Il tempo dell’azione mitica (1)
Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l’azione. Ciò si chiama diventare un uomo.
ALBERT CAMUS, Il mito di Sisifo
Non c’erano linee e non c’erano pali al Fabbrica Rossa, una lingua piangente di terriccio nascosta in una depressione ancora incontaminata dal cemento, e quella specie di mondo di nessuno si poteva raggiungere soltanto dopo aver superato una sfilza di prove iniziatiche governate da chi nell’arena era già stato accettato, «correte fino in chiesa senza fermarvi, entrate, fate un urlo e tornate indietro entro un minuto, e poi forse potrete giocare. Oppure andate davanti alla bottega di Ieluccio il senzacapelli, tirate una pallonata sulla porta e gridategli “Mastro Lindo, mettiti la parrucca!”. Poi potrete giocare».
Alcune prove valevano più di altre.
La sfida aperta, l’attacco manifesto contro un bersaglio dal volto conosciuto era l’apice del coraggio, la razzia anonima o lo spregio vandalico senza confronto vis-à-vis col nemico erano considerati blitz abitudinari, scaramucce necessarie solo a mantenere il rango, a mostrare che non ci si rammolliva e che si cresceva sani e leonini, evolvendosi.
Noi del giardino, quando giunse il nostro turno ci sottoponemmo tutti alla norma senza capire il perché, secondo le regole di un sapere arcaico ed ereditario che si diffondeva per via orale di pomeriggio in pomeriggio, di lacerazione in lacerazione, di contentezza cristallina in contentezza cristallina, seguendo la gerarchia depositaria e i comandamenti mutevoli dei caporali muniti delle capacità inventive per muovere le fila del carrozzone. E noi lì a trotterellare, a ruota di quei sacerdoti temporanei dell’euforia, come devoti chierichetti.
Molti di noi erano stati svezzati precocemente da fratelli maggiori fantasmatici, giovani sciacalli avidi di sangue e viscere che aleggiavano per comparsate fugaci e silenziose, e che per lo più popolavano i discorsi intimidatori nei panni dei gigolò o dei faccendieri, perché nella realtà erano già approdati a una classe di esistenza superiore, attestato da un’evidenza comprovata, il battesimo del bacio in bocca. Il giogo luccicante della nostra inferiorità allora non lasciava dubbi e si cromava nel fluido afrodisiaco del privilegio altrui, perché nei loro pomeriggi era contemplato il bazzicare con le donne, e non solo con quelle di famiglia, sorelle, cugine e madri, e al loro cospetto noi eravamo ancora feccia, vermi confinati nell’androceo, e le nostre coetanee angeli troppo bambine per rilasciare effusioni maliziose. Ma il dettame era alieno. Dopotutto, proveniva da bocche invisibili, risultava più che altro aleatorio, e in fondo della reputazione a nessuno di noi importava davvero.
Per arrivare al Fabbrica Rossa bisognava entrare alla stazione delle Ferrovie del Sud Est, un mondo a parte che esisteva solo al mio paese e nel Monopoli, dotato di un ingresso principale di impatto levantino. Palmizi, colonne di pietra e una piattaforma addobbata di piante e fontane con decine di pesci arancioni spinti al cannibalismo a causa dell’alta densità di popolazione, e sotto una pensilina e pareti di ferro e vetro imperavano grandi plance di controllo dalle sembianze futuristiche, un groviglio di leve, lancette, spie luminose e fusibili che mi sembravano prodigiosi e che invece dovevano la loro stazza imponente alla proporzionale arretratezza, strumentazioni di regolazione e misurazione di orari, percorsi, semafori e velocità di crociera che mi facevano pensare all’idea del segreto e mi richiamavano alla mente il dramma dell’errore tecnologico, e io adoravo affrontare da solo quella giungla di componenti ferrosi e nascondigli, specie quando ero triste.
Era possibile insinuarsi al crepuscolo, in qualsiasi stagione, nei vagoni merci messi a riposo sui binari morti e lunghi, lunghissimi pitoni in letargo che aspettavano di essere riempiti con tonnellate di imballaggi, con involucri di legno e fardelli, per poi iniziare a sferragliare per via della ruggine e l’usura. E io mi sedevo lì in quelle budella che da fuori sembravano poter nascondere all’infinito ogni tesoro e ogni vergogna, quando avvampava il desiderio di esplorazione o se un pomeriggio era andato storto, e anche nel caso avessimo perso una delle nostre partite senza limiti di durata, alle cui trame era solo la fatalità a imporre la fine. Che so, il disintegrarsi della luce nell’oscurità o il repentino scrosciare di una mitragliata di pioggia iridescente.
Ma dopo le fatiche di norma desideravo l’eremitaggio e, una volta prescelto il vagone, salivo a bordo con un salto e chiudevo i portelloni di ferro che pesavano come macigni.
Li spingevo usando l’intera forza corporea, quella rimasta, e i lastroni non si muovevano mai senza generare quei decibel di fracasso sufficienti ad attirare qualche cane da guardia del personale, capistazione o capitreno. Col cappellino d’ordinanza la cravatta e il gilet con i bottoni dorati mi sembravano goffi come pinguini, o almeno così si atteggiavano, parodie dei grandi generali ottocenteschi, e la trovavo così carnevalesca la divisa in tempo di pace, quando la quotidianità non richiedeva lo sciabordio dei segni esteriori dell’ordine perché gli uomini tutti fossero capaci di non precipitare nella disperazione e nell’irrequietezza.
Li chiamavo signore mettendomi sull’attenti se venivo scoperto, e la cosa li faceva ridere e nutriva il loro ego, perché l’ego è così, vampiresco, se trova nutrimento non importa la qualità del cibo. E sebbene fossi certo che il treno che avevo scelto per nascondermi avesse terminato il suo servizio giornaliero, in gran segreto speravo in cuor mio di sbagliarmi, di addormentarmi in uno di quegli antri cavernosi vacanti come stanze da letto abbandonate dopo lo sfratto, in quei gelidi stanzoni barricati senza un filo di luce. Così geometrici monolocali, quei container su ruote d’acciaio erano manne per riprendere vigore e ingurgitare qualche frangente di solitudine a cui abbandonarsi nel buio apparente, infilzato da un’unica lama oblunga di luce, facendo i conti col proprio fiatone e riconquistando la certezza che pensarsi onnipotenti in questa vita era un errore marchiano.
Tornavo umile nel vagone.
Grazie alla solitudine, grazie alla paura, grazie al battito accelerato del cuore e all’impossibilità di scartare l’ipotesi che d’improvviso quel nervo polposo e rubicondo si fermasse, paonazzo dopo la vittoria, dopo aver sperperato ogni ottano di forza sul campo. Anche se resisteva la fierezza di essere sopravvissuti un giorno ancora.
Ma nemmeno la vittoria acquietava come quelle fughe.
Anzi.
Se avevo vinto speravo di risvegliarmi con il treno in movimento progressivo con ancora più desiderio, spremendo le palpebre più intensamente come rito di speranza. Le vittorie conquistate non le volevo rimettere in discussione. Pensavo che si sarebbero pietrificate come eterne al semplice innescarsi della locomotiva, quando nel macchinoso processo di accelerazione il procedere del convoglio, da pachidermico, sarebbe divenuto più incalzante, poi poderoso e inarrestabile. E io credevo che proprio allora le mie vittorie sarebbero state eterne, che il viaggio le avrebbe pietrificate per sempre dietro di me, nella memoria che gli altri ne avrebbero conservato, e davanti a me come monito, mio futuro certo, e allora sentirsi all’arrembaggio di qualsiasi meta indefinita poteva essere qualcosa in più che una concessione alla fantasia.
Ma non sempre in stazione ci finivo da solo.
Perdere le partite al Fabbrica Rossa era un’onta per me insopportabile, nessuno dei ragazzi che venivano a giocare aveva a cuore la benché minima idea di sportività. Gli altri, esattamente come me, non sapevano nemmeno cosa significassero concetti di galantomia come l’onore dello sconfitto, né ci commuovevano le geremiadi che si sentivano nelle interviste agli uomini di sport, l’importante è partecipare e roba simile. Ciarle così fasulle suscitavano il nostro disprezzo. Nessuno poteva pensarla davvero così, chi si dichiarava sportivo mentiva, era un impostore, tutte le aspirazioni che non coincidevano con la vittoria o con l’annichilimento dell’avversario erano nient’altro che posizioni strategiche ad appannaggio di chi era stato sopraffatto, ossigeno per provare a ridurre il senso di vergogna, anche perché era molto raro che una partita di calcio per noi, a quel tempo, non nascondesse posta in palio più alta che la trascendesse. Era in ballo la distinzione dei giusti dagli ingiusti. La distinzione tra coloro che dovevano vivere e coloro che dovevano morire.
E così, a volte, dal campo bisognava scappare all’improvviso.
Se chi aveva subìto un nostro sfregio ci capitava davanti per caso, a un palmo dalla vendetta, o se capitavano gruppi di ragazzi più grandi che non volevano giocarsi la supremazia sul territorio a pallone e preferivano i pugni e i coltellini, allora conoscere a menadito gli anfratti della stazione diventava un sapere ambito e rispettato, una cauzione per l’accoglienza indiscriminata nelle sfere altolocate del gruppo, ed era un privilegio assoluto essere uno di quelli che erano umiliati poco a parole e quasi mai nei fatti. Uno dei pochi. Perché tutti avevano lo sguardo rivolto a un bene a lungo termine che si chiamava incolumità, e se io così minuto e inadatto alla colluttazione a sangue freddo non potevo essere tra i generalissimi in prima linea quando capitavano i guerreggi fisici che sembravano poter fecondare in ogni istante nelle trame delle circostanze irripetibili che soggiacevano negli incontri tra lupi, tutti sapevano che a scappare al mio fianco si avevano più possibilità di far perdere le proprie tracce.
Avevo imparato due lingue da bambino.
Quella domestica, un codice governato dall’esperienza e dai ruoli che spesso facilitavano l’interazione tra consanguinei. Codificata, attoriale, era la lingua giusta per comunicare in una nazione sicura in cui l’imprevisto era neve rara, e l’affetto corporeo mammifero, a fine giornata, l’ennesima illusione d’eternità. La tendenza tutta umana a cercare dei punti fermi, dei refrain comportamentali, delle costanti che semplificassero l’irrompere della vita ignota in quella ordinaria, una lingua domestica fatta di gusti gastronomici che non cambiavano mai pubblicamente, capisaldi, anche se cambiavano. Dichiarare di getto, imbronciati, per la prima volta a sei anni, a cena, dopo una pessima giornata, che i peperoni non ti piacciono e che anzi fanno schifo, e ritrovarsi a quindici, e poi a trenta senza sapere che sapore hanno, solo per non lasciare disarmato l’avamposto della propria identità.
E poi allargare questa strategia dell’esteriorità dei segni connotativi a tutti gli aspetti della vita familiare, fino a creare una mappatura, una vera e propria costellazione di dati esteriori che riguardano noi o qualche altro membro, quando il linguaggio domestico si faceva condiviso e ingannevole e serviva da muraglia per preservarsi da attacchi inaspettati o investiture accidentali, o da richieste che ambivano a spremere più bene di quanto ne possedevamo, più affetto di quanto sapevamo e avremmo mai saputo dimostrare. Appelli a comprensione ed empatie che trasbordavano la soglia dell’autodifesa. Fino ad accorgersi che la mappatura si faceva via via immutabile, e il paesaggio nativo inospitale.
E poi un linguaggio selvatico, non lontano da quello animale, calibrato sulla supernova d’istinti basici, fuga, nutrimento e protezione. La trinità buona per vagare nel mondo grande e terribile, un linguaggio dai segni infiniti e trasformisti, incognite sempre in commutazione, milioni, miriadi di variabili combinatorie a regolare le giornate come in una fatwa, e io a dannarmi per essere capace di obbligare me stesso a interpretazioni sempre differenti dell’attimo. Le fauci altrui. Le parole. Le minacce. Le blandizie. Le esondazioni di affetto e gli ostruzionismi immotivati. Le dinamiche di gruppo, da decodificare.
Il linguaggio selvatico era quello dei pomeriggi in giro a giocare.
Mi preparavo a esaminare gli accadimenti in duplice chiave, il puro istinto e il ragionamento. Le amicizie, le reazioni nervose dei compagni e le bravate da teppista armeggiando ora con l’uno ora con l’altro, desiderio e intelletto, e ciascuno degli strumenti era volto allo stesso identico scopo, non soccombere, e ognuno lo faceva a modo suo. Imparare a conoscere se stessi e a elaborare delle soluzioni durature, il lungo periodo come orizzonte tassativo, e affermare così la propria supremazia o la propria libertà, libertà che talvolta desiderava emanciparsi anche dalla stessa ansia di supremazia.
Cercare significati più profondi o non cercarli affatto. E avere per il paesaggio il massimo del rispetto, e anche il massimo rispetto verso il caso fortuito, capendo di essere suoi apostoli, sudditi ai suoi comandi, e adoperare verso l’ambiente e il fato il massimo della vigilanza, un misto tra tatto e contemplazione, per accorgersi dei pericoli a distanza.
E c’era un luogo che faceva da palestra, l’allenamento perfetto a fondere questi due linguaggi, a perfezionarli secondo le proprie esigenze e divenire forti, sempre più forti, e soprattutto fedeli alla propria vera essenza originale, contro il mondo esterno qualsiasi forma esso acquisisse, ed era sempre il campo da calcio.
Gioco di ruolo, realtà e vita in divenire e arte poetica dell’imprevisto, in parti uguali.
Era in quella sintesi che il calcio, e si capiva sulla pelle come un dato sensoriale già a dieci anni, con il puro istinto famelico e liberato, diventava epico. Senza il bisogno di trovare parole per imbastire un teorema.
Il calcio era la vita umana alleggerita del dolore.
Perché la sconfitta era qualcosa di profondamente diverso dal dolore.
Era passato e futuro, mai presente. Nel presente si disfaceva prima di essere compresa a fondo. Nel passato dava rabbia, nel futuro voglia di rivalsa. Per il dolore, non c’era tempo, così come nemmeno era il tempo delle gare undici contro undici. Chi la possedeva una zona franca così grande?
Il Fabbrica Rossa, che qualcuno chiamava il campetto della stazione, era circondato da sterpaglie fitte ed erbacce spinose che costituivano uno strato di cute elastica e uniforme, entro cui quella striscia di terra purpurea sembrava un’escoriazione crostificata, e io mi chiedevo se sotto il primo strato superficiale scorresse sangue vivo oppure sbottassero fumi di acido muriatico, perché in fin dei conti com’era possibile che solo in quello spicchio ovaleggiante non crescesse niente di niente?
A ovest s’innalzava la città con la sua periferia voluminosa che aspettava ogni mattino successivo per dilatarsi un pizzico, al pari dell’alta marea, e guadagnare spazio vitale e crosta terrestre, crescendo di volume con nuove costruzioni.
Oltre l’ultima fila di binari si potevano scorgere i blocchi indistinti di palazzi che si accalcavano l’uno con l’altro come per sostenersi, sotto il brulichio dei tetti sovrastati da roveti d’antenne, e io se arrivavo primo non potevo esimermi dal guardarmi intorno, spiegavo le braccia come ali e giravo come una ballerina nell’atto della pirouette, e acceleravo sempre più fino alla perdita dell’equilibrio, per mimare così il precipizio giù di sotto, nell’enorme scavo che avrebbe inglobato le fondamenta di un nuovo castello a pochi metri da noi, proprio dietro i binari che sembravano innalzarsi come un confine invalicabile tra dimensioni spaziotemporali.
E in noi esisteva un terrore latente quanto iperbolico, avevamo paura che il pallone calciato via con tutta la forza per diventare un gol o perché uno ne fosse evitato potesse finire laggiù nei cunicoli di quell’alveare di ratti, e perdersi per sempre nel centro della terra. Vedevamo solo le punte dei tralicci e non la profondità della voragine, eppure vaticinavamo i rischi: essere costretti a procurarci un altro pallone, o peggio, organizzare una spedizione per cercare il vecchio.
E se verso qualsiasi altro altrove l’idea di affrontare un safari ci avrebbe esaltato, istintivamente sapevamo che al cantiere non saremmo stati ben accetti. Dovevamo entrare di straforo. Io dicevo no perché ci sparano. E non era un modo di fare il gradasso, di fingere di saperla più lunga degli altri, ci credevo davvero. Lo leggevo nelle cose, la legge delle cose. Lo ribadivano senza mezzi termini i loro volti anneriti, le pelli sporcate, i recinti alti, i fari sempre accesi dei cingolati e delle pale meccaniche che sradicavano ogni ostacolo e parevano dotati di stomaci onnivori, pantagruelici, e poi ci ferivano soltanto a sentirle le grida a voce greve degli operai, laceravano i timpani e scuotevano le arterie come se fossero corde d’arpa, gli scatti nervosi in quelle voci maschili innalzate al massimo grado di decibel, urli come pugni improvvisi, urli come calci violenti nello stomaco, e non so come ma arrivava chiaro e forte alle nostre sinapsi il segnale toneggiante e univoco, cioè che anche un semplice avvicinamento alle ruspe avrebbe significato una reazione, una punizione. Perché quella solerzia, quel formicolio di uomini e quel rumore costante, quei cigolii e quei ronzii erano indici di misurazione anch’essi, infallibili. Erano la sabbia immaginifica della clessidra, frenetica nell’esaurirsi e rivoltarsi, la prova che il tempo in cantiere era denaro. Tempo economico contro il nostro improduttivo, sottostante, e guai a noi se avessimo provato a contaminarci l’uno con l’altro.
Guardando a sud si vedeva una galleria che per me era un buco nero spaziale in cui il buio poteva diventare un mantello e un’arma segreta, e poi una collina con qualche casa di campagna consacrata al senso del decoro, bei pergolati e tanti, tantissimi lampioni, talismani contro la miseria di cui mi parlavano gli anziani di famiglia, esorcizzata nei lustri con giardini ben curati che parevano pavoneggiarsi sciantosi contro la magrezza macilenta dei vigneti, mentre a nord si apriva una fossa cavernosa squadrata, a forma di parallelepipedo e ben più grande del nostro spazio utilizzabile per le evoluzioni circensi con il pallone, una discarica abusiva in cui andavamo a cercare i pali e le panchine. Ferri da cantiere, blocchetti smussati e bustoni formavano cordigliere in miniatura, e tutti quei materiali e quegli scarti accumulati insieme come in una fossa comune parevano esalare l’ultimo respiro e incagliarsi come fossili nelle rocce che ai livelli più profondi dello scavo cambiavano colore e consistenza.
Lavandini, scaldabagni, divani, materiali da costruzione, termosifoni in ghisa, lucernari, copertoni, catene, biciclette rotte, ombrelli, blocchetti e bottiglie di vetro erano accatastati come ossa, arti in putrefazione a cui noi e solo noi potevamo offrire nuova vita, e complessivamente possedevano una certa eloquenza sull’idea di finitudine, così a volte alcuni di noi arrivavano in anticipo; non so quanto consapevolmente concorrevamo a esorcizzare quell’idea innalzando sculture momentanee che si reggevano su incastri metallici caduchi, centauri con articolazioni di fortuna e corpi massicci da colpire da lontano per mezzo di innocue lapidazioni.
Mi veniva naturale inerpicarmi nei paragoni, quella prossimità tra il nostro spazio libero e il loro accumularsi esanime, occulto, dove nessuno avrebbe dovuto interessarsene, e se cercavamo dei ferri alti almeno due metri come i pali regolamentari succedeva perché più dei sassi tagliavano l’atmosfera anche in altezza, e così si riducevano un po’ le dispute feroci sui tiri che sfioravano le porte immaginarie a mezz’aria. Ore fermi a discutere, ore a sproloquiare se avessimo assistito a un gol, a un palo o a una semplice conclusione fuori misura, troppo alta anche per una meta a rugby. Sedici, diciotto persone e altrettante trasposizioni del ricordo, i replay inscenati con movenze goffe che ognuno sapeva mimare meglio degli altri, era estenuante, ma ancora più incredibile era che quasi sempre il giorno successivo i ferri li trovavamo divelti e le sculture disintegrate, e finivamo per andare in discarica a procurarcene di nuovi, spedizioni in cui ci dilungavamo ad assemblare ancora effigi umanoidi, spaventapasseri cui nell’intimo assegnavamo il compito di proteggere quell’unico spazio d’abbandono a noi concesso in usufrutto.
Era inevitabile fantasticare su chi fosse il vandalo, e il più prolifico di inventiva nel fornire sospetti era Barabba, un ragazzino appena più grande di me che vedevo ogni giorno perché abitava nel mio stesso alveare, e per il nonnulla che la fraternità stretta nei giochi poteva significare a quell’età noi ne condividevamo un anfratto labirintico, perché stavamo sempre insieme, era un fatto di quantità. Così i nostri genitori ci lasciavano più liberi, uscivamo di casa e rientravamo alla stessa ora, un corpo unico e un unico alibi. Barabba era un soprannome che era nato al catechismo quando Martino, così si chiamava per davvero, raccontò con un certo orgoglio che a casa sua tutti avevano un nome che...