Un destino di felicità
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Un destino di felicità

  1. 128 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un destino di felicità

Informazioni su questo libro

"Prendo a caso ventisei parole più o menopresenti nella poesia di Rimbaud in modotale però che le loro iniziali corrispondanoalle ventisei lettere dell'alfabeto. Guardo lefrasi o i versi da cui vengono e che considerocome la loro chiosa. Ne faccio un testo incui le interpreto come se mi riguardassero.
Il miracolo è che l'oracolo dice il vero.La serie dei commenti viene a formare unaspecie di romanzo in cui ritrovo quello dellamia vita".
Sotto forma di abecedario, Philippe Forestscrive un saggio sulla poesia di Rimbaud cheè al tempo stesso riflessione sull'esistenza, lapropria e in generale. Autoritratto quindi, anche. Esempio tra i più eloquenti di unascrittura, alla cui messa a punto Forest sidedica da ormai una ventina d'anni, chevalica le frontiere tra i generi proponendo unanuova idea di romanzo: risposta all'appellodel reale anche quando quest'ultimo sipresenta come impossibile, tentativo di fedeltàal vero, testimonianza resa da qualcuno chelo attraversa e lo racconta poi sulla pagina, usando come prove i testi degli autoriche ha letto.

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Informazioni









O
mio Bene! O mio Bello! Fanfara atroce in cui io non inciampo! cavalletto fiabesco! Urrà per l’opera inaudita e per il corpo meraviglioso, per la prima volta! Cominciò tra le risate dei bambini, finirà con loro. Questo veleno ci resterà in ogni vena anche quando, avendo girato la fanfara, saremo restituiti all’antica disarmonia. O, adesso, noi così degni di queste torture! raduniamo fervidamente la sovrumana promessa fatta al nostro corpo e alla nostra anima creati: questa promessa, questa demenza! L’eleganza, la scienza, la violenza! Ci hanno promesso di seppellire nell’ombra l’albero del bene e del male, di deportare le onestà tiranniche, affinché portiamo il nostro purissimo amore. Cominciò con qualche nausea e finì, – non potendo impossessarci subito di quella eternità, – finì con un’ondata di profumi.
Riso dei bambini, discrezione degli schiavi, austerità delle vergini, orrore dei volti e degli oggetti di qui, siate santificati dal ricordo di questa veglia. Era cominciata molto rozzamente, ecco che finisce con angeli di fiamma e di ghiaccio.
Breve veglia d’ebbrezza, santa! quand’anche fosse solo per la maschera di cui ci hai gratificati. Noi ti affermiamo, metodo! Non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Noi sappiamo dare tutta la nostra vita ogni giorno.
Ecco il tempo degli Assassini.

Arthur Rimbaud, «Mattinata d’ebbrezza»

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Dirò un giorno le vostre nascite latenti


Un giorno, ho saputo leggere.
Senza aver mai imparato.
Per lo meno è quello che mi hanno detto.
E che raccontava la leggenda familiare.
Almeno fino a che è rimasto vivo qualcuno per tramandarla.
La maestra di prima elementare era venuta a trovare mia madre e le aveva chiesto se era stata lei a insegnare a leggere a suo figlio. Di sicuro con l’idea di dargli un po’ di vantaggio rispetto ai compagni della sua età. Oppure: perché non si fidava di come lo faceva la scuola e dei nuovi metodi che da qualche tempo erano stati adottati. Cosa che, ovviamente, rientrava nei suoi diritti. Ma contro cui si permetteva di mettere in guardia i genitori quando accadeva. Perché, in materia di educazione, il dilettantismo non perdonava. Se le basi non venivano acquisite in maniera corretta, gli effetti di un apprendimento troppo precoce avrebbero potuto rivelarsi molto dannosi. Sarebbe stato necessario imparare di nuovo tutto da capo, obbligare il bambino a disfarsi delle cattive abitudini che aveva preso e che avrebbero ostacolato la giusta progressione pensata da insigni pedagogisti. Quello tutto sommato era il mestiere loro, più che dei genitori.
Di modo che mia madre aveva sentito il bisogno di difendersi dicendo che né lei né nessun altro avevano insegnato la cosa al bambino, che lei neppure era al corrente che sapesse leggere, che non si spiegava come un simile prodigio fosse stato possibile. Pronta a credere – anche se era inverosimile ipotizzarlo – che suo figlio si fosse reinventato autonomamente tutto il sistema grazie al quale le lettere si uniscono nelle parole che formano le frasi. Un po’ come in certe storie i cui eroi sono dei piccoli selvaggi che, essendosi trovati per caso un libro tra le mani, penetrano da soli il mistero delle parole e il modo in cui la loro materia si forma. A meno che – e questo era più da lei – non avesse visto in quel fatto un miracolo avvenuto, come si dice, grazie all’intervento dello Spirito Santo: una piccola Pentecoste privata, la lingua di fuoco scesa sulla fronte di suo figlio per iniziarlo di colpo a tutto ciò che avrebbe dovuto ignorare, rendendolo dotto come Gesù Bambino che dialogava al tempio con i saggi dell’epoca.
Mentre la spiegazione era molto più semplice, più razionale – e certo più deludente rispetto alla favoletta che aveva immaginato la mamma. Il fatto è che, come accadeva spesso, nella scuola in cui era stato iscritto, il corso Valton dell’École Sainte-Geneviève in rue d’Assas a Parigi, l’ultimo anno di scuola materna e la prima preparatoria condividevano la stessa maestra. Per cui al bambino era bastato distrarsi dai giochi destinati ai più piccoli e prestare attenzione alle lezioni che, contemporaneamente, dall’altra parte dell’aula, venivano impartite ai più grandi. Era stato di sicuro così che aveva imparato da solo i rudimenti della lettura, istruendosi clandestinamente, e poi dando a vedere in tutta tranquillità, come se nulla fosse, che quello che veniva insegnato agli altri, lui già lo sapeva.
Così, mi hanno detto, ho saputo leggere. Senza aver veramente imparato. Né aver serbato nessun ricordo di com’e...

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