1. Divenire
Mi ci sono voluti sessant’anni ma recentemente ho avuto una rivelazione: qualunque cosa, nessuna esclusa, richiede un’energia aggiuntiva per conservarsi. Da un punto di vista teorico, mi era già noto come il famoso secondo principio della termodinamica, secondo cui tutto decade lentamente. Questa consapevolezza non è solo il lamento di un vecchio; molto tempo fa ho imparato che senza attenzioni e manutenzione nulla durerebbe a lungo, nemmeno gli oggetti più inanimati che conosciamo (la pietra, pilastri di ferro, tubi di rame, strade lastricate, pezzi di carta). Sembra che l’esistenza sia soprattutto manutenzione.
Quello che recentemente mi ha stupito è quanto siano instabili anche le cose intangibili. Tenere a galla un software o un sito Internet è come tenere a galla uno yacht: è un buco nero di attenzioni. Posso capire che un dispositivo meccanico come una pompa si possa danneggiare dopo un po’ a causa della ruggine dovuta all’umidità, o delle membrane ossidate, o dell’evaporazione del lubrificante, e che quindi richieda di essere riparato, ma non pensavo che anche il mondo cibernetico immateriale si deteriorasse. Cosa si può rompere? A quanto pare tutto.
I computer nuovi di zecca si fossilizzano, le applicazioni si indeboliscono con l’uso, il codice si corrode, i nuovi software, non appena immessi sul mercato, iniziano a logorarsi automaticamente, senza che nessuno faccia alcunché; più il dispositivo è complesso e più attenzioni richiederà. La naturale inclinazione al cambiamento è inevitabile anche per l’entità più astratta che conosciamo, i bit.
C’è anche l’assalto al cambiamento del contesto digitale: quando tutto intorno a te sta evolvendo, si creano pressioni che rendono necessario l’apporto di alcune modifiche anche al tuo sistema digitale. Magari preferiresti non aggiornarlo ma sei spinto a provvedervi perché tutti gli altri lo fanno. È una corsa agli armamenti dell’aggiornamento.
Ho sempre atteso ad aggiornare i miei dispositivi fino al momento in cui non potevo più rimandare; perché aggiornare se funziona ancora? Si sa come funziona: aggiorni questo e all’improvviso dovrai aggiornare anche quell’altro, scatenando una serie di aggiornamenti a cascata. Rimandavo anche per anni perché avevo avuto già esperienza del fatto che un «minuscolo» aggiornamento di un componente minore avrebbe inevitabilmente scombussolato tutta la mia vita lavorativa. Purtroppo però la nostra tecnologia personale sta diventando sempre più complessa e co-dipendente da altre periferiche, un po’ come un ecosistema vivente, perciò ritardarne gli aggiornamenti può essere ancor più dannoso: se si rifiutano gli aggiornamenti minori correnti, il cambiamento si accumula talmente tanto da far raggiungere dimensioni traumatiche al grande aggiornamento conclusivo. Per questo motivo ora considero gli aggiornamenti come un tipo di igiene: vanno fatti regolarmente per mantenere la tecnologia in salute. Questo processo di aggiornamento continuo è diventato talmente decisivo per i sistemi tecnologici che, per la maggior parte dei sistemi operativi per pc e alcune applicazioni per dispositivi mobili, viene eseguito automaticamente, dietro le quinte. Si aggiornano da soli, cambiando lentamente nel tempo le proprie funzionalità. Succede progressivamente, senza che ci si possa rendere conto del loro «divenire».
Consideriamo normale questo tipo di evoluzione.
In futuro, la vita tecnologica consisterà di una serie infinita di aggiornamenti, in progressione ascendente. Le funzioni cambiano, spariscono gli standard, i menù si trasformano: aprirò un software che non uso quotidianamente aspettandomi determinate scelte per scoprire che interi menù sono scomparsi.
Non importa da quanto tempo si stia usando un particolare strumento, gli aggiornamenti infiniti inevitabilmente ci rendono niubbi (novellini) – spesso si pensa che siano i nuovi utenti a non sapere dove mettere le mani. Nell’epoca del «divenire» tutti diventeremo niubbi o, peggio, saremo niubbi per sempre; il che dovrebbe mantenerci umili.
Vale la pena di ripeterlo: in futuro tutti noi, nessuno escluso, saremo eterni niubbi, che cercano semplicemente di tenere il passo. Ecco il perché: primo, la maggior parte delle tecnologie fondamentali che prevarranno nella vita a trent’anni da oggi non è ancora stata inventata, perciò è ovvio che saremo dei niubbi a riguardo; secondo, manterremo lo status di niubbi perché le nuove tecnologie richiedono continui aggiornamenti; e, terzo, dato che il ciclo di invecchiamento sta accelerando sempre più (la vita media di un’applicazione del telefono è di soli trenta giorni!),1 e che quindi non ci sarà tempo per acquisire la padronanza di alcunché prima che venga sostituito, saremo destinati a rimanere nella modalità niubbo per sempre. «Eterno niubbo» è il nuovo standard per tutti, a prescindere dall’età o dal livello di esperienza.
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A essere onesti, dobbiamo ammettere che l’aspetto centrale di questi incessanti aggiornamenti e continuo divenire del mondo tecnologico è quello di creare vuoti nel nostro cuore: non molto tempo fa, abbiamo tutti deciso che non potevamo vivere un giorno di più senza smartphone; qualche anno prima, questa stessa affermazione ci avrebbe sbalordito. Ora ci arrabbiamo se la Rete è lenta, ma in passato, quando eravamo innocenti, non avevamo nemmeno il concetto di Rete. Continuiamo a inventare cose nuove che generano nuovi desideri, nuove lacune che dobbiamo colmare.
Per alcuni è irritante essere così condizionati dalle cose stesse che produciamo: considerano questa continua necessità come destabilizzante, una perdita della nobiltà umana, una fonte perpetua di insoddisfazioni. Concordo nell’individuare la fonte nella tecnologia: lo slancio delle tecnologie ci spinge a inseguire quelle più recenti, le quali inesorabilmente spariscono, sorpassate dalle successive ancor più nuove, e in questo modo la soddisfazione continua a sfuggirci dalle mani.
Ma io elogio l’insoddisfazione perpetua portata dalla tecnologia. Ci distinguiamo dai nostri progenitori animali perché, non accontentandoci solamente di sopravvivere, ci siamo incredibilmente impegnati a inventare nuovi sfizi da levarci, creando nuovi desideri che in precedenza non avevamo. Questa insoddisfazione è la ragione della nostra ingenuità e della nostra crescita.
Senza la creazione di questi vuoti nel nostro cuore, non avremmo potuto espandere il nostro Io, né come singoli né come collettività. Stiamo ampliando i nostri confini e ingrandendo il contenitore che comprime la nostra identità: potrebbe essere doloroso, e certamente ci saranno difficoltà. Spot pubblicitari notturni e pagine Web senza fine che parlano di congegni che presto diventeranno obsoleti sono tecniche tutt’altro che confortanti, ma il cammino per il nostro ampliamento è molto noioso, monotono e ordinario. Quando immaginiamo un futuro migliore, dovremmo considerare anche questo continuo sconforto.
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Un mondo senza disagi sarebbe un’utopia, ma sarebbe anche statico. Un mondo totalmente corretto per alcuni aspetti potrebbe essere terribilmente scorretto sotto altri: un’utopia non ha problemi da risolvere, ma non ha nemmeno opportunità.
Nessuno di noi deve però preoccuparsi di questi paradossi utopistici, perché non funzionano mai. Ogni scenario utopistico contiene delle imperfezioni interne che lo corromperanno, ma la mia avversione per le utopie è ancora più radicata: devo ancora trovare una speculazione utopica in cui vorrei vivere; sarei terribilmente annoiato. Le distopie, l’esatto opposto, sono invece molto più interessanti e più facili da immaginare: chi non riuscirebbe a concepire un futuro apocalittico da ultima persona sulla faccia della Terra, o un mondo governato da robot supremi, o una mega città-pianeta che un lento degrado trasforma in baraccopoli, oppure, il più semplice di tutti, un armageddon nucleare? Ci sono infinite possibilità per il collasso della civiltà moderna, ma il semplice fatto che le distopie siano più drammatiche, scenografiche e facili da immaginare non le rende più probabili.
Il difetto di queste narrazioni distopiche è che non sono sostenibili: far scomparire una civiltà è veramente difficile; più il disastro è grande e più velocemente il caos si estinguerà; i fuorilegge e la malavita, che sembrano così eccitanti nell’«imminenza dello sfascio», verranno presto soppiantati dalla criminalità organizzata e dagli attivisti, di modo che l’anarchia si trasformerà velocemente in racket e, in maniera ancora più rapida, il racket diventerà un tipo di governo corrotto – il tutto per massimizzare le entrate dei banditi. In un certo senso, l’avarizia cura l’anarchia. Le vere distopie sono più simili alla vecchia Unione Sovietica che a Mad Max: si tratta di burocrazie soffocanti, non di anarchie. Rette attraverso il terrore, simili società arrancano, fatta eccezione per i benefici di pochi. Tuttavia, come accadeva tra i pirati dei mari due secoli fa,2 c’è molto più ordine di quel che sembra: infatti, nelle società realmente degeneri, la completa assenza di regole che associamo alle distopie non è permessa; i criminali peggiori tengono a bada quelli minori, mantenendo così il caos distopico al minimo.
In ogni caso, né la distopia né l’utopia sono il nostro obiettivo. Piuttosto, la tecnologia ci sta portando verso la protopia; per l’esattezza, ci siamo già arrivati.
La protopia è una condizione del divenire piuttosto che una vera destinazione, è un processo; nello stato protopico l’oggi è migliore di ieri, anche se solo in minima misura. È un miglioramento incrementale o un lieve progresso; il suffisso «pro» deriva appunto dalle nozioni di processo e progresso. Si tratta di un avanzamento non eclatante né sconvolgente, che passa facilmente inosservato perché genera tanti nuovi benefici quasi quanti nuovi problemi: il successo delle tecnologie passate ha creato le problematiche attuali, e le soluzioni tecnologiche ai problemi di oggi creeranno quelli del futuro. È un’espansione ciclica sia delle problematiche sia delle soluzioni, che può mascherare l’accumulo continuo di piccoli benefici netti nel lungo periodo. A partire dall’Illuminismo e dall’invenzione della scienza, siamo sempre riusciti a creare qualcosa di più di quello che distruggevamo ogni anno. Ma questa piccola differenza percentuale positiva è stata capitalizzata, nel corso dei decenni, in ciò che potremmo chiamare civiltà. Questi benefici non si vedono mai nei film.
È difficile accorgersi della protopia perché è un divenire: è un processo che cambia costantemente al variare di tutto il resto, e che contemporaneamente muta se stesso, crescendo ed evolvendosi. È difficile gioire per un processo graduale che cambia forma, ma è importante riconoscerne la presenza.
Oggi siamo diventati talmente consapevoli degli aspetti negativi dell’innovazione e siamo talmente scoraggiati delle false promesse delle passate utopie che fatichiamo a credere in un tenue futuro protopico, in cui il domani è un po’ meglio della situazione attuale; fatichiamo a immaginare qualunque tipo di futuro che desideriamo. Sapreste nominare un solo futuro fantascientifico su questo pianeta che sia contemporaneamente plausibile e desiderabile? (Star Trek non conta, è nello spazio.)
Non c’è più alcun futuro felice con macchine volanti ad attenderci. Diversamente dal secolo scorso, nessuno vuole proiettarsi in un futuro molto lontano, anzi, se ne ha paura, e ciò rende più difficile prenderlo seriamente in considerazione. Per questo motivo siamo bloccati in un futuro a breve termine, senza prospettive generazionali. A tal proposito, alcuni hanno sposato la credenza in una Singolarità, secondo la quale sarebbe tecnicamente impossibile immaginare il futuro tra cent’anni, cosa che li ha resi ciechi di fronte agli avvenimenti futuri. Questa cecità potrebbe essere, in parole povere, la condizione che affligge in...