1. L’invenzione della canzone italiana
Italianità musicale e pubblico nazionale
Canzoni e mandolini: l’origine popular dell’italianità musicale
Molte lingue posseggono termini equivalenti all’italiano «canzone», tutti a indicare più o meno la stessa cosa, ovvero, con Dante, un’«opera compiuta di chi compone con arte parole armonizzate per una modulazione»: abbiamo dunque chanson in francese, canción in castigliano, cançó in catalano, canção in portoghese, canso in lingua d’oc, song in inglese, Lied in tedesco. Alcune lingue romanze in particolare (l’italiano è fra queste) usano però «canzone» anche con valore collettivo: locuzioni come «la chanson française», «la cançó catalana», o «il festival della canzone italiana» chiariscono come il termine possa essere impiegato come etichetta di genere, per definire cioè una serie di fatti musicali dotati di una loro coerenza, che supera quella puramente formale.
In questi casi in cui l’aggettivazione nazionale completa il significato di «canzone», il termine finisce sovente con l’indicare per antonomasia la tradizione di quel paese, con varianti da cultura a cultura. «Chanson» – magari maiuscolo – è usato in francese per indicare una tradizione che comprende soprattutto gli auteurs-compositeurs-interprètes (dunque, colta e letteraria) e che si oppone alle musiques de variétes (quello che in italiano chiameremmo «musica leggera»). In Italia, al contrario, nel corso del Novecento «la canzone» si è quasi sempre identificata con il repertorio più disimpegnato. Se si cercano le peculiarità nazionali della canzone del nostro paese, e le ragioni dello stigma di leggerezza che sembra portarsi dietro ancora oggi, lo scarto semantico fra italiano e francese sembra offrire un buon punto di partenza.
In effetti, il corollario (e la ricaduta pratica) di questa ideologia della canzone italiana è che esistono canzoni «più italiane» di altre. Spesso sono dette, con una definizione che suggerisce una forte connotazione formale e stilistica, canzoni all’italiana. Per buona parte degli appassionati di musica è una indubitabile evidenza che «Felicità» di Al Bano e Romina sia «più italiana» di, ad esempio, «Diavolo rosso» di Paolo Conte, entrambe del 1982. Raramente sembra utile spiegare le evidenze: chi ci si cimentasse, probabilmente tirerebbe in ballo un’idea di «melodia italiana» centrale nella musica di Al Bano e Romina e meno in quella di Conte; o la qualità vocale tipica del «cantare all’italiana» tenorile di Al Bano, e al contrario la presenza di influenze straniere (swing, country & western) nella canzone di Conte, o nel suo modo di cantare. O ancora, il contesto di una performance dal vivo tipica, e il pubblico modello delle due canzoni: Sanremo e un vasto pubblico popolare nel primo caso, un teatro e – ragionevolmente – un pubblico più raffinato nel secondo. Anche per questa connotazione di classe (una «distinzione») che fa sì che Al Bano e Romina siano meno esteticamente validabili di Paolo Conte, la canzone all’italiana porta con sé il marchio di una popolarità deteriore. Ma quando questi significati – che non sono «naturali» – si sono istituiti? Quando nasce la «canzone (all’)italiana» così come la conosciamo?
Naturalmente, si canta in italiano ed esistono canzoni italiane almeno da quando esiste la lingua italiana. L’ovvietà è però solo apparente, e non risolve il problema di stabilire un termine post quem, di decidere cioè un momento a partire dal quale sia possibile riconoscere una «canzone italiana» le cui convenzioni siano condivise a livello nazionale. Del resto, non è neanche semplice decidere da quando si possa parlare di una comunità nazionale che si autopercepisce come tale, vista la complessità dell’identità italiana, il ritardo nella diffusione di una lingua comune e la peculiare storia politica della penisola. Tuttavia nel periodo in cui Metternich la definiva «un’espressione geografica» – riassumendo efficacemente la complessa formazione dell’identità di una nazione divisa politicamente e linguisticamente – l’Italia era già «un’espressione musicale». Esisteva già, cioè, una «musica italiana», sia in Italia sia all’estero.
Già molto prima dell’Unità d’Italia, i copisti e il mercato della musica a stampa garantivano la distribuzione nel mondo di canzoni in italiano e in dialetto. Venivano diffuse in forma di raccolte, o di fogli volanti o «mandolini» (detti «copielle» a Napoli), spartiti economici a uso domestico o di formazioni professionali e amatoriali, anche pensati come souvenir per i viaggiatori del Grand Tour. Se a questi repertori veniva attribuita una comune identità italiana, è probabile che ciò sia avvenuto dapprima al di fuori dei confini nazionali, nella prospettiva centripeta dei non italiani e delle moltissime comunità di emigranti, soprattutto nel continente americano. Che cosa circolava, in questo circuito globale delle musiche di intrattenimento, come «musica italiana»? La canzone napoletana; in misura minore, altre tradizioni regionali (la canzone fiorentina, ad esempio, o le «canzoni da battello» veneziane); la romanza da salotto; e, naturalmente, il repertorio operistico.
Il successo globale della canzone napoletana è riconoscibile molto prima dell’Ottocento, anche grazie alle innovazioni liuteristiche apportate al mandolino, che garantiscono allo strumento una incredibile diffusione. La canzone napoletana arriva a toccare vette di popolarità inconcepibili oggi, con praticanti attivi in tutto il mondo e compagnie di musicisti (non solo napoletani, non solo italiani) impegnati a diffonderla ovunque. Il corredo ideologico, musicale e iconografico (ad esempio, nelle cartoline o nei frontespizi degli spartiti) che ne supporta il successo insiste sovente su immagini di una napoletanità convenzionale, che spesso si sovrappone e si identifica con l’italianità: il mandolino, il mare, il golfo di Napoli, immagini bucoliche di pastori musicisti, il vino, il cibo… Si tratta di associazioni semantiche che cominciano a riguardare l’identità italiana tutta e non solo una sua componente regionale. Già alla fine dell’Ottocento il napoletano Pasquale Turiello avanzava, con rammarico, l’idea che Napoli e il meridione fossero divenuti «espressione metonimica di italianità», e soprattutto «dei suoi difetti».
Un discorso simile riguarda la diffusione del repertorio operistico. Se l’interpretazione dell’italiano come lingua del canto par excellence risale almeno a Rousseau e agli enciclopedisti, è nella seconda metà dell’Ottocento che l’Italia raggiunge il picco nella propria autorappresentazione come «paese della melodia». Questo processo è stato messo in rapporto soprattutto con il successo internazionale dell’opera italiana, ma non è certo azzardato spiegarlo nel contesto storico, economico e sociale che è alla base della «popular music revolution» descritta da Derek Scott, in cui l’«incorporazione della musica in un sistema di impresa capitalista» porta alla codificazione tanto di una musica d’intrattenimento quando di una sua controparte artistica (quella che sarà poi la «musica classica»). La storia dell’opera italiana potrebbe in effetti essere anche riletta, senza grandi forzature, come la storia di un repertorio popular diffuso e recepito in ambiente urbano, il più delle volte in forma di canzoni più che di teatro musicale. È il successo di pubblico (compreso il pubblico popolare) che questi repertori hanno anche fuori dall’Italia a renderli uno dei simboli dell’identità culturale nazionale. Un fatto che contribuisce a spiegare perché la riscoperta dei materiali folklorici che caratterizza le cosiddette scuole nazionali europee non riguardi il nostro paese, dove la tradizione popolare-contadina rimane quasi del tutto ignorata dai compositori di formazione accademica, e dove – almeno fino all’epoca di Bellini e Donizetti, prima del successo di Puccini – i concetti di «canto popolare» e «melodia operistica d’autore» sono sovente assimilati «in un unico “carattere” italiano».
Dunque, caratteri musicali e paramusicali «italiani» vengono meglio definiti a livello globale nel medesimo contesto socioculturale, e negli stessi anni, in cui si costituisce uno «stile popular». D’altra parte, la circolazione internazionale di arie d’opera in forma di riduzioni e di canzoni napoletane è un aspetto decisivo nella costruzione di un repertorio di musiche d’intrattenimento condiviso a livello mondiale. Romanze e arie sono al centro del songbook del «father of American music» Stephen Foster, a fianco di coon songs e parlor ballads di nuova composizione. Nei primi anni del Novecento, «Vesti la giubba», nell’incisione di Caruso, è il primo «million-seller» della storia della discografia: per la loro fonogenicità (il fonografo rende al meglio nella riproduzione delle frequenze della voce umana), la loro durata ridotta, il loro appeal internazionale e – non da ultimo – il prestigio culturale che garantiscono al nuovo medium, le arie d’opera sono le protagoniste assolute del primo repertorio fonografico. Se nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento è difficile riconoscere una «canzone italiana» così come la intendiamo oggi, il legame fra l’italianità e l’idea di una musica «leggera» è però già saldamente istituito. La stessa espressione «musica leggera» si afferma nell’uso linguistico a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in corrispondenza con quella diffusione globale di repertori di intrattenimento di cui l’Italia è protagonista da subito. La canzone che proviene dall’Italia è cioè, in questi decenni, la canzone popular per eccellenza, soprattutto fuori dai confini nazionali.
Quando «nasce», invece, la «canzone italiana»? Per quanto le composizioni nei diversi dialetti regionali siano probabilmente maggioritarie, non è certo difficile riconoscere già nel corso dell’Ottocento, se non prima, un repertorio di canzoni condiviso a livello nazionale, almeno da certe comunità. È il caso, ad esempio, di alcuni canti risorgimentali, o dell’innodia anarchica. È però la diffusione di canzoni napoletane tradotte o scritte direttamente in italiano a essere decisiva nella costruzione di un genere nazionale di canzone. Si tratta di un fenomeno riconoscibile già nel diciassettesimo secolo, quando a Napoli a «canzoni e villanelle in dialetto si affiancavano nuovi canti in italiano, secondo una moda gradita dal formalismo spagnolo». Diviene però particolarmente rilevante a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e soprattutto nei primi decenni del Novecento. Negli anni della Seconda rivoluzione industriale, che segnano la definitiva affermazione globale della popular music prodotta a Napoli, la fisionomia della canzone partenopea muta e si rivolge verso un mercato borghese che sta ridefinendo in maniera profonda il proprio legame con il «popolo» e il «popolare» napoletano.
Gianni Borgna ha identificato nella celebre «Santa Lucia», scritta nel 1848 da Enrico C...