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Informazioni su questo libro
Nei primi anni Novanta nessuno in Jugoslavia immaginava cosa sarebbe successo. Nelle città e nelle campagne, la gente viveva una vita normale, non molto diversa che nel resto d'Europa, che nella nostra vicina Italia. Ma il male arrivò presto, come una tempesta terribile, e sconvolse la vita di tutti e nulla fu più come prima. In pochi lo videro annunciarsi nella montante propaganda nazionalista, nel repentino ricambio dei quadri dirigenziali di fabbriche e organizzazioni, nei primi screzi diplomatici fra regioni e gruppi etnici. La maggior parte della gente comune vi si trovò catapultata, come in un brutto sogno da cui, ormai, non era più possibile svegliarsi. Chi fu responsabile di tutto questo? Delle distruzioni, dei saccheggi, della violenza più atroce, degli stupri e delle torture, della fame, del freddo, delle umiliazioni? All'improvviso accadde, fu la notte della ragione, il ritorno ad Auschwitz, la morte di Dio e la morte dell'Uomo. Come fu possibile? Come poté accadere così vicino a tutti noi? Di fronte alla tragedia della guerra, Svetlana Broz però vuole parlarci di speranza, dei giusti nel tempo del male, di tutte quelle persone, donne, uomini, ragazzi, che seppero dire no nel momento in cui questo era più difficile e scomodo, a costo della propria stessa vita. Gente comune con un cuore straordinario, eroi veri di una storia vera. Grazie alle testimonianze di questo libro ci saranno d'esempio, indicando la strada, come luci nella notte del dolore. Un libro per ribadire che nelle piccole questioni della vita come nelle grandi vicende della storia l'indifferenza dei molti è più pericolosa della crudeltà dei pochi.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Storia militare e marittimaIl grande pastore con molte pecore
Testimonianza del dott. Ante Jelić, Vareš, novembre 1998
Sono nato nel 1954 a Vareš, dove ho finito la scuola dell’obbligo e il liceo. Nel 1981 mi sono laureato alla Facoltà di Medicina di Sarajevo. Subito dopo aver terminato i miei studi ho trovato lavoro presso il Centro Medico di Vareš, dove ho lavorato fino al 3 novembre del 1993.
In quella data sono successe molte cose orribili nella mia città . Mi hanno addirittura licenziato. Io sono sempre stato uno di quelli che non credeva che a Vareš potesse accadere nulla di simile a quello che stava succedendo nelle altre zone del paese. Qui tutti quanti andavamo insieme a scuola, lavoravamo, convivevamo, ci frequentavamo e pensavamo che nessuno mai sarebbe stato costretto a lasciare la città .
Il 13 giugno del 1993 sono arrivati a Vareš tra quindici e ventimila profughi croati provenienti da Kakanj. Andavo a visitare quelle persone cercando di prestare il mio aiuto. Tutti loro mi dicevano la stessa cosa:
- Prima o poi i croati saranno cacciati anche da qui.
- A noi ciò non accadrà mai. Non c’è una sola cosa al mondo che potrebbe costringere la gente di Vareš ad abbandonare la propria città — gli rispondevo io.
Mi stavo sbagliando… Uno dei giorni più difficili della mia vita è stato sabato 23 ottobre del 1993, quando ho visto quello che accadeva a Stupni Do.9 In quel villaggio, oltre ai miei amici e ai miei coetanei, vivevano molte altre persone che avevano studiato e lavorato con mio padre.
Verso le otto di quella mattina, mentre stavo uscendo a comprare il pane, fuori si sono sentite le sirene, poi degli spari e successivamente delle esplosioni di granate. Spaventata, mia figlia ha stretto le sue mani attorno alla mia vita e mi ha detto:
- Papà , per favore, non uscire!
- Va bene figlia mia, non uscirò. In fondo è meglio rimanere affamati.
Soffrivo a guardare le fiamme e il fumo che si alzavano dai villaggi adiacenti alla città e non sapevo che cosa stava succedendo. Abitavo in un condominio insieme a mia moglie e alle mie due figlie da più di quattro anni. Dei miei vicini nessuno usciva di casa…
Il pomeriggio seguente è venuto a casa mia il rappresentante della Croce Rossa di Vareš e mi ha riferito:
- La vogliono nel salone della scuola superiore.
- E cosa dovrei fare lì?
- Ci sono dei musulmani imprigionati.
- Perché?
- Non lo so neanch’io perché. So solo che quelli che li tengono rinchiusi lì dentro cercano un dottore croato.
Sono rimasto molto turbato dal fatto che cercassero proprio un dottore croato. In città c’erano anche molti altri medici. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. Quando sono entrato nella scuola sono rimasto sbalordito: nel salone, che non era più grande di centocinquanta metri quadrati, c’erano ammassati duecentocinquanta musulmani fra i diciassette e i settant’anni. Li conoscevo tutti. Quelle persone dovevano essere aiutate e io mi sentivo così impotente, così misero.
Erano sorvegliati dagli uomini in uniforme, soldati dell’HVO, che allora vedevo per la prima volta in vita mia. Più tardi mi è stato detto che erano venuti da Kiseljak, Kakanj e Fojnica. Bastonavano e maltrattavano i prigionieri.
- Dottore, rimanga insieme a noi il più a lungo possibile. Mentre lei è qui ci tortureranno di meno — mi supplicavano sussurrando i miei vicini musulmani.
Con me avevo un po’ di medicinali e così li ho distribuiti. Mi pregavano di misurare loro anche la pressione. Ad alcuni di loro mettevo il polsino per cinque sei volte di seguito: tutto per rimanere più tempo possibile in quella sala. Dalla paura tremavo anch’io e in quello stato non riuscivo nemmeno a misurare la pressione come si deve. Sono rimasto insieme ai prigionieri fino alle dieci di sera, quando sono stato interrotto da un soldato dell’HVO:
- Tu cosa ci fai ancora qui dentro dottore?
- Mi avete detto voi di venire — ho risposto con calma cercando di mascherare la mia paura.
- Qui dentro tu hai finito. Vattene fuori!
E mentre mi avviavo verso l’uscita mi ha sferrato un calcio nel sedere. Arrivato a casa ho detto a mia moglie:
- Temo che anche noi saremo costretti ad andarcene da Vareš.
Una mia collega, tornata dalla visita dei prigionieri della scuola, è venuta da me nell’ufficio parrocchiale. Era profondamente turbata e con le lacrime agli occhi mi ha domandato:
- Caro Ante, cosa dobbiamo fare?
- Io vado lì a portare un po’ di medicinali. Non so cos’altro potrei fare — ho risposto e sono andato alla ricerca del mio parroco.
Vedendomi, Don Mijo Mrljić mi ha detto:
- Prendi tutto quello che ti serve dalla farmacia della Caritas e portalo a quei poveri uomini.
E mentre me ne uscivo mi ha fermato davanti alla porta d’ingresso tenendo fra le mani cinque stecche di sigarette:
- Porta anche queste, così almeno possono fumare.
Ma quando i prigionieri hanno visto le sigarette fra le mie mani disperatamente mi hanno supplicato:
- Caro dottore, nasconda quelle sigarette. Se le riporti indietro! Rischiamo di essere torturati ancora di più.
Osservando quello che i croati stavano facendo ai musulmani e sapendo che dall’altra parte sia i serbi che i musulmani si comportavano in ugual modo verso gli altri, ho capito che il defunto presidente Josip Broz Tito aveva pienamente ragione quando diceva: «Custodite la fratellanza e l’unità fra i popoli come fossero le pupille dei vostri occhi».
Soffrivo nel vedere quanto male c’era negli uomini, arrivati al punto di bastonarsi e torturarsi fra di loro.
Dopo quella domenica sono andato a lavorare al pronto soccorso. Il 30 di ottobre è stata effettuata la mobilitazione di tutta la popolazione croata e così anch’io sono stato arruolato nelle file dell’HVO. Era la prima volta in vita mia che impugnavo un fucile ma non ho mai sparato nemmeno un colpo. Non sapevo niente dell’esercito perché non avevo fatto il servizio militare: a ventisette anni sono rimasto vittima di un incidente stradale che mi ha sollevato da quell’obbligo. Da giovane ero molto dispiaciuto per non aver potuto fare quell’esperienza.
Mi hanno mandato a Zabrežje dove prima della guerra c’era un centro educativo intercomunale. L’équipe medica, composta da un dottore e da due infermieri, prestava i primi soccorsi ai soldati feriti. Mi hanno tenuto lì fino al 2 novembre. Quella mattina, attorno alle tre e trenta, ho visto bruciare Perun, una montagna nei pressi di Vareš. Sentivo degli spari ma non riuscivo a capire cosa stava succedendo. Ho cercato di rintracciare qualche ufficiale dell’HVO per avere delle informazioni precise ma non ho trovato nessuno. Ho provato a telefonare al pronto soccorso di Vareš ma anche lì non mi rispondevano. Solamente verso sera mi ha risposto al telefono un ex dipendente che era andato in pensione ancora prima della guerra:
- Caro dottore, qui non c’è più nessuno a parte me.
- Pero, come non c’è nessuno? E il medico di turno dov’è?
- Stamattina tutti i croati se ne sono andati verso Brezik.
- Brezik! Ma è dall’altra parte della montagna!
Ho preso la macchina e in mezzora sono arrivato a Vareš. Per strada ho visto delle scene terribili: un grande numero di persone abbandonava la città portandosi sulle spalle solo qualche fagotto; i bambini piangevano e chiamavano i loro genitori. Alcuni cercavano disperatamente di salire sugli autobus e sui camion già strapieni. Mi sono diretto verso il mio appartamento. La gente che mi vedeva passare faceva segni per dirmi se ero impazzito.
- Perché sta andando in città ? Non vede che stiamo scappando tutti! — mi urlavano.
Ho preso mia moglie e le mie figlie dall’appartamento e le ho portate nel centro medico dove abbiamo deciso di passare la notte. Durante le ore notturne i soldati del...
Indice dei contenuti
- L’autore
- Ringraziamenti
- Presentazione all’edizione italiana
- Prologo
- Vi pare che i vicini debbano difendere le vostre case?
- Amici conosciuti e sconosciuti
- Il capitano Mića
- Se non vuole il tuo balija, lo farò io
- Sfuggita all’inferno di Mostar
- Il desiderio di dipingere
- Vicino, torna!
- Ucciso nella tomba di un altro
- La strada pulita
- La piccola Mosca
- Una casa ospitale
- Il grande pastore con molte pecore
- Japek Marko
- Sarajevo, una città che sta insieme
- Il mosaico di Sarajevo
- Il vostro destino sarà anche il mio
- La salvezza nell’appartamento musulmano
- Questi sono i Balcani!
- I primi regali
- Sequestro su richiesta
- La vecchia partigiana
- Dormite tranquilli
- La spia balcanica
- Un bambino salvato
- Rifugio nel negozio
- La fragranza dei gigli
- Bambini sani
- Finché ci sono qui io non ti mancherà niente
- Dividi il pacco in due parti
- Questi sono solo ragazzi
- Un bagliore che brilla ancora oggi
- Il bene ritorna ai buoni
- Stupro a Grbavica
- Prendi i tuoi cari e portali via da qui
- Lacrime negli occhi di un gigante
- Tuzla, la città al di sopra di ogni odio
- Mamma, ti prego, aiutami!
- La grappa per il matrimonio del nipote
- Il dono della gente buona
- Perdona il mio popolo per quello che fa!
- Ultimo saluto alla madre morta
- Ci voleva del coraggio per tornare a casa
- Ciò che semini, raccoglierai
- Un matrimonio con gli aiuti umanitari
- Banja Luka, città straziata
- Il portafoglio
- La resa con l’inganno
- Chi ci perseguita e dove ci mandano?
- Il caffè dietro le sbarre
- Il soldato ha pianto
- La fiducia conquistata
- Il passaporto
- Attraversare un campo minato per raggiungere l’amata
- Il caffè da Mustafa
- Sette giorni dopo
- Una vita dignitosa
- Se tutti l’avessero pensata così, non ci sarebbe stata la guerra
- Impiccate me! Lui lasciatelo andare!
- Buon viaggio, nonna!
- Un tipico cognome ebraico
- I barbari si sono presi una parte di noi
- Il soccorso al cetnico ferito
- Neanche a te è andata bene
- Lo farò io
- Come in casa di mia sorella
- Se devono aspettare loro, posso aspettare anch’io
- Tre patate
- Non vogliamo combattere senza di lui
- Il fratello n. 9
- Vicina, vengo anch’io con te
- L’arrosto caduto dal cielo
- Voglio vedere la fine di questo male
- Un uomo e una scritta sul muro
- Una promessa mantenuta
- La compagna di scuola
- Il tunnel
- Il cognome fortunato
- Convivere a Tuzla
- L’uomo con il cappello sul petto
- Non voglio lasciare la mia cittÃ
- La mia più leale compagna d’armi
- State disonorando noi sarajevesi!
- I cento marchi tedeschi dell’imam
- Il colonello Risojević
- Commosso dalla bontà umana
- Nonna ti voglio bene, più di qualsiasi cosa al mondo
- Non la pensavo come loro
- Uccideteci tutti
- Fadil
- Mentre la morte camminava per le strade
- Epilogo
- Glossario