birra al pub, Chiappucci, Gimondi, Bitossi Cuorematto e Ronaldo e Platini e Gigi Riva. I mondiali, gli europei, i paesaggi e l'odore di primavera. I pianti. Le gioie. La nostalgia. «Nostalgia di te, Gioann» scrive Gianni Mura a Gianni Brera. Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura. In questo libro, però, la nebbia appare e poi scompare, spolvera la cosmetica del ricordo, e quello che rimane sono le corse e le lotte e i pianti e le risate e, insomma, la vita.

Domande frequenti

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Informazioni

Print ISBN
9788842817529
eBook ISBN
9788865762950

CICLISMO, UN QUADRO D’EPOCA

Kübler e il ciclismo che esalta

Ferdi Kübler non ha perso, con gli anni, né la linea né la cortesia. Ci accoglie sulla terrazza dell’albergo dove è venuto a trascorrere le vacanze con la sua famiglia. È Ferdi stesso a prevenire la nostra domanda, esclamando: «Quel Gimondi, che campione!»
«Cosa può dire della sua vittoria al Tour?»
«Posso unirmi al coro di lodi e lo faccio veramente volentieri. Penso che Gimondi, oltre a vincere nel modo che sappiamo, abbia veramente onorato lo sport. Una condotta generosa, una vittoria che non fa una grinza.»
«Si è detto che Gimondi abbia vinto il Tour alla maniera di Koblet…»
«È quel che penso anch’io. Come Hugo, Gimondi è di quei corridori che non vincono le gare col decimetro in mano… e oggi c’è bisogno di gente così. Se ne avvantaggia il ciclismo italiano, ma anche il ciclismo tutto, che continua così a esaltare le folle. Gimondi, a quel che ho visto, va forte in salita, in discesa, sul passo, per non parlare poi del cronometro; è quindi un elemento completo dal punto di vista tecnico. Adesso che è stato consacrato campione, viene per lui il momento più difficile: tutti gli staranno addosso, e vincere sarà ancor più duro. Secondo alcuni sarebbe meglio non sbilanciarsi troppo nel valutare i giovani, perché si corre il rischio di non veder mantenute le belle promesse iniziali, ma in questo caso non si possono avere esitazioni: Gimondi è un campione, e son certo che continuerà a dimostrarlo. Anche il suo carattere, più maturo di quanto non ci si aspetterebbe dalla sua giovane età, la sua serietà professionale, sono indizi che fanno prevedere per lui un domani ricco di soddisfazioni.»
«Adorni?»
«Bel corridore anche lui. L’ho visto al Romandia e mi ha fatto un’ottima impressione. E anche lui ha vinto il Giro d’Italia alla maniera forte, come da tempo non si usava. Al Tour si è ritirato, e quindi non posso dire granché. Peccato. Si potrebbe anche dire che con Adorni in corsa Gimondi non sarebbe uscito fuori così imperiosamente.»
«Motta?»
«Ecco un altro che ha sicuramente classe. Mi è molto piaciuto, al Tour. So che la gente può pensare che Motta non ha vinto neanche una tappa, che magari ai tifosi il terzo posto interessa poco, ma io son sicuro che quel terzo posto sarà, per Motta, una rampa di lancio. Un terzo posto a Parigi non è da buttar via. Ma vogliamo scherzare? Motta, perse posizioni dopo il Ventoux, ha fatto una rimonta superba. Se questo non si chiama aver carattere, essere in gamba…»
«Il ciclismo italiano è finalmente arrivato a un buon livello, non crede?»
Ferdi fa i suoi conti: «Dunque: Adorni è nell’età migliore, Gimondi compie 28 anni a settembre, Motta è ancora più giovane, e poi c’è anche quell’altro, come si chiama, quello dal gran cuore matto…».
«Bitossi.»
«Sì, Bitossi. Un bellissimo Giro di Svizzera, il suo. Un coraggio da leone. Ha meno classe di Adorni, Gimondi e Motta, ma un combattente come lui può far dimenticare la minor classe. Quanti anni ha Bitossi?»
«24.»
«Caspita!» sorride Ferdi «22, 23, 24, più Adorni. E poi c’è Zilioli e ce ne saranno altri che ora non ricordo: avrete da divertirvi, voi italiani, con gente di quel calibro! Per l’Italia son tornati i tempi d’oro.» Già. Finalmente.
(1965)

Sedrina tra favola e storia

Il cuore di Sedrina è costituito dal cimitero, un cimitero piccolino, lindo e pieno di verde, con molte croci in ferro battuto, come ormai se ne vedono poche. Un cimitero in salita, che i riverberi dei fuochi artificiali illuminano di morbide scie colorate, così che spontaneamente si pensa a «Non è ver che sia la morte», al becchino Antonio, al ladro Bassano e alle vecchie e sempre vive figure di quel tenero mago che è Mosca. Sedrina ha un’unica strada, la provinciale, e anche una bella chiesa, bella solo nella facciata, anzi stupenda, con quell’arieggiare delle opere veneziane di Mauro Coducci; naturalmente il signor ingegnere ha piazzato di lato un orribile campanile con orologio al neon, e l’incanto è di breve durata.
La casa dei Gimondi è proprio dirimpetto al cimitero, una casa come un alveare, con cento e cento persone che entrano a felicitarsi, ad abbracciare, a guardare le foto della signora Angela sui giornali della sera. «Qui sembro più grassa» dice lei «e quest’abbraccio è meno vero degli altri, perché era la quarta volta che me lo facevano ripetere.»
La signora Angela son già 32 anni che fa la postina, ma dichiara ufficialmente che nemmeno si sogna di smettere. «Almeno voglio arrivare alla pensione.»
Le chiediamo di veder la camera di Felice. «Sa, non è mica che non voglia, ma c’è un disordine, un disordine…» Riusciamo a convincerla, anche perché l’amico Radici comincia a parlare in bergamasco e questo le infonde più fiducia.
Il disordine, all’atto pratico, si rivela inesistente. Un buon odore di lenzuola lavate in casa, in camera di Felice; due letti: «In quello grosso dorme lui, con l’Alessio, e in quell’altro il Pinuccio; cosa vuole, siamo una famiglia povera». Eravate una famiglia povera, semmai, signora; adesso non c’è più da aver paura di niente. «Lo dice lei. Io ho più paura adesso di prima. È tutto troppo bello, ho paura che non duri, che succeda qualcosa di brutto.» Ma gli vogliono tutti bene; di cosa può aver paura? «Non lo so. Forse è perché è successo tutto tanto in fretta. Una non ha neanche il tempo di pensarci su che capitano tante di quelle cose.» Ma lei, sinceramente, se l’aspettava da Felice una cosa del genere? «È sempre stato un bravo ragazzo, e sentivo che ne sarebbe uscito qualcosa di buono, anzi, ne ero certa. Ma di qui a immaginare…»
Papà Gimondi fa gli onori di casa, offre da bere a tutti. Non si riesce a capire bene che tipo sia. È chiuso, parla poco. Numerosi ritratti di papa Giovanni in salotto, come già di sopra, in camera di Felice; un mazzo di gladioli rossi; una cucina (Salvarani?) nuova di zecca. Le maglie gialle del Tour, col numero in evidenza (123, fateci caso: uno due tre e il gioco è fatto) sul balcone che guarda il cimitero. Ma è ora che si salga al campo sportivo dell’oratorio. Ci sono quattro dei Salvarani («che spettacolo! Anche per Vittorio, dopo il Giro, c’erano 6 chilometri di corteo») sul palco d’onore. Lo speaker non sa più cosa dire. Suonano i «sifoli di Bottanuco», in costume di velluto con fiocco e calzettoni biancoverdi, suona (o stona?) il complesso Tre Chitarre, composto da tre volenterosi ragazzi di Ambria, viene alla ribalta il Bigio e chioccia la sua gioppinesca filastrocca; «abbiamo con noi la signora Angela Gimondi» annuncia lo speaker, e tutti a spellarsi le mani. E finalmente arriva il Gimondi più atteso. Cercano di saltare sulla macchina, i carabinieri fanno una fatica boia ma lo scortano intero fin sul palco.
Dove comincia la sequela di rito. Discorsetto, grazioso, recitato, benino, da bambina. Poesiola, orribile, ma che nella circostanza assurge a capolavoro, detta, con frequenti papere, da altra bambina. «Buonasera a tutti» fa Felice, e crollano le Prealpi orobiche. Ma non è finita. Dieci minuti al sindaco, ed è giusto, cinque al segretario comunale, che viene spesso interrotto dagli applausi, ma Felice impugna il microfono e implora silenzio, per favore, «altrimenti qui non si finisce più», e il segretario termina in crescendo. Toccherà in seguito anche al ministro Scaglia, che è di queste parti e quindi ci sta bene.
Felice (che, secondo noi, sta pensando che vincere al Mont Revard è stato meno faticoso che non presenziare a una cerimonia ufficiale) si sottopone di buon animo a un’intervista che lo speaker definisce «improvvisata» (da una settimana). Rispondendo, dice: «Deve molto a Sedrina perché qui si vive tranquillamente». «Io non pensavo a un’accoglienza così grande. Ringrazio tutti. Grazie.» (Le quarantamila mani raggiungono il diapason.)
«Poulidor è un gran corridore, un atleta completo, un bravo ragazzo. Non si può dirne male, neanche a volerlo.
«Ho visto delle facce amiche sul Revard, e mi sono sentito più forte.
«I francesi sono gente molto sportiva e simpatica. Mi hanno sempre applaudito, dovunque andassi.
«Ma devo soprattutto ringraziare i Salvarani e Pezzi, che non hanno preteso niente da me agli inizi, che hanno saputo aspettare. Difatti…
«A San Sebastián non partirò favorito. Non sono uno sprinter.
«Per chi voglia intraprendere una carriera ciclistica, questo il mio consiglio: vita regolare, e fare quel che si deve fare, altrimenti non si ottengono i risultati.»
Ricominciano poi le fontane luminose, le girandole, i mortaretti. Ma non si può assolutamente fare un paragone con Piedigrotta. Diamo a Sedrina quel che è di Sedrina, cioè quell’allegria riservata nella sua sfrenatezza, quelle scavate facce montanare che nulla hanno di piedigrottesco, quelle montagne nere, tragicamente incombenti.
Non è di Gimondi la prima gloria di Sedrina; ci sono altri due ciclisti, Pesenti e Gotti. Gotti arrivò primo degli isolati al Giro del ’34, Pesenti vinse quello del ’32 «e il Tour del ’31 lo persi per colpa di Gestri». Dicono tutti e due che Gimondi era già un campionissimo da esordiente, che vederlo lì con la maglia gialla non li stupisce più di tanto. Vien fatto anche notare che, a memoria d’uomo, non si ricorda un buon ciclista in Val Seriana, né un buon calciatore in Val Brembana. Sedrina è in val Brembana. Epperciò.
Nel salone dell’oratorio tutte le coppe vinte da Gimondi (sessantaquattro), e le maglie da lui indossate. Tartine, pasticcini, beveraggi per un reggimento. «Ho fame» ci dice Pezzi «son tanto commosso che ho fame. Non ci sarà per caso una bella bistecca, perché a me, ’sti pasticcini…» Ma non la chiede. Anzi, non si siede neanche al tavolo dei «pezzi grossi»; si può dire che è qui in incognito, buon Luciano. Se chiedesse una bistecca, siamo certi che gli arrostirebbero un bue.
«Non è un fisico forte, ma violento, se così posso dire» sta spiegando il dottor Bergamaschi, che prega di lanciare un appello affinché nessuno inviti a pranzo Felice, perché lui è un ragazzo educato che fa fatica a dir di no, ma insomma, non si può certo portarlo a far concorrenza a Moby Dick. Ghisalberti continua a guardar l’orologio, fra un po’ porterà a nanna Felice, poveraccio, che il diritto di riposare ce l’ha anche lui. La torta-Gazzetta viene fatta fuori in un batter d’occhio. Un prete comincia a suonare il piano. Quasi mezzanotte.
«Qui a Sedrina abbiamo il sole tutto intero per quindici giorni all’anno. Siamo chiusi fra le montagne, tutta gente che lavora sodo» dice Piergiorgio Ghisalberti (non parente dei Ghisalberti tutori di Gimondi: qui i Ghisalberti non si contano) «ma adesso è cambiato qualcosa.» Per voi del paese, cosa significa l’impresa di Gimondi? «Significa essere orgogliosi del nostro paese, oltre che di lui. Significa tante cose, ma noi bergamaschi ci teniamo dentro tutto, brutto o bello che sia. Siamo fatti così.»
Comincia a piovere, Gimondi scivola verso Bergamo, mentre lo attendono a San Pellegrino. Ma la festa continua, un’indimenticabile festa popolare: migliaia di maglie gialle, di bandierine, punteggiano l’oscurità. Le case son tutte chiuse, la provinciale ingorgata. Tutto un grido di passione per Gimondi, «onore e vanto della nostra terra» come strilla un altoparlante: contadini, boscaioli col vestito della festa, vecchie nere e dalla faccia trasparente, bambini come elfi, ragazze dalle anche larghe, balconi infiorati, osterie zeppe, musica e cori di montagna e, dalla stretta valle, l’eco della monotona canzone del Brembo.
(1965)

Il «miracolo» italiano

Ci troviamo a considerare l’ultimo anello di una catena di vittorie. Un anello netto, limpido, come quelli che lo precedono. Di fronte a questa messe di vittorie oltre frontiera viene spontaneo di chiederci cosa sia cambiato rispetto al passato, perché in breve spazio si arrivasse a tanto. Le basi del «miracolo» del ciclismo italiano sono logiche, alla portata di tutti.
Abbiamo avuto una fioritura di campioni, questo è vero, ma abbiamo dovuto attendere che maturassero. Ora il loro modo di correre è considerato migliore, il più bello da vedersi e insieme fruttifero, mentre, specialmente qui in Belgio – la lingua batte dove il dente duole – viene criticato aspramente l’attendismo.
Consci delle loro possibilità, i ciclisti italiani si sono liberati da quella sorta di timore riverenziale che li bloccava di fronte ai colleghi stranieri e indubbiamente in questa direzione ha agito la vittoria di Gimondi al Tour. La nostra nouvelle vague , con l’esempio suo, ha capito quale era la strada da seguire. Che su queste strade altri continuino sulle orme dei primi è il nostro augurio.
Parliamo di Gimondi, di Adorni, di Dancelli. Le ultime vittorie all’estero recano la loro sigla, ma non dimentichiamo i Motta, i ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota editoriale
  3. IL GOL NON È TUTTO, MA QUASI
  4. CICLISMO, UN QUADRO D’EPOCA
  5. PICCOLE STORIE
  6. ORA E CIÒ CHE È STATO
  7. DA QUELLA CURVA SPUNTERÀ
  8. PAESAGGI, PASSAGGI
  9. DI FRONTE E DI PROFILO
  10. A BORDO CAMPO
  11. CARO AMICO TI SCRIVO