Antropologia strutturale due
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Antropologia strutturale due

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Secondo gli indiani Tsimshian, l'eroe Asdiwal fu condotto in cielo da un'orsa bianca – la Stella della Sera – ma volle tornare indietro e dovette affrontare numerose prove, tra cognati invidiosi, orche di legno animate per annientare i nemici e il re dei trichechi che gli offrì il suo stomaco a mo' di scialuppa. Come quello di Odisseo, questo è un mito di nostalgia per la propria terra: la grande montagna del lago di Ginadâos, dove il profilo di Asdiwal è ancora oggi visibile, pietrificato nella roccia insieme al suo cane e ai suoi strumenti magici.Come Asdiwal, in quest'opera Claude Lévi-Strauss torna alla propria terra. Se con Antropologia strutturale definiva i fondamenti della disciplina, una quindicina d'anni dopo con Antropologia strutturale due omaggia i capisaldi – fra gli altri, Rousseau, Durkheim, Mauss e Frazer – attorno ai quali questa scienza si è sostanziata e fa il punto sullo stato degli studi: delinea cambiamenti di rotta e snodi metodologici e denuncia la corsa contro il tempo per indagare le tribù indigene minacciate o già estinte a causa dell'industrializzazione frenetica. Al di là delle trasformazioni che il corso della storia le impone, l'antropologia è e resta la «conversazione dell'uomo con l'uomo»: l'analisi di miti, segni e significati mette in rapporto le culture e i popoli, allargando i nostri orizzonti ristretti e consentendoci di includervi tutte le forme di espressione che appartengono o sono appartenute alla natura umana. Ma c'è una nota amara: l'antropologia è figlia di un'era di violenza; se è riuscita a guardare i fenomeni umani in una prospettiva più scientifica è perché una parte dell'umanità si è arrogata il diritto di trattare l'altra come un oggetto.Con Antropologia strutturale due il Saggiatore rende nuovamente disponibile un testo imprescindibile e straordinariamente attuale, spietatamente lucido nel cogliere «le tare di un umanismo incapace di fondare l'esercizio della virtù» e nel contempo determinato a rilanciare la pietà come accordo tra le tante forme – tutte meritevoli di rispetto – in cui l'umanità si è manifestata. Lévi-Strauss, raccogliendo simboli e riti trova le radici dell'uomo: il suo nucleo originario, la sua possibilità di riscatto.

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Informazioni

Anno
2018
eBook ISBN
9788865766767

Mitologia e rituale

8. La struttura e la forma
Riflessioni su un’opera di Vladimir Ja. Propp1
I sostenitori dell’analisi strutturale in linguistica e in antropologia sono spesso accusati di formalismo. Ciò significa dimenticare che il formalismo esiste come dottrina indipendente dalla quale, senza rinnegare quanto le deve, lo strutturalismo si distacca a motivo dell’atteggiamento assai diverso adottato dalle due scuole verso il concreto. Al contrario del formalismo, lo strutturalismo rifiuta di opporre il concreto all’astratto e di accordare a quest’ultimo una posizione di privilegio. La forma si definisce per opposizione a una materia che le è estranea; ma la struttura non ha contenuto distinto: essa è il contenuto stesso colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale.
La differenza merita d’essere approfondita mediante un esempio. Ce ne offre oggi l’opportunità la pubblicazione in traduzione inglese d’una opera non più recente di Vladimir Propp il cui pensiero è rimasto assai vicino a quello della scuola formalista russa durante il suo breve periodo di fioritura, che va a un dipresso dal 1915 al 1930.1
L’autrice dell’introduzione, Svatava Pirkova-Jakobson, il traduttore, Laurence Scott, e il Research Center dell’Università dell’Indiana hanno reso un notevolissimo servigio alle scienze umane pubblicando in una lingua accessibile a nuovi lettori quest’opera troppo trascurata. Infatti l’anno 1928, data dell’edizione russa, trova la scuola formalista in piena crisi, condannata ufficialmente in patria e senza comunicazioni con l’esterno. Nelle sue pubblicazioni successive anche Propp doveva abbandonare il formalismo e l’analisi morfologica per dedicarsi a ricerche storiche e comparate sui rapporti della letteratura orale coi miti, i riti e le istituzioni.
Tuttavia il messaggio della scuola formalista russa non doveva andare perduto. Sempre in Europa l’ha dapprima raccolto e diffuso il Circolo linguistico di Praga; a cominciare dagli anni intorno al 1940 l’influenza personale e l’insegnamento di Roman Jakobson l’hanno portato negli Stati Uniti. Non intendo insinuare che la linguistica strutturale e lo strutturalismo moderno, nell’ambito della linguistica e al di fuori di essa siano semplicemente un prolungamento del formalismo russo. Come ho già detto essi se ne distinguono per la convinzione che, se un po’ di strutturalismo allontana dal concreto, molto riconduce ad esso. Tuttavia – e benché la sua dottrina non possa in alcun modo essere chiamata «formalista» – Roman Jakobson non ha perso di vista la funzione storica della scuola russa né la sua importanza intrinseca, e nell’esporre gli antecedenti dello strutturalismo le ha sempre riservato un posto d’onore. Quanti l’hanno ascoltato dopo il 1940 hanno subito indirettamente questa influenza lontana. Se è vero che, come scrive la Pirkova-Jakobson, l’autore di queste righe pare aver «applicato e sviluppato il metodo di Propp» (p. vii), non può trattarsi di un fatto cosciente poiché il libro di Propp gli è rimasto inaccessibile fino alla pubblicazione di questa traduzione. Ma, tramite l’insegnamento di Roman Jakobson, era giunto fino a lui qualcosa della sua sostanza e della sua ispirazione.
C’è pericolo che anche oggi la forma in cui è apparsa la traduzione inglese non faciliti la diffusione delle idee di Propp. Aggiungerò che ne è resa difficile la lettura da errori di stampa e da oscurità che esistono forse nell’originale ma che sembrano piuttosto dovute alla difficoltà incontrata dal traduttore nel rendere la terminologia dell’autore. Non appare dunque inutile seguire l’opera da vicino tentando di condensarne le tesi e le conclusioni.
Propp inizia con un sommario storico del problema. I lavori dedicati alle favole popolari consistono soprattutto in raccolte di testi, mentre gli studi sistematici rimangono rari e rudimentali. Per giustificare questa situazione alcuni si appellano alla insufficienza di documenti; l’autore rifiuta questa spiegazione poiché in tutti gli altri campi della conoscenza i problemi di descrizione e di classificazione sono stati posti assai presto. Inoltre nessuno si fa scrupolo di discutere l’origine delle favole popolari; tuttavia «on ne peut parler de l’origine d’un phénoméne quelconque que quand il a été décrit» (p. 4) [p. 9].
Le classificazioni correnti (Miller, Wundt, Aarne, Veselovskij) sono d’utilità pratica ma si prestano tutte alla stessa obiezione, che è sempre possibile trovare favole attribuibili a più categorie. Ciò vale sia per le classificazioni che si fondano sui tipi di favole sia per quelle rifacentisi ai temi [intrecci] che esse svolgono. Infatti la determinazione dei temi è arbitraria e non si ispira ad una analisi reale ma alle intuizioni o alle posizioni teoriche di ogni autore (le prime, in generale, più fondate delle seconde, nota Propp, pp. 5-6, 10 [pp. 10-11, 18]). La classificazione di Aarne fornisce un inventario di temi che è di grande utilità ai ricercatori, ma la determinazione è puramente empirica cosicché l’ascrizione di una favola ad una rubrica rimane sempre approssimativa.
Di particolare interesse è la discussione delle idee di Veselovskij. Secondo questo autore il tema è scomponibile in motivi ai quali esso aggiunge solo un’opera unificatrice, creatrice, per integrare quegli elementi irriducibili che sono i motivi. Ma in tal caso, osserva Propp, ogni frase costituisce un motivo e l’analisi delle favole deve essere spinta ad un livello che oggi chiameremmo «molecolare». Tuttavia nessun motivo può essere considerato indecomponibile, poiché anche un esempio semplice come «un drago rapisce la figlia del re» comprende almeno quattro elementi ciascuno dei quali è sostituibile con altri («drago» con «stregone», «turbine», «diavolo», «aquila» ecc.; «ratto» con «vampirismo» o «le diverse azioni che nella favola provocano la scomparsa» ecc.; «figlia» con «sorella», «fidanzata», «madre» ecc.; infine «re» con «figlio del re», «contadino», «pope» ecc.). Otteniamo così delle unità minori dei motivi e prive, secondo Propp, di esistenza logica indipendente. Se ci siamo arrestati su questa discussione è perché in questa affermazione di Propp, vera solo a metà, sta una delle principali differenze tra formalismo e strutturalismo. Su di essa torneremo più avanti.
A Joseph Bédier Propp riconosce il merito di aver distinto nelle fiabe popolari fattori variabili e fattori costanti. Gli invarianti rappresenterebbero le unità elementari. Tuttavia Bédier non ha saputo definire in che cosa consistano questi elementi.
Lo studio morfologico delle favole è rimasto ai primi passi poiché è stato trascurato a favore delle ricerche genetiche. Troppo spesso i pretesi studi morfologici si riducono a delle tautologie. Il più recente (all’epoca in cui scriveva Propp), quello del russo R.M. Volkov (1924), dimostrerebbe unicamente «que des contes semblables se ressemblent» (p. 13) [p. 22]. Ora un fondato studio morfologico è la base di ogni investigazione scientifica. Inoltre «tant qu’il n’existe pas d’étude morphologique correcte, il ne peut pas y avoir de recherche historique» (p. 14) [p. 23].
Come Propp fa presente all’inizio del secondo capitolo, tutta la sua indagine si basa su un’ipotesi di lavoro che è l’esistenza delle «favole di magia» come categoria particolare fra le fiabe popolari. All’inizio della ricerca le «favole di magia» sono definite empiricamente come quelle raccolte sotto i numeri da 300 a 749 della classificazione di Aarne. Il metodo è definito nel modo seguente:
Siano gli enunciati:
1. Il re dà ad un suo prode un’aquila. L’aquila lo porta in un altro regno.
2. Il nonno dà a Sučenko un cavallo. Il cavallo lo porta in un altro regno.
3. Lo stregone dà ad Ivan una barchetta. La barchetta lo porta in un altro regno.
4. La principessa dà ad Ivan un anello. I giovani evocati dall’anello lo portano in un altro regno.
Questi enunciati contengono delle variabili e delle costanti. I personaggi e i loro attributi cambiano, non così le azioni e le funzioni. Le favole popolari hanno la proprietà di attribuire azioni identiche a personaggi diversi e sono esse gli elementi costanti su cui ci si può fondare purché si possa dimostrare che sono in numero finito. Ma poiché risulta che si ripetono assai spesso possiamo affermare «que le nombre des fonctions est étonnamment petit, comparé au nombre très élevé des personnages; ce qui explique la dualité d’aspects des contes populaires: extraordinairement multiformes, pittoresques, colorés; et cependant, remarquablement uniformes et récurrents» (p. 19) [pp. 26-27].
Per definire le funzioni, considerate come le unità costitutive della favola, bisognerà innanzi tutto eliminare i personaggi, che servono soltanto a «sostenere» le funzioni. La funzione sarà indicata semplicemente da un nome di azione: «divieto», «fuga» ecc. In secondo luogo, la funzione deve essere definita tenendo conto della sua collocazione nella narrazione: un matrimonio, ad esempio, può avere funzioni differenti secondo la sua posizione. Ad atti identici si possono attribuire significati diversi e viceversa; possiamo venirne a capo solo ricollocando l’avvenimento tra gli altri, cioè ponendolo in rapporto coi suoi antecedenti e conseguenti, il che implica che l’ordine di successione delle funzioni sia costante (p. 20) [p. 28], pur rimanendo, come vedremo in seguito, la possibilità di alcuni spostamenti, che rappresentano però fenomeni secondari, eccezioni ad una norma che deve sempre poter essere ristabilita (pp. 97-98) [pp. 114-115]. Si ammette anche che in ogni favola appresa singolarmente non compare mai la totalità delle funzioni enumerate, ma solo alcune di esse, senza che venga modificato l’ordine di successione. Il sistema totale delle funzioni, di cui è possibile che non esista la realizzazione empirica, pare dunque avere nel pensiero di Propp il carattere di quella che chiameremmo oggi una «metastruttura».
Dalle ipotesi riportate deriva un’ultima conseguenza, che sarà verificata in seguito, benché Propp riconosca che a prima vista essa appare «paradossale e persino assurda»: considerate dal punto di vista della struttura tutte le favole di magia vanno ricondotte a un tipo solo (p. 21) [p. 29]. Concludendo l’esame delle questioni di metodo, Propp si domanda se l’inchiesta destinata a verificare o ad infirmare la sua teoria debba esaurire tutto il materiale. In caso affermativo sarebbe praticamente impossibile condurla a termine, ma se si tien conto che sono le funzioni l’oggetto della ricerca, questa potrà considerarsi compiuta nel momento in cui si possa constatare che la sua continuazione non porta alla scoperta di nuove funzioni; a condizione naturalmente che il campione utilizzato sia aleatorio, dettato da un «criterio esterno» (p. 22) [p. 30]. Accostandosi a Durkheim – senza dubbio involontariamente – Propp sottolinea: «ce n’est pas la quantité de documents, mais la qualité de l’analyse, qui importe» (ibid.) [ibid.]. L’esperienza dimostra che un centinaio di favole rappresenta un materiale più che sufficiente, di conseguenza sarà sottoposto ad analisi un campione comprendente le favole dal n. 50 al n. 151 della raccolta di Afanas’ev.
Considereremo più brevemente l’inventario delle funzioni – impossibile a descriversi nei particolari – che è l’oggetto del capitolo iii. Ogni funzione è definita concisamente, condensata poi in un solo termine («allontanamento», «divieto», «infrazione» ecc.), dotata infine d’un segno di codice, lettera o simbolo. Per ogni funzione Propp distingue inoltre «specie» e «generi», le prime talvolta suddivise in «varietà». Otteniamo così il seguente schema generale delle favole di magia.
Dopo la descrizione della «situazione iniziale», un personaggio si allontana e questo allontanamento dà origine a una sciagura, sia direttamente, sia indirettamente (in seguito all’infrazione di un divieto o all’obbedienza a un ordine). Compare un antagonista che s’informa intorno alla vittima, l’inganna, col proposito di nuocerle.
Propp scompone questa sequenza in sette funzioni, indicate con le prime lettere dell’alfabeto greco, per distinguerle dalle altre, per le quali sono impiegate lettere maiuscole e simboli diversi. Queste sette funzioni sono infatti preparatorie, in un duplice senso: esse danno l’avvio all’azione e non sono presenti in tutti i casi, poiché vi sono favole che iniziano direttamente con la prima delle funzioni fondamentali, rappresentata dall’azione stessa dell’antagonista: rapimento di una persona, furto di un oggetto magico, ferimento, fattura, sostituzione, assassinio, ecc. (pp. 29-32) [pp. 37-41]. Da questo «danneggiamento» prende origine una «mancanza», a meno che la situazione iniziale non sia direttamente collegata ad uno stato di privazione; questa mancanza è avvertita, un eroe è sollecitato a porvi rimedio.
A questo punto sono possibili due svolgimenti: la vittima può diventare l’eroe del racconto oppure l’eroe può essere distinto dalla vittima e portare ad essa soccorso. Ciò non infirma l’ipotesi dell’unicità della favola, poiché nessuna di esse segue i due personaggi contemporaneamente. Dunque abbiamo sempre una sola «funzione-eroe», che l’uno o l’altro tipo di personaggio può «sostenere» indifferentemente. Si offre tuttavia un’alternativa tra due sequenze: 1) appello all’eroe cercatore, sua partenza e ricerche; 2) cacciata dell’eroe vittima e pericoli ai quali è esposto.
L’eroe (vittima o cercatore) incontra un «donatore», volontario o involontario, ben disposto o reticente, subito pronto all’aiuto o dapprima ostile. Questi lo mette alla prova (in forme assai diverse che possono giungere fino al duello). L’eroe reagisce negativamente o positivamente, coi propri mezzi o grazie ad un intervento soprannaturale (numerose forme intermedie). Il conseguimento d’un aiuto soprannaturale (oggetto, animale, persona) è caratteristica essenziale della funzione di questo personaggio (p. 46) [p. 55].
Trasportato sul teatro dell’azione l’eroe inizia la lotta (combattimento, competizione, gioco) con l’antagonista, riceve un marchio di identificazione (corporale o d’altro tipo), batte l’avversario ed elimina lo stato di mancanza. Prende poi la via del ritorno, ma è inseguito da un nemico, al quale riesce a sfuggire grazie ad un soccorso esterno o con uno stratagemma. Alcune favole terminano con il ritorno dell’eroe e il suo successivo matrimonio.
In altre favole però ha inizio a questo punto l’«esecuzione» di quella che Propp chiama una seconda «partie» [movimento]: tutto comincia da capo, antagonista, eroe, donatore, prove, aiuto soprannaturale, dopo di che il racconto prende un’altra direzione. Bisogna perciò introdurre dapprima una serie di «funzioni bis» (pp. 53-54) [pp. 63-64], e continuare poi con funzioni ormai nuove: l’eroe ritorna travestito; gli è imposto un compito difficile che egli riesce ad eseguire. È allora riconosciuto, mentre viene smascherato il finto eroe (che ne aveva usurpato il posto). L’eroe riceve infine la ricompensa (la sposa, il regno, ecc.) e la fiaba ha termine.
Dall’inventario che abbiamo riassunto l’autore tr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prospettive
  4. Organizzazione sociale
  5. Mitologia e rituale
  6. Umanismo e umanità
  7. Note
  8. Bibliografia
  9. Indice degli schemi