1. La promessa
L’uomo del nostro tempo ha sovente la sensazione che la sua vita privata sia tutta una serie di trabocchetti e che i suoi problemi, le sue difficoltà, trascendano la ristretta cerchia in cui vive. Sensazione il più delle volte esatta: l’esperienza e l’azione dell’uomo ordinario sono circoscritte alla sua orbita personale; la sua visuale e i suoi poteri non oltrepassano i limiti dell’impiego, della famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove male, rimane spettatore. E quanto più si fa strada in lui la coscienza, ancorché vaga, di ambizioni e di minacce che trascendono il suo mondo d’ogni giorno, tanto più gli pare d’essere in trappola.
Alla base di questa sensazione vi sono i mutamenti di struttura delle grandi società continentali, in cui i singoli uomini sono immersi. Gli avvenimenti della storia contemporanea segnano anche il successo o l’insuccesso di singoli uomini e di singole donne. In una società che si industrializza il contadino diventa operaio, il signore feudale o scompare o si trasforma in uomo d’affari. A seconda che sale o scende questa o quella classe sociale, c’è chi trova l’impiego e chi lo perde; se il tasso di investimento cresce, l’uomo prende animo; se diminuisce, si scoraggia. Viene la guerra e l’assicuratore va a lanciare razzi, il magazziniere a manovrare il radar; la moglie rimane sola e il figlio cresce senza padre. Non si può comprendere la vita dei singoli se non si comprende quella della società, e viceversa.
Ma di solito l’uomo non vede i suoi problemi in termini di mutamenti storici o di conflitti istituzionali. Non attribuisce il benessere di cui gode o la miseria di cui soffre ai grandi alti e bassi della società in cui vive. Raramente consapevole degli intricati rapporti fra il suo modo di vita e il corso della storia universale, l’uomo ordinario ignora, di solito, come questi rapporti incidano sul tipo d’umanità che va formandosi, sugli eventi storici che maturano e ai quali dovrà forse partecipare. Non possiede la qualità mentale indispensabile per afferrare l’interdipendenza fra uomo e società, biografia e storia, individuo e mondo. Non sa affrontare i suoi problemi personali in modo tale da giungere a controllare le trasformazioni strutturali.
Né ce ne meraviglieremo certo. Nella storia dell’umanità non vi è stato mai momento in cui tanti uomini fossero così totalmente esposti a sommovimenti così forti e così rapidi. Se gli americani non hanno sperimentato i mutamenti catastrofici in cui sono incorsi invece gli uomini e le donne di altre società, ciò è dipeso da eventi che stanno diventando rapidamente «storia», storia pura e semplice. La storia che incide oggi su ogni uomo è storia mondiale. Nel corso di una sola generazione un sesto dell’umanità è passato da uno stato federale e arretrato alla più progredita e temibile modernità. Territori coloniali diventano liberi, si stabiliscono nuove e meno visibili forme di imperialismo. Avvengono delle rivoluzioni, masse d’uomini sperimentano il morso di nuove forme d’autorità. Sorgono società totalitarie, che poi vanno in frantumi o invece si affermano prodigiosamente. Dopo due secoli di fiduciosa attesa la democrazia, anzi l’apparenza della democrazia, si è ristretta a una minima parte dell’umanità. In tutto il mondo sottosviluppato crollano antiche forme di vita, e quelle che erano vaghe aspettative si trasformano in necessità impellenti. In tutto il mondo sottosviluppato le manifestazioni dell’autorità e della violenza diventano totali nel fine e burocratiche nella forma. Davanti a noi non c’è più che l’umanità, con le due super-nazioni che dai due opposti poli vanno concentrando gli sforzi più massicci e più organici nella preparazione della terza guerra mondiale.
Il processo di formazione della storia precorre la capacità degli uomini di orientarsi in esso secondo gli ideali più cari. E poi, che validità hanno questi ideali? Gli uomini, anche quando non si lasciano travolgere dal panico, avvertono che gli antichi valori, gli antichi modi di pensare e di sentire sono crollati e che gli inizi nuovi hanno l’incertezza di una stasi morale. Non può dunque fare meraviglia che l’uomo ordinario senta di non poter dominare i mondi più vasti che improvvisamente gli si aprono davanti; che non riesca a comprendere il significato che il suo secolo ha per la sua vita individuale; che per difendere se stesso, la propria intimità, egli diventi moralmente insensibile; che abbia la sensazione di essere in trappola.
Non è soltanto bisogno di cognizioni, quello che l’uomo ordinario sente: in questa nostra Età del fatto l’informazione domina e spesso supera la capacità dell’uomo di assimilarla. Non è neppure soltanto bisogno di possedere le arti del ragionamento, anche se spesso lo sforzo per conquistarle esaurisce la sua limitata energia morale.
L’uomo ha bisogno, e sente di aver bisogno, di una qualità della mente che lo aiuti a servirsi dell’informazione e a sviluppare la ragione fino ad arrivare a una lucida sintesi di quel che accade e può accadere nel mondo e in lui. È appunto tale qualità che giornalisti e studiosi, artisti e uomini pubblici, scienziati ed editori finiranno col chiedere a quella che chiameremo l’«immaginazione sociologica». Ed è ciò che voglio dimostrare.
1.
L’immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell’esperienza quotidiana, gli individui si formino un’idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici.
Il primo frutto di questa facoltà, la prima lezione della scienza sociale che l’incarna, consistono nell’idea che l’individuo può comprendere la propria esperienza e valutare il proprio destino soltanto collocandosi dentro la propria epoca; che può conoscere le proprie probabilità soltanto rendendosi conto di quelle di tutti gli individui nelle sue stesse condizioni. È, sotto molti aspetti, una lezione terribile, e sotto tanti altri una lezione splendida. Non sappiamo fino a quale punto l’uomo possa elevarsi in uno sforzo supremo o abbassarsi in un supremo abbandono; a quali livelli possano portarlo il piacere della brutalità o l’estasi della ragione; ma oggi siamo giunti perlomeno a sapere che i margini della «natura umana» sono spaventosamente vasti. Siamo giunti a sapere che ogni individuo vive, da una generazione all’altra, in una determinata società, che costruisce una biografia e che la costruisce nell’ambito di una particolare sequenza storica. Con il fatto stesso di vivere l’uomo concorre, non importa se in minimissima parte, a formare questa società e ad alimentare questa storia, anche se è la società che lo forma, la storia che lo spinge.
L’immaginazione sociologica ci permette di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società. Questa è, allo stesso tempo, la sua funzione e la sua promessa. Chi ammette questa funzione e crede in questa promessa si qualifica come sociologo classico. Essa caratterizza Herbert Spencer, turgido, polisillabico, vasto, e E.A. Ross, aggraziato, indecente, schietto, e Auguste Comte, e Émile Durkheim, e Karl Mannheim complicato e sottile. Sta alla base di tutto ciò che in Karl Marx è intellettualmente eccellente, è la chiave della visione brillante e ironica di Thorstein Veblen, della polimorfa realtà di Joseph Schumpeter, spiega l’empito psicologico di W.E.H. Lecky e la limpida profondità di Max Weber. È il marchio di garanzia di quanto v’è di meglio nello studio contemporaneo dell’uomo e della società. Uno studio sociologico che non sia risalito ai problemi della biografia e della storia e dei loro mutui rapporti nell’ambito di una data società non avrà completato il suo ciclo intellettuale. Qualunque sia il problema specifico che il sociologo affronta, qualunque sia l’ampiezza della realtà sociale che egli esamina, se riesce a rendersi conto concretamente della portata del suo lavoro si pone tre ordini di problemi:
1) Qual è la struttura di quella particolare società nel suo complesso? Quali ne sono i componenti, e in quali rapporti reciproci si trovano? Come differisce da altri tipi di ordine sociale? E qual è, nel suo interno, l’importanza di ogni singolo componente ai fini della sua conservazione o del suo mutamento?
2) Qual è il posto di questa società nel quadro della storia umana? Qual è la meccanica del suo mutamento? A quale punto dello sviluppo generale dell’umanità si trova essa e che importanza ha sotto questo profilo? Come incide sul periodo storico in cui si muove il particolare componente in esame e come ne è influenzato a sua volta? E quali sono le caratteristiche essenziali di questo periodo storico? In che senso differisce da altri periodi? In quale peculiare modo partecipa alla costruzione della storia?
3) Quali tipi di uomini e di donne prevalgono in questa società e in questo periodo? Quali tipi prevarranno? Per quali vie si selezionano e si formano, sono liberati o repressi, sensibilizzati o resi insensibili? Quale tipo di «natura umana» si rivela nel costume di questa società in questo periodo? E che cosa significa per la «natura umana» ogni singolo aspetto della società che stiamo esaminando?
Su che cosa si concentra l’interesse? Su un grande potere statale, su una tendenza letteraria particolare, una famiglia, una prigione, una fede? Ecco le questioni poste dai migliori sociologi. Sono i cardini intellettuali classici dello studio dell’uomo nella società, e sono le questioni che chiunque possegga immaginazione sociologica solleva. Questa facoltà consiste nel saper passare da una prospettiva a un’altra: da una prospettiva politica a una prospettiva psicologica, dall’esame di una singola famiglia a uno studio comparativo dei vari bilanci nazionali del mondo, dalla scuola di teologia alle istituzioni militari, dall’analisi dei problemi di un’industria petrolifera alla critica della poesia contemporanea. È la facoltà di abbracciare con la mente le trasformazioni più impersonali e remote e le reazioni più intime della persona umana e di fissarne il rapporto reciproco. E a muoverla è sempre il bisogno di conoscere il senso sociale e storico dell’individuo nella società e nel periodo in cui ha vita e valore.
Ecco, in breve, perché gli uomini sperano oggi di afferrare, mediante l’immaginazione sociologica, ciò che avviene nel mondo e di comprendere ciò che si svolge in loro stessi in quanto punti di intersezione della biografia e della storia nella società. La consapevolezza che l’uomo contemporaneo ha di se stesso come elemento esterno, se non addirittura estraneo, si fonda in gran parte sull’assorbimento del concetto della relatività sociale e del potere di trasformazione della storia. L’immaginazione sociologica è la forma più feconda di tale consapevolezza. Servendosene, uomini la cui mente si era mossa soltanto in un sistema di orbite ristrette, si sentono spesso improvvisamente illuminati, come se finalmente aprissero gli occhi in una casa che credevano di conoscere. A torto o a ragione, ritengono di essere soltanto ora in grado di giungere a determinate conclusioni, di avere delle idee coerenti, degli orientamenti abbastanza ampi e comprensivi. Decisioni che erano sembrate sagge appaiono ora come il prodotto di una mente inesplicabilmente opaca. Rivive la loro capacità di stupirsi. Acquistano un nuovo modo di pensare, sperimentano una trasposizione di valori: insomma, con la riflessione e la sensibilità afferrano il significato culturale delle scienze sociali.
2.
La più feconda, forse, delle distinzioni sulle quali lavora l’immaginazione sociologica è quella che contrappone le «difficoltà personali d’ambiente» e i «problemi pubblici di struttura sociale». Questa distinzione è uno strumento essenziale dell’immaginazione sociologica e un elemento caratteristico di ogni opera classica di scienza sociale.
Le «difficoltà» (troubles) si verificano nell’ambito del carattere dell’individuo e dei suoi rapporti immediati con il prossimo; sono connesse con il suo io e con quelle zone circoscritte di vita sociale delle quali è direttamente e personalmente conscio. La definizione e la risoluzione delle difficoltà appartengono all’individuo come entità biologica e al suo ambiente immediato, cioè al quadro sociale che si apre direttamente alla sua esperienza personale e, entro certi limiti, alla sua attività volontaria. Le difficoltà sono questioni personali, consistono nella sensazione dell’individuo che i suoi valori prediletti sono minacciati.
I «problemi» (issues) si riferiscono invece a questioni che trascendono l’ambiente particolare dell’individuo e i confini della sua vita interiore. Si riferiscono all’organizzazione di molti ambienti individuali nelle istituzioni di una società storica come complesso, nella quale questi ambienti individuali diversi si sovrappongono e si compenetrano, formando la più vasta struttura della vita sociale e storica. Un problema è questione pubblica, un gruppo di individui sente che uno dei suoi valori prediletti è minacciato. Spesso si discute su ciò che questo valore è realmente, su ciò che realmente lo minaccia. E spesso la discussione non ha punto focale, poiché, a differenza della «difficoltà» anche diffusa, il problema non può, per sua natura, essere ben definito in termini di ambiente immediato consueto dell’uomo ordinario. Un problema implica spesso una crisi di istituzioni; implica spesso anche ciò che i marxisti chiamano «contraddizioni» o «antagonismi».
Si consideri sotto questi due diversi angoli visuali la questione della disoccupazione. Quando in una città di 100 000 abitanti v’è un solo disoccupato, si tratta di una difficoltà personale, e per superarla si prendono in esame il carattere dell’uomo, le sue capacità, le possibilità immediate. Quando invece, in una nazione di 50 milioni di cittadini, vi sono 15 milioni di disoccupati, allora si tratta di un problema e non si può sperare di trovarne la soluzione nell’ambito delle possibilità che si offrono ai singoli individui. In questo caso è il castello delle possibilità che è crollato. Tanto la definizione corretta del problema quanto il complesso delle soluzioni possibili ci obbligano a considerare le istituzioni economiche e politiche della società, e non più soltanto la situazione personale e il carattere di un determinato numero di individui presi singolarmente.
Si consideri un’altra questione, la guerra. La difficoltà personale che la guerra, quando si verifica, crea, consiste nel come sopravvivere a essa o morirvi con onore, come ricavarne denaro, come portarsi nella zona di sicurezza degli alti gradi, o invece come contribuire a farla cessare. In sostanza, nel formarsi un ambiente secondo i propri ideali e in esso sopravvivere alla guerra, o nel dare un significato al morirvi. Invece il problema strutturale della guerra riguarda le sue cause, il tipo d’uomini che essa porta alle responsabilità del comando, i suoi effetti sulle istituzioni economiche e politiche, familiari e religiose, la disorganizzazione irresponsabile di un mondo di stati-nazione.
Si consideri il matrimonio. Un uomo e una donna possono sperimentare delle difficoltà personali nel matrimonio; ma quando la percentuale dei divorzi nei primi quattro anni di matrimonio è di 25 su 100, allora significa che esiste un problema strutturale, che tocca le istituzioni del matrimonio e della famiglia e le altre istituzioni connesse.
Si consideri il fenomeno metropoli, il fenomeno orribile e splendido dell’estendersi di una grande città. Per molti individui delle classi superiori la soluzione personale alla «difficoltà della metropoli» consiste nel procacciarsi un appartamento con garage al centro e una bella villa con parco a una sessantina di chilometri dalla città. Con la creazione di questi due ambienti privati, ciascuno completo del proprio personale e collegati fra loro mediante elicottero, quasi tutti gli individui in questione possono risolvere le difficoltà personali prodotte dal fenomeno metropoli. Bellissima soluzione, che però non risponde ai problemi strutturali che il fenomeno solleva. Che cosa fare di questo monstrum, di questa meravigliosa mostruosità? Spezzarla in tante unità distinte, ciascuna delle quali combini residenza e lavoro? Ripulirla lasciandola com’è? O sgomberarla e farla saltare in aria e costruire una nuova città in una località nuova e secondo un nuovo progetto? Ma quale progetto? Chi deciderà e chi, una volta deciso, eseguirà? Questi sono problemi strutturali; l’affrontarli e il risolverli ci impone di considerare aspetti politici ed economici che toccano innumerevoli ambienti.
Finché un’economia è organizzata in modo tale da presentare delle depressioni, il problema della disoccupazione sfugge a qualsiasi soluzione personale. Finché la guerra è inerente al sistema degli stati-nazione e ai dislivelli di industrializzazione del mondo, l’individuo ordinario sarà incapace di risolvere all’interno della propria orbita ristretta, con o senza aiuto psicologico, le difficoltà che il sistema o la mancanza di sistema gli crea. Finché l’istituto della famiglia sarà tale da fare della donna l’adorabile schiava dell’uomo, e dell’uomo il dispensatore di alimenti che non sa vivere senza la donna, il problema del matrimonio continuerà a non poter essere risolto sul piano personale. Finché l’elefantiasi della megalopoli e l’inflazione dell’automobile continueranno a essere fenomeni connaturati all’ipertrofia della società, non vi sarà genio individuale o ricchezza privata capace di risolvere i problemi della vita urbana.
Ho già osservato che ciò che noi sperimentiamo in vari ambienti specifici è spesso determinato da mutamenti strutturali. Per comprendere quindi i mutamenti ch...