1. Il nome e il cognome dell’altro
Sassari, 1988
Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1988, a Sassari. Almeno per noi, ebbe inizio allora. Ci trovavamo da Benito, il forno della fainé (la farinata di ceci che è, di per sé, una traccia significativa delle nostre migrazioni interne) di via Sant’Apollinare, nel quartiere che porta lo stesso nome. Era il tardo pomeriggio e ci si era seduti da poco a un tavolino, quando un uomo, che aveva evidente familiarità con il locale e i suoi frequentatori, si rivolse al titolare. Il volume della voce era quello consueto delle ordinarie conversazioni familiari e, in generale, della quotidianità : era, cioè, elevatissimo. Quella voce domandò: «Hai visto Carboni?». La risposta: «Ancora no, ma verrà ». Non facemmo particolare caso a quel dialogo, e continuammo a mangiare le nostre fette di fainé. Dopo qualche decina di minuti, sentimmo lo stesso Benito rivolgersi a qualcuno: «Buonasera Carboni». Ci voltammo senza particolare curiosità , ma non potemmo non sorprenderci nel realizzare che «Carboni» era un africano di altissima statura che, sorridente, rispondeva al saluto. La mano destra stringeva un enorme borsone celeste di tela plastificata (polipropilene?). La sua presenza e la sua attività non costituivano, nemmeno allora, un evento così raro: già al tempo in Italia, e anche nell’isola, i venditori ambulanti erano numerosi, e molti di essi erano senegalesi.
Palesemente Carboni era uno di loro, e quel borsone non nascondeva alcun mistero.
Rivolgendosi al nuovo arrivato, Benito gli disse che qualcuno lo aveva cercato. E così Carboni si sedette su una panca, chiese una Ichnusa (birra sarda considerata di notevole pregio) e si mise in attesa. A questo punto, incuriositi, notammo che Benito segnava su un suo quadernetto il costo della consumazione (si trattava dunque di un cliente abituale) e seguimmo la scena successiva, quando Carboni venne raggiunto dalla persona che prima lo aveva cercato. Poche parole e, in cambio di non sappiamo quale cifra, ci fu un passaggio di bombolette di butano per accendino. Poi, a breve distanza l’uno dall’altro, i due si allontanarono. Quando ci recammo alla cassa, chi tra noi aveva più confidenza con Benito chiese come mai il venditore ambulante avesse un nome «così sardo». La risposta giunse con sorprendente semplicità : piuttosto che imparare nomi stranieri «strani» e, soprattutto, difficili da ricordare e pronunciare, si preferiva ricorrere a cognomi locali molto diffusi – Carboni, dunque, o Nieddu (nero in lingua sarda) – che richiamavano la peculiarità fisica di quegli stranieri (il colore della pelle, appunto). La nostra ipersensibilità , propria di persone politicamente correttissime, ci fece registrare un lieve sbandamento (troppo anonima, generica e omologante appariva quella denominazione), ma la tranquillità con cui veniva accolta dal diretto interessato ci rassicurò un po’. D’altra parte, Carboni o Nieddu erano sempre meglio, infinitamente meglio, di quel vu’ cumprà all’epoca dominante.
È probabile che gli oltre due decenni passati abbiano fatto dimenticare quanto questa formula fosse allora diffusa, penetrata fino in fondo nel linguaggio pubblico e indifferentemente accolta fino a perdere parte della sua originaria connotazione stigmatizzante, e a diventare una sorta di neologismo destinato a indicare un fenomeno prima sconosciuto. Eppure, rimaneva chiaramente percepibile, in quella definizione, un senso denigratorio o, perlomeno, di netta presa di distanza: tanto più perché, come ogni formula generica e omologante, enfatizzava il carattere anonimo e indistinto di coloro ai quali veniva attribuita. Per giunta, quella medesima definizione conobbe, nella trascrizione giornalistica, una serie di slittamenti, che intervenivano a meglio precisare, ma sempre in termini squalificanti, i destinatari. I lavavetri diventarono vu’ lavà , preparando la deriva ostile che portò all’uso di altre due specificazioni criminologiche: vu’ rubà e, infine, lo scelleratissimo vu’ stuprà . Con ciò, il processo di stigmatizzazione linguistica poté dirsi concluso, e nel peggiore dei modi. Da un dato di partenza problematico – la povertà del vocabolario dei residenti nel definire i nuovi soggetti – si arriva, assai rapidamente, a una serie di manifestazioni di quella «cultura del disgusto» di cui scriverà Martha Nussbaum. Rispetto a tutto ciò, l’ingenua e volenterosa esercitazione di convivenza tentata dagli abitanti di quel quartiere (e forse della città ) rappresentava evidentemente un tentativo goffo e approssimativo, e tuttavia meritevole di attenzione. Certo, quei venditori ambulanti di origine africana venivano chiamati con un cognome non loro – «imposto», in qualche modo – e comunque generico e generalizzante; un cognome riconoscibile, però, dalla comunità locale, che consentiva un’approssimativa identificazione e agevolava una qualche integrazione. D’altra parte, ciò sembrava incentivare un altro fattore di «normalizzazione» di quella nuova presenza: i Nieddu e i Carboni fornivano un servizio, modesto, agevolmente accoglibile nelle pieghe della vita quotidiana e della sua economia, e in ogni caso assai utile.
Il piccolo commercio ambulante costituisce un’attività sempre presente nella vita urbana, ma soggetta alla periodicità di cicli di maggiore o minore vivacità , legati a fenomeni come i flussi migratori interni (in specie provenienti dalle zone rurali) e allo sviluppo o alla crisi di particolari settori economici. Quando, nella seconda metà degli anni ottanta, cresce il numero di venditori ambulanti stranieri (in particolare africani), quel tipo di commercio è ormai quasi esaurito, ed è limitato comunque ad alcune aree territoriali (città di medie e piccole dimensioni) e zone periferiche, oltre che a luoghi circoscritti, come quelli destinati ai mercati all’aperto. I venditori ambulanti italiani sono notevolmente diminuiti di numero e hanno acquisito, allo stesso tempo, una loro «residenzialità ». In altre parole, sono infinitamente meno mobili (meno «ambulanti») di quanto fossero in passato. Quella stessa mobilità perduta sembra essersi trasferita a persone «più giovani» sotto tutti i punti di vista. Questo del muoversi e della disponibilità alla fatica che comporta è un dato importante: basti pensare che, tra gli italiani, solo i venditori di cocco sembrano disposti a quell’onerosissimo esercizio fisico che è l’ambulantato di spiaggia (l’infinito percorrere i bagnasciuga estivi alla ricerca di possibili acquirenti), mentre il numero di venditori ambulanti stranieri cresce in misura rilevante. In effetti, la disponibilità al sacrificio, a guadagni assai modesti e, soprattutto, a un moto pressoché perpetuo, costituisce l’elemento essenziale di un’attività che – salvo rare eccezioni – solo uomini giovani e dotati possono svolgere.
A ben guardare, nonostante l’ostilità dei titolari degli stabilimenti e la frequente opera di repressione da parte della polizia municipale, la comparsa sulle spiagge di tutto il territorio nazionale di quella nuova figura di commerciante ha ottenuto sin dal primo momento un grande successo. Anche perché questi venditori sembrano conoscere in maniera approfondita – si potrebbe dire «quasi naturale» – la tecnica della vendita porta a porta (in questo caso, da ombrellone a ombrellone). È, certamente, una tecnica fatta di pressione e insistenza che possono diventare anche moleste e assillanti, fino a determinare irritazione o addirittura ostilità , ma che – nella gran parte dei casi – si rivela invece assai efficace. Una tecnica che si affida a un’attitudine all’immediata familiarità e a una negoziazione praticamente infinita, e pure a una certa disponibilità a scendere a patti, a trovare un compromesso, ad accordarsi. Un metodo «da bazar» o «da suk» che, dapprima guardato con sospetto, diviene presto consueto e perfino divertente. Giorno dopo giorno, nel tempo circoscritto di una vacanza al mare, si crea una particolare forma di rapporto di fiducia tra venditore e acquirente, che induce a qualche confidenza e riduce in maniera significativa un certo numero di pregiudizi e stereotipi. Accade così che, con frequenza stagionale, si abbia notizia di episodi che vedono i frequentatori di una o di un’altra spiaggia «insorgere» in difesa degli ambulanti che la polizia municipale vorrebbe allontanare.
In quel rapporto tra venditori e bagnanti, indubbiamente assai superficiale e occasionale, pesa assai poco la consapevolezza di come i primi siano alle dipendenze di strutture illegali che ne sfruttano il lavoro e la fatica, ne regolano i tempi e ne controllano i movimenti, imponendo spazi di mercato limitatissimi ed esili margini di guadagno e ricavandone, infine, ingenti profitti. Si pensa, piuttosto, a un’opportunità di sopravvivenza che, in ogni caso, va accettata e, nei confini delle disponibilità di ciascuno, alimentata. Anche perché quell’attività lavorativa così faticosa e palesemente poco remunerativa – ecco il secondo e ancora più importante fattore che crea empatia – non entra in concorrenza (o finora non è entrata in concorrenza) con il lavoro svolto da italiani.
Questo aspetto, avvertito in modo più o meno consapevole, è una componente essenziale della mancata ostilità tra residenti e nuovi arrivati: tanto più se il commercio ambulante, in particolare quello di spiaggia, resta tuttora, dopo un quarto di secolo, interamente presidiato da stranieri. Qui la concorrenza non esiste, o comunque non si manifesta, e per una singolare e assai misteriosa legge di mercato si realizza una sorta di spontanea diversificazione merceologica, che continua ad assegnare in prevalenza a italiani la vendita del cocco e a stranieri quella di tutte le altre merci. La ragione è da ricercarsi probabilmente nel controllo monopolistico del piccolo settore delle noci di cocco da parte di poche famiglie e pochi distributori, che amministrano una rete di venditori legata alle realtà territoriali.
Ciò produce uno sviluppo non competitivo dell’attività commerciale e disinnesca potenziali conflitti. In altre parole, è come se alcune dinamiche di mercato si articolassero secondo uno schema duale, che prevede una concentrazione per nazionalità in distinti comparti lavorativi. E questo, naturalmente, non vale solo per la differenziazione di attività tra «venditori di elefanti» e «venditori di cocco», ma anche per settori più robusti e a maggior tasso di occupazione del nostro sistema economico. Lo vedremo più avanti. Forse, però, va presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che la distribuzione di compiti tra italiani venditori di alimenti e africani venditori di oggetti si debba anche a una sottile e non dichiarata resistenza da parte dei bagnanti ad acquistare e consumare cibo manipolato da «mani nere». Un atteggiamento comunque contraddetto dalla crescente presenza di stranieri nel settore della ristorazione, ben rappresentata dal fenomeno, ormai radicato nella percezione comune, del «pizzaiolo egiziano» (oltre che dalla massiccia diffusione dei «kebabbari»).
Al di là delle ragioni non facilmente decifrabili di tali dinamiche, ciò che qui ci preme sottolineare è come quel dato di «familiarità » tra bagnanti e ambulanti di spiaggia possa aiutare a comprendere diversi fenomeni di portata assai più ampia.
Ma ci conviene espellerli?
Questo libretto ha un titolo, Accogliamoli tutti, che non intende in alcun modo suonare provocatorio. In genere si proclama «farò una provocazione» proprio quando si sta per dire qualcosa di infinitamente banale o comunque prevedibile, o quando si vuole anticipatamente disinnescare il presunto scandalo di ciò che si sta per affermare.
Qui, nulla del genere. La nostra è una dichiarazione politica, che – allo stesso tempo – allude alla sostanza di un possibile programma economico, sociale, culturale e legislativo. Qui si vuole provare come l’accoglienza sia possibile e utile. Comporta, è ovvio, costi anche molto rilevanti, e fatiche assai onerose, ma resta un progetto plausibile e realizzabile. Tanto più che il suo contrario – la non accoglienza – è certamente più difficile (impossibile) e inutile (dannoso) da perseguire.
Questo vale anche e soprattutto per i richiedenti asilo, protetti da precisi obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia. Nei confronti di questi ultimi, così come in genere di tutti i migranti, devono valere, dunque, considerazioni e politiche concrete, che appartengano a un campo, anche linguistico, alquanto differente da quello definito dai buoni sentimenti e da virtù come la solidarietà .
Solidarietà è parola che non ci piace affatto. E per più di una ragione. Intanto, la questione dell’immigrazione ha dato luogo a una lettura sempre oscillante tra ideologia e sentimento.
La versione virtuosa di questa interpretazione, nelle sue proiezioni sul sistema (la società multietnica, multiculturale, multireligiosa…), venne intesa da una parte tutt’altro che trascurabile della sinistra e del cattolicesimo sociale come un orizzonte ideale, un’aspettativa di emancipazione e di rinnovamento, un modello di società desiderabile. Per alcuni, e per certi settori della sinistra, una sorta di surrogato del socialismo. Il che non solo ha portato, com’era inevitabile, a sottovalutare, talvolta addirittura irresponsabilmente, le fatiche e le contraddizioni che il fenomeno migratorio comporta (specie per gli strati più deboli della società , quelli che vivono un rapporto di maggior «prossimità » con gli stranieri); ma ha indotto anche a enfatizzare il contrasto tra un’interpretazione tutta positiva dell’immigrazione e una tutta negativa. Ciò ha quasi del tutto relegato il discorso pubblico sull’immigrazione a una dimensione binaria: razzismo/antirazzismo. Ne deriva un atteggiamento tutto solidaristico a opera di quanti stanno sul primo versante (antirazzismo), con il rischio, presto e spesso tradottosi in parole e atti conseguenti, di un approccio interamente fondato sui «buoni sentimenti». Gli immigrati come «fratelli» o come «compagni», il rapporto con loro affidato a una mera scelta volontaristica e altruistica. Praticamente un disastro.1
E ciò aiuta a comprendere anche perché il linguaggio e la gestualità «antirazzisti» si sono rivelati poco efficaci e ampiamente usurati. Per capirci: l’antirazzismo è una sorta di premessa morale, culturale e politica, essenziale nella definizione dell’identità di un democratico contemporaneo. Ma costituisce, appunto, un presupposto, più che un programma d’azione o una strategia generale. E come programma e strategia rischia, se non applicato in maniera intelligente e sensibile, di limitarsi a petizioni di principio e dichiarazioni d’intenti. Programmi astrattamente antirazzisti, quando formulati in termini ideologici, possono addirittura risultare deleteri, se percepiti da coloro cui sarebbero destinati (e che in genere non possono «permetterseli») come pretesa di solidarietà e come ammonimento etico. Insomma, l’antirazzismo è una precondizione, non una bandiera né una prospettiva politico-ideologica.
A nostro avviso, la questione dell’immigrazione va affrontata in modo del tutto opposto: sul piano dei diritti, delle garanzie e del sistema di cittadinanza, oltre che dell’interesse economico-sociale, razionalmente inteso. È in particolare di quest’ultimo che parleremo nelle pagine seguenti, a partire dalla constatazione che l’acuto squilibrio demografico tra l’Italia e gli altri paesi europei, da un lato, e le popolazioni rivierasche e dell’intera Africa, dall’altro, costituisce il primo e ineludibile fondamento di ogni riflessione sull’immigrazione nel mondo contemporaneo. In altre parole, «accoglierli tutti» – se intendiamo l’espressione nel suo significato di indirizzo e di programma – è relativamente più facile che respingerli tutti, ma anche più agevole e utile che selezionarli. Questo perché la ragione prima e principale dei movimenti migratori risiede negli squilibri economici e sociali a livello internazionale e nello scarto tra i tassi di natalità dei paesi sviluppati e quello dei paesi non sviluppati. E la conseguente pressione sui nostri confini è infinitamente più forte delle fragili barriere, comprese quelle goffamente militari o pesantemente repressive, che si decida di allestire. E soprattutto, accoglierli tutti è, sotto ogni profilo, più conveniente che respingerli. Più vantaggioso dal punto di vista economico. Più rassicurante da quello sociale. Più efficace sul piano dell’integrazione e della convivenza.
Ma, prima di fare riferimento allo scenario globale, vale la pena di partire da ciò che, non percepito o ignorato, accade in mezzo a noi.
2. Prove di accoglienza
Una concretissima utopia
La Sardegna dovrebbe essere uno dei territori in cui progetti di sviluppo basati sulle risorse naturali e affidati a sistemi di produzione non macroindustriali e a nuove leve di manodopera potrebbero avere maggiori opportunità . Occorre premettere tre dati: quelli relativi al saldo migratorio,1 al tasso di natalità (7,9 per mille abitanti, rispetto a un dato nazionale del 9,1),2 alla crisi del sistema industriale (il Pil pro capite è di 22 punti sotto la media italiana; il tasso di disoccupazione è al 13,5 per cento, al 14,6 tra le donne e al 42,4 tra i giovani al di sotto dei 24 anni).3
Da circa un decennio la popolazione (composta dai residenti italiani e stranieri) dell’isola è di fatto costante, e i flussi di immigrazione sono talmente ridotti da costituire appena un fattore di riequilibrio demografico. Si consideri che dal 2002 al 2011 il numero dei cittadini italiani lì residenti risulta diminuito di 13465 unità , mentre quello riferito ai residenti di origine straniera segnala un incremento di 20464 persone.4
Il tasso di natalità pone stabilmente la Sardegna agli ultimi posti tra le regioni italiane. Va da sé che un tale dato contiene un significato sociale e culturale di enorme rilievo. Testimonia di uno stato di grave depressione della popolazione, reclinata su se stessa e rattrappita sul presente. Va osservato che non solo si fanno pochi figli (1,15 per donna rispetto a un dato medio nazionale di 1,42) ma nemmeno ci si sposa (3,5 per mille abitanti nel 2011, comunque in media con il dato nazionale).
Con queste premesse, quale può essere il destino dei sardi? E in quel futuro non potrebbe leggersi anche quello dell’intera popolazione italiana?
A proposito della Sardegna, c’è chi una sua idea ce l’ha. Singolare, audace, persino avventurosa, per certi versi, ma vale la pena ascoltarla: e, al di là dei tempi e dei modi della sua praticabilità , provare a coglierne il senso e le possibili prospettive. Ad Alghero, dove risiede ormai da anni, incontriamo un docente di Economia industriale dell’Università La Sapienza di Roma, oggi in pensione: Andrea Saba. Con lui proviamo a riflettere sui dati, piuttosto allarmanti, citati poco sopra. «I sardi, come le foche monache, sono in via di estinzione irreversibile. Il coefficiente di fertilità è da almeno quindici anni uno dei più bassi al mondo. La popolazione sarda aumenta solo in virtù dell’immigrazione, mentre i pochi nuovi nati, appena ottenuto un diploma o una laurea, emigrano. Il tentativo di sviluppo industriale basato sui contributi pubblici alle imprese è fallito da decenni, ma anche l’agricoltura e la pastorizia sono in continuo declino. La crisi globale ha dato il colpo di grazia a imprese che erano nate e vissute senza solide fondamenta economiche.» Restano il turismo, «poco innovativo e quindi ristretto alla sola stagione estiva», e alcune imprese di trasformazione agricola, «ottime nel settore vinicolo, mediocri nel caseario, dove è buono il prodotto ma carente la capacità di marketing».
«La caratteristica più evidente in agricoltura è l’abbandono...