Interviste
  1. 1,248 pagine
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Informazioni su questo libro

Pistolero intellettuale, pecora nera di una ricca famiglia di fabbricanti di calcolatrici, disinfestatore di blatte e cimici, pittore a mano armata, esule uxoricida, tossico impenitente, profeta della paranoia, esploratore del queer, protagonista di oracolari cammei cinematografici e – soprattutto – autore di alcuni dei più stranianti romanzi sperimentali della letteratura americana: se è vero che ogni uomo vive molte vite durante la sua esistenza, quelle di William Burroughs sono state di più. Un percorso composto di ombre e misteri, ma che Burroughs ha costellato continuamente di confessioni pubbliche, colloqui con la stampa, partecipazioni a tavole rotonde e registrazioni radiofoniche. Lui, che notoriamente «odiava rilasciare interviste».Curata dal critico Sylvère Lotringer e ora per la prima volta pubblicata in Italia, la raccolta delle Interviste di William Burroughs è una vera e propria controstoria privata del secondo Novecento americano, raccontata in presa diretta dalla viva voce di uno dei suoi più provocatori protagonisti: dalle conversazioni con i sodali di sempre Allen Ginsberg, Gregory Corso e Brion Gysin agli incontri memorabili con David Bowie, Tennessee Williams, Christopher Isherwood e Patti Smith, dall'analisi delle proteste del Sessantotto alle prese di posizione di fronte all'esplodere dell'epidemia dell'Aids, dalle rivelazioni sulle proprie tecniche di scrittura alla confessione delle paure per il futuro.Interviste è allo stesso tempo un documento letterario fondamentale e un memoir involontario, parcellizzato nel tempo. Risposta dopo risposta, battuta dopo battuta, Burroughs ci conduce negli abissi della sua anima tormentata e delle sue inquietanti visioni lisergiche, costringendoci a guardare in faccia, in un incubo senza fine, i centopiedi giganti, i poliziotti Nova, gli Esaminatori e i Moscibecchi che ancora oggi abitano la nostra società.

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Informazioni

New York

(1974-1981)

Il ritorno dell’uomo invisibile

New York, 1974
Inizialmente, Burroughs era tornato a New York per insegnare al City College nel semestre primaverile e ha poi deciso di restare e prendere casa in città. Al momento vive in una zona sotto Canal Street, che sarebbe più corretto chiamare Canal Zone invece di Soho.
Josh Feigenbaum: Non le dispiace vivere qui?
William Burroughs: Mi piace questa zona. Ci sono un sacco di sbirri. A New York, più sbirri ci sono, meglio è, come dico sempre. Non ti importunano per niente, a parte aggredirti fisicamente, quindi uscire è sempre un’esperienza.
Si alza per versarsi un altro Dewar’s e soda.
Burroughs: [indicando un sacchetto di erba sul tavolino] Quella schifezza non vale niente. Non conviene neanche perdere tempo a rollarla.
Il loft è un locale spazioso, con i soffitti alti e al centro un pianoforte a coda malconcio: un ricordo dell’inquilino precedente. Il posto sta prendendo forma a poco a poco. Il tempo degli alloggi di fortuna è finito. Dopo aver vagato per New York, Burroughs ha cominciato a sistemarsi. Contro una parete c’è un accumulatore di orgone, una cabina di legno rivestita di metallo e coperta con un materiale organico, in questa caso una pelliccia di coniglio nera.
Burroughs: Se vai nell’accumulatore di orgone, ti bastano dieci minuti al giorno per star bene.
Do un’occhiata e decido di provarlo. Esco molti minuti dopo, tossicchiando, e lui suggerisce che evitare di fumare una sigaretta mentre si è seduti dentro sarebbe d’aiuto.
Burroughs: Stamattina abbiamo radunato tutti i pezzi per il lampeggiatore e si spera che potremo cominciare gli esperimenti non appena sarà installato. Questa macchina permette di inviare immagini a un ricevitore con la telepatia.
Feigenbaum: Le distrazioni della città la distolgono dalla scrittura?
Burroughs: No, posso scrivere ovunque. Essere qui o a Timbuctù non fa nessuna differenza.
È sabato pomeriggio e ci spostiamo nella saletta sul retro del Broome Street Bar. Burroughs ha difficoltà a addentare il suo panino bacon, lattuga e pomodoro.
Burroughs: Se protendo ulteriormente le mandibole, si disarticoleranno come quelle di un serpente.

Tracce mnemoniche

New York, 1974
Gerard Malanga: Mi ha molto incuriosito la foto di gruppo con te, Kerouac, Ginsberg e Hal Chase77 scattata nel 1944. Sono rimasto colpito dall’intensità giovanile, dall’affiatamento che evoca questa foto. Puoi dirmi qualcosa su ciò che ha significato per te il legame con quei ragazzi giovani, all’epoca?
William Burroughs: È passato molto tempo. Ricordo che ci eravamo deliberatamente messi in posa come in una foto degli anni venti.
Tu eri un po’ più vecchio di tutto il resto della compagnia.
Sì, non molto però. Avevo circa dieci anni in più.
E all’epoca non scrivevi.
No, per niente. No, quella foto è stata scattata… Di quand’è?
1944.
Ecco. Il mio primo libro è del 1950-1951. È stato pubblicato nel 1953.
All’epoca ti sentivi uno scrittore?
No, per niente.
Di che cosa ti occupavi?
Oh, niente di particolare. Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso, naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato piuttosto tardi.
Anche Allen è stato in qualche modo una fonte d’ispirazione o ti ha dato dei suggerimenti riguardo alla scrittura?
Non tanto quanto Jack, certo. Jack e io siamo finiti nella stessa categoria. Credo che si possa definire Jack un romanziere, e anch’io mi posso senz’altro definire tale.
Nel periodo in cui scrivevi, ti sentivi parte di un certo ambiente?
Non proprio. Sai, ho cominciato a scrivere in Messico e poi non sono tornato a New York. Sono stato per un breve periodo a New York nel 1953, per circa tre mesi, ma mentre il fenomeno Beat era nel vivo – i reading e il Black Cat Café e tutto quanto – io ero in Europa, quindi non ne facevo davvero parte.
Percepivi o immaginavi un qualche tipo di scenario o movimento legato a Kerouac e Ginsberg, nel 1944, quando ti giravano intorno?
No. Non a quell’epoca. Il movimento, a dire il vero, si è formato anni dopo e io allora non ne avevo alcuna percezione.
Non intendo per forza di cose la scena Beat, ma una scena in generale. Mi sono imbattuto in uno scritto di Robert Creeley. Il titolo del libro è Pieces. Creeley scrive: «Allen dice, mentre lasciamo New York in aereo – sotto di noi la vista della città come una proliferazione cellulare, un «cancro» – gli uomini sulla terra come se un rivestimento di essa irradiasse un cancro mondiale – la “legge” di Burroughs, finalmente, è piuttosto chiara». Qual è la legge a cui Allen fa riferimento nella conversazione con Creeley e a che livello è collegata a un cancro?
Be’, certo, un cancro è una proliferazione. C’è una proliferazione di gente, una proliferazione di immagini, una proliferazione di dipartimenti governativi. Ma non sono sicuro di quello a cui si riferiva in quel caso. Sta parlando di New York?
Sì, sta parlando di New York. Creeley reinterpreta quel che Allen gli sta dicendo. «La “legge” di Burroughs, finalmente, è piuttosto chiara.»
La legge è semplicemente la proliferazione.
Quali sono le tue sensazioni e idee sulla sovrappopolazione in termini di economia mondiale?
Considero la sovrappopolazione uno dei problemi basilari, insieme a molti altri, attualmente insolubili: come l’inflazione, solo per fare un esempio. So che Buckminster Fuller non la pensa così, ma non vedo come si possa sfuggire. C’è semplicemente troppa gente, e più gente c’è più i prezzi degli appartamenti salgono.
Ho appena finito di leggere il romanzo di Harry Harrison Largo! Largo!, da cui un paio di anni fa è stato tratto il film I sopravvissuti.
Ne ho sentito parlare; non ho visto il film.
Il libro è ambientato nel 2000, a New York. La popolazione è di quaranta milioni di abitanti e alcuni gruppi di persone stanno ancora cercando di far passare la legge sull’aborto per renderlo legale; e ci sono queste leggi degli squatter: se hai una stanza vuota nel tuo appartamento, c’è una legge degli squatter con effetto immediato che dice che una famiglia si può trasferire da te. Non ci sono macchine, gasolio, terra, foreste. Tutto si è estinto ormai da vent’anni. È terrorizzante.
E di che cosa vive questa immensa popolazione?
New York diventa uno stato sociale. Immagino ci sia una legge non scritta secondo cui il ricco diventa più ricco e il povero più povero.
Non possono fare diversamente.
Vuoi dire che una volta preso lo slancio, che è già stato preso, non è più possibile tornare indietro?
No, la direzione è destinata a invertirsi, in un modo o nell’altro. Prendi questi fattori: sovrappopolazione, risorse naturali, investimenti di capitale. Ora puoi tracciare un grafico che mostrerà come la popolazione debba infine calare, perché quando le risorse naturali saranno esaurite non ci sarà alcun modo di dare sostentamento a queste persone.
Pensi che il libro di Harrison sia forse una versione eccessivamente romanzata del futuro?
Non penso che in quelle circostanze, ma nemmeno nelle circostanze attuali, New York potrebbe sostenere una popolazione di quaranta milioni di abitanti. Morirebbero tutti di fame.
Cos’è che ti spaventa di più?
È una domanda molto difficile. Tu saresti in grado di rispondere?
Il modo in cui moriremo?
No.
Tu saresti in grado di rispondere?
Stavo cercando di pensare. Ehm… Me lo hanno già chiesto, in passato, e non sono stato capace di dare una risposta molto precisa. Alcune persone hanno risposte molto precise. Hanno un qualche tipo di fobia, come Poe, naturalmente, che temeva di essere sepolto vivo.
Quali sono i tuoi legami con le varie città in cui hai vissuto e come hanno influenzato il tuo lavoro?
Le varie città in cui ho vissuto… Be’, una è Città del Messico. Un’altra è Tangeri. Londra, Parigi, New York. Sono questi i posti in cui ho vissuto per un periodo di tempo piuttosto lungo, e l’influenza sul mio lavoro è molto evidente, credo. Intere sezioni di Pasto nudo vengono senza dubbio da Tangeri. C’è poi un’intera sezione sul Messico. In Sudamerica non ho mai vissuto, ma l’ho girato per circa sei mesi. Un’altra influenza è la Scandinavia. Come pure Madrid. Ci sono stato solo un mese e mezzo o giù di lì. L’intero concetto di Terra Libera è nato lì. Sono stato solo a Copenhagen, e in Svezia, per un paio di giorni.
Pensi che girare molto faccia parte della tua natura?
Non giro poi così tanto. Quando ero a Città del Messico, ho viaggiato pochissimo, e lo stesso a Tangeri. Ci sono stato per circa cinque anni, ma non ho fatto grandi viaggi.
Che cos’ha da offrirti di diverso New York, rispetto alle altre città in cui hai vissuto?
Una cosa molto importante. Ogni altra città che conosco sta andando giù, sta peggiorando, ma questo non è vero p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. Come un’introduzione
  5. Espatriato
  6. Londra
  7. New York
  8. Lawrence, Kansas
  9. Shooting Gallery
  10. Ultime parole
  11. Note
  12. Bibliografia delle interviste