Il principe della zolla
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Il principe della zolla

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Il principe della zolla

Informazioni su questo libro

Di Stefano e Pelé, i più grandi. Italia-Germania 4-3. L'abatino Rivera e Gigi Riva, Rombo di tuono. Nereo Rocco, pragmatico sincero. Il giovane Coppi e gli inverni dell'Alessandrino. Il fi ero Gimondi, cannibalizzato da Merckx. Don Lisander Manzoni, che in Don Abbondio dipinge se stesso. Quasimodo e Gadda. Fiumi, laghi, risaie e vigneti padani. Salami e capponi, carpe e storioni, barbera e barbacarlo. Il mondo di Gianni Brera, grande come il mondo intero. Il principe della zolla custodisce le cento storie di uno scrittore che passava per giornalista sportivo. «Un grande fiume senza mai problemi di siccità», secondo Gianni Mura, che qui ha raccolto i migliori articoli di Brera – battuti a caldo e dettati a braccio a indefessi dimafonisti – unendoli alle pagine più meditate dei suoi romanzi. Un'antologia che si trasforma in un unico grande racconto, curata con il rispetto di un allievo consapevole dell'inimitabilità del maestro; con l'affettuosa nostalgia di lunghe notti avvolte nel fumo di sigari e pipe, trascorse parlando di calciatori e poeti, vini e ciclisti, politici e discoboli. L'Arcimatto Brera, sempre generoso e tagliente, ha celebrato il lato epico del calcio e la fatica del calciatore, i campioni intramontabili e l'italianissimo catenaccio. Ha saputo restituire la meraviglia del gesto atletico, il gusto del virtuosismo tecnico, la sublimazione del sacrificio. Nel calore della passione ha forgiato un linguaggio nuovo, verso il quale il giornalismo sportivo italiano, e persino internazionale, sarà sempre debitore. Ha cantato la terra e la lingua di Lombardia, e insieme le terre e le lingue incontrate girovagando per mondi sportivi, reali, letterari. In queste pagine rivive la sua vita, bella e intensa come un Giro d'Italia.

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Informazioni

Print ISBN
9788842820987
eBook ISBN
9788865764459

Sommario

Presentazione di Paolo Brera
Introduzione di Gianni Mura
Nel nome del Po
Eberardo Pavesi
Sulla caccia
Don Lisander
Seniga
Rocco
Gugia
L’oggetto magico
Italia-Egitto 1954
Il re storione
Quasimodo
Lo spezzatino di Lisander
Angioletto in gabbia
Una carpa di sedici chili
Arrumpetevi lo volto
Giro di Lombardia 1973
Ben Johnson
Scrittori seduti
Lago e fiume
Prima alla Scala
Violanti
Fiorentina-Inter 1956
Consolini
Mario dal Vêr
Etnos a Cagliari
Furtünà
I capponi in grasso
Irlanda-Italia 1958
Lettera sui vent’anni
La grande crono
Hector
Lettera del ramolaccio
Oloferne
Gaul sul Vesuvio
Un Natale
Rassapiave
Coppi al paese
Estate
Jugoslavia-Italia 1957
Cena da Tirsô
Meazza
Cappelletti
Gabbiani del Po
Zio Gadda
Lamento per Riva
Mondine
Porta Venezia story
Italia-Germania Ovest 1970
Bevilacqua
Messico
Zio Giacomo
Un altro Natale
Dolcechiaré Pelé
Gagarin
Torquemada e le formiche
Mazzola a Budapest
Pambianco
Meroni
Machiavelli e la folla
Il vino che sorride
Ganna
La fatica del calcio
Mio padre sioux
Il principe della zolla
Riferimenti bibliografici

Presentazione


A proposito di una persona che non è più in vita, uno si può domandare: «Chi era?». Ma quando si tratta di un artista, uno scrittore, un filosofo, un uomo politico o un religioso, è possibile anche un’altra domanda, solo in apparenza simile alla prima. Si può cercare di capire «chi è».
La differenza è importante. La prima domanda riguarda tutti. Lo scomparso era amichevole o scostante? Era un ottimista o un pessimista? Che gusti aveva, a quali affetti dedicava il suo tempo, era di destra o di sinistra? Che cosa prendeva come prima colazione? Tutto questo possiamo chiedercelo, beninteso, anche delle persone illustri. Ma tutto sommato è secondario. Chiedendoci «Chi è?» vogliamo sapere che cosa ha lasciato dopo la sua scomparsa, che mi sembra più significativo.
Ho dedicato molti anni, dopo la morte di mio padre Gianni Brera (lo chiamo anch’io così come fanno tutti, per non dover ripetere «mio padre» anche là dove la parentela non c’entra molto), a rispondere a questi due interrogativi, chi era e chi è. Al secondo, forse, un po’ di più che al primo. Gianni Brera era uno scrittore. Ma si può anche dire che è uno scrittore, dato che sempre, di uno scrittore, vediamo prima di tutto le opere, e per la maggior parte della gente non fa poi tutta questa gran differenza se dietro la firma c’è qualcuno che ancora respira oppure no. Il principe della zolla ci consente una panoramica di ciò che è Brera attraverso una scelta ragionatissima (fatta nientemeno che da Gianni Mura) di suoi scritti.
Per onorare il padre come prescrive il comandamento, spesso ho dovuto presentarlo. Giovanni Luigi Brera di Carlo e Marietta Ghisoni, nato l’8 settembre 1919 a San Zenone al Po, paese chiamato «Pianariva» nei suoi romanzi. Millecinquecento abitanti, nove su dieci occupati in agricoltura. Fittavoli, proprietari, braccianti. Qualche ranè che cattura batraci da destinare alla vendita e all’autoconsumo. Qualche meccanico ciclista. Qualche operatore di trebbiatrici. Qualche giarö (che sbadila la ghiaia dal fondo del fiume alle barche a fondo piatto e la vende a quelli che costruiscono strade in macadam). Un medico, un farmacista, un prete e qualche levatrice, per preservare sani i paesani nel corpo o nell’anima. E un artigiano che combina le due vocazioni del sarto e del barbiere, come spesso capita nei paesi della Val Padana.
A San Zenone quell’artigiano è Carlo Brera, padre di Gianni e mio nonno. La sua bottega si apre sulla pubblica via.* «Siamo poveri, non miserabili» dice Carlo di se stesso e della sua famiglia, che comprende una moglie con un po’ di sangue ungherese nelle vene e cinque figli, di cui Giuanęi** è l’ultimo.
Del padre Gianni Brera scriverà che era un atleta naturale, in grado, senza saperlo, di saltare più alto dell’allora campione italiano di salto in alto. A Carlo piace cantare le romanze che sente alla radio, e ha una certa tendenza a essere sempre in ritardo: la trasmetterà al figlio e anche a un paio dei nipoti.
In famiglia nella vita quotidiana si parla pavese, una parlada ch’a disen ch’l’è ‘na variänt dal lumbard uccidental ma l’è pièna ‘d son nasal e la ‘s mängia via un bel pu ad vucai. Se non avete capito non fa niente, tanto fra una cinquantina d’anni non ce ne sarà più traccia, del pavese. Quando nasce Gianni, invece, è l’unica lingua che si usi in famiglia, e fino ai suoi dieci anni il futuro giornalista e scrittore non avrà praticamente altro nelle orecchie, se si esclude il latinaccio delle messe e quel po’ di italiano delle prediche e della scuola elementare.
Per tutto il secolo scorso, da San Zenone la gente va via per cercar lavoro da altre parti del mondo. Molti sono cuochi o camerieri. Brera è conosciuto anche come gastronomo, ma ricordiamoci che dallo stesso paese vengono anche il padre di Gualtiero Marchesi e decine di chef sparsi per il pianeta. Oggi il comune ha cinquecento abitanti e tutta la terra è coltivata da una sola azienda agricola, condotta da un laureato, che produce essenzialmente cereali. Un tempo c’erano diverse altre produzioni e perfino filari di viti. Dove vengono su bene i cereali la vite stenta e per di più, in pianura, non prende mai abbastanza sole. Eppure da quell’uva si tirava fuori un vinello di forse otto o nove gradi, che la gente beveva perché la sola alternativa era l’acqua ferruginosa dei pozzi, potabile o meno che fosse.
In tavola, nel San Zenone di quando Gianni era bambino, arrivavano soprattutto il risotto o la polenta, con scarsi prodotti animali – latte, strutto, un po’ di burro, salami, rane, qualche pesce – e pochissime verdure. Nelle feste, e talora anche nelle semplici domeniche, la gastronomia s’impreziosiva qualche po’, mentre quando si ammazzava il maiale erano tre giorni di stravizi carnei che scatenavano la gotta nei contadini – prima di restituirli alla grigia normalità alimentare di buona parte dell’anno.
A tredici anni, Gianni fa conoscenza con una più grande patria, Milano. Si suppone che debba frequentare una scuola tecnica che si trova nel capoluogo, e lì già vive la sorella Alice, maestra elementare, di dodici anni più grande: abita in una viuzza intorno a piazza San Babila che sarà rasa al suolo da Piacentini, per fare della zona un centro città fascista che si rispetti. A Milano Gianni impara a parlare milanese e perfeziona l’italiano, necessario nelle aule scolastiche. Ma sopra tutto si dedica al gioco del football, tanto da avere pessimi risultati a scuola (mentre come boy del Milan è considerato una promessa). Quando deve punirlo, e per la troppa passione calcistica in effetti lo punisce, la vice madre Alice si toglie una scarpa e la usa per colpirlo: chi di piede ferisce, di scarpa perisce. Ma per convincerlo a cambiare strada ci vuol altro. Quando Gianni si fa bocciare, deve scomodarsi il padre, che gli fa abbandonare il fòlber (football) a calci nel sedere, dura legge del contrappasso.
Poiché è ormai evidente che a Milano è incontrollabile, Gianni viene spostato a Pavia, al liceo scientifico. Qui i suoi risultati scolastici migliorano parecchio, anche se l’unica pagella rimasta in nostro possesso mostra l’insufficienza in mistica fascista, appena sei in italiano e… l’esonero dall’educazione fisica! In realtà Gianni è abbastanza atletico, e al calcio (ormai hobby e non più impegno agonistico) affianca il pugilato, «per potersi fare la doccia», come spiegherà più tardi. Comincia anche a scrivere: cronache di calcio, per la Provincia pavese e per il Guerin Sportivo, in cui viene introdotto dal falstaffiano Bruno Slawitz.
Lo scoppio della guerra lo coglie all’università, a Scienze politiche, dove sgobba su Gobineau e s’innamora di Tommaso Moro, sul quale farà poi la tesi. Scienze politiche a Pavia è in quel periodo una facoltà seria, dove la rigida uniformità di pensiero che prevale nell’Italia fascista lascia il passo a una maggiore ampiezza di idee, perché di lì dovranno uscire i quadri del regime. Ma nel 1940 gli studenti devono trasformarsi in ufficiali, e tale sorte deve condividere lo studente Giovanni Luigi Brera di Carlo.
Il quale sperimenta un accesso di «angoscia del domani». Ho sentito spesso questa espressione, e per un pezzo ho creduto che l’avesse coniata lui. Invece esiste in francese una angoisse du demain, che rimanda a un attanagliamento di viscere abbastanza diffuso, allora come oggi. Per un ragazzo di estrazione popolare, nella depressione dell’anteguerra e poi nelle difficoltà del conflitto, la vita facilmente si presentava insicura e sicuramente si presentava difficile. Gianni reagirà a questa angoscia del tempo di guerra con una di quelle azioni sconsiderate che nella sua vita hanno segnato le svolte per il meglio.
Ai suoi occhi, il problema si enuncia così: le guerre finiscono ma ci mettono il loro tempo (agh metten al sò temp); e in queste more i direttori dei giornali per cui collaborava come giornalista avrebbero avuto il tempo di scordarsi di lui. Soluzione: fare il corrispondente di guerra. Ma la fanteria, in cui è tenente, è il meno romantico dei corpi. Meglio il paracadutismo, che in quegli anni desta ammirazione per le prodezze dei ragazzi di Von Student in Olanda e a Creta. Sicché Gianni si porta volontario e fila al campo di addestramento di Tarquinia.
«Cadere dalle nuvole / senz’essere stupito / che privilegio raro / che rara distinzion!» cantavano allora i paracadutisti. Per conquistarsi quel privilegio occorre del coraggio. Gianni il coraggio ce l’ha e sceglie di rischiare. Va detto che il suo ex reparto non è che non rischiasse proprio nulla: la sua divisione di fanteria parte senza Gianni per la Jugoslavia, dove non avrà vita facile, e per molti soldati e ufficiali non ci sarà più vita del tutto. Anche alla divisione Folgore Gianni avrà fortuna: le cose gli vanno proprio come aveva previsto, ottiene collaborazioni prestigiose per Il Resto del Carlino e Il Popolo d’Italia, tanto da essere poi tenuto a Roma, all’ufficio stampa e propaganda del corpo dei paracadutisti. La Folgore invece viene assegnata al fronte libico e viene schierata a El Alamein: di seimila paracadutisti saranno alla fine catturati dagli inglesi solo poche centinaia.
Dopo l’armistizio Gianni ha esperienze non lineari, ma alla fine scappa in Svizzera, e da lì ritorna in tempo per arruolarsi nelle forze partigiane che tengono la Repubblica dell’Ossola. Il 25 aprile 1945 arriva a Milano e in estate viene smobilitato.

L’Italia dei primi mesi dopo la Liberazione è un paese poverissimo ma pieno di speranza. La violenza è molto diffusa, sia quella politica che quella criminale, e tutto è da ricostruire; ma almeno le luci di sera sono accese, perché non ci sono più bombardamenti da temere, e piano piano si torna a mangiare (quasi) abbastanza e a vivere in pace la quotidianità.
Gianni Brera deve decidere che fare del suo avvenire. Ha qualche ambizione letteraria: ha tradotto Gobineau e Molière, per tre delle cui commedie scrive una lunga introduzione quando ancora saltella per le balze dell’Ossola con lo sten al collo e una macchina per scrivere in una valigetta; si cimenta in qualche saggio politico che non avrà la minima fortuna; e ha da parte anche una commedia radiofonica su Don Giovanni, più altri tentativi drammaturgici. Ma sa benissimo che di letteratura non si vive. Moscatelli gli offre la direzione di un quotidiano comunista a Novara; Gianni non so quanto ci pensi su, ma alla fine rifiuta perché «il povero l’ho fatto sin troppo». Bruno Roghi gli offre un posto alla Gazzetta dello Sport. In fondo, è quello che sempre ha voluto fare. Così accetta.
Sono anni difficili, ma come dice il proverbio anglosassone, ciò che non ti uccide ti rende più forte. Con la moglie, e a tratti la sorella Norina, Gianni occupa un bilocale di cinquanta metri quadri a Milano, nell’edificio dove abita il fratello Franco. Dormirà nei cassetti della sua casa, per cinquant’anni, un foglio di umile carta da bozza, dattiloscritto in pallido inchiostro blu, che riporta il menu del pranzo di Natale 1945. La pagina è intestata «Mansarde des Frères Bréra, Rue Catalani 43 – Milan», e questi sono i piatti: antipasto misto; ravioli asciutti e in brodo; bollito di manzo misto; arrosto di vitello; arrosto di pollo; dolci «misticamente assortiti»; frutta secca e fresca; caffè caffè (cioè vero caffè, non i surrogati del tempo di guerra). Contorni: insalatina; finocchi e carote al burro. Vini: Chianti; Brachetto 1938; Oltrepò; Cognac. Sigarette: nazionali ed estere. Un Natale opulento; ma, appunto, è Natale, non un giorno qualsiasi. Nei giorni normali il pasto serale è il caffelatte con un pezzo di pane: e anche a mezzogiorno si fa quel che si può.
Nell’agosto del 1946 viene un figlio, Carlo Maria Franco, che simbolicamente riporta la famiglia a una normalità da tempo di pace (un altro bambino, di nome Franco, era morto ad appena un mese e mezzo di età nel 1944, senza che Gianni neppure l’avesse potuto vedere). Intanto il referendum istituzionale di giugno ha tranciato un grosso nodo politico: il paese si avvia alla normalità sotto la stella della Repubblica. Gianni non segue molto da vicino la politica: è troppo occupato: lavora lunghe ore al giornale, fa un’intensa vita di relazione e occupa tutti i momenti rimasti ancora liberi alla macchina per scrivere, inseguendo i propri progetti letterari. Solo che la famiglia è cresciuta e c’è un maggior bisogno di denaro: manca addirittura l’armadio: il primo frigorifero e la prima lavatrice verranno solo due o tre anni dopo. I due stipendi che entrano (Rina continua a insegnare) non bastano proprio. Per tirare a casa qualche soldo di più Gianni vende racconti alle riviste femminili, che allora (e poi fino agli anni settanta circa) fungono da vivaio per gli aspiranti narratori.
Brera, quando pure pubblica, non ha certamente ancora il diritto di scrivere come gli pare (e per questo, credo, si firma con lambiccati pseudonimi come Gian del Po, Juan Brayda, Mario Padano, John Braida…). L’occhiuta e repressiva solerzia di un caposervizio o di un editor (che non si chiamava ancora così) tarpa ogni involo, iscoia ed isquatra. Né con la narrativa gli va meglio che al giornale. Linguaggio e modo di narrare, in quelle prime esperienze, sono del resto abbastanza antiquati. Con tutto questo, a volte si riescono già a intravedere i guizzi inventivi di ciò che sarà poi Gianni Brera.
Alla Gazzetta Brera deve occuparsi di atletica, argomento del quale non sa praticamente nulla («Ignoravo il nome di Consolini» scriverà un giorno a proposito di quegli inizi); ma è l’unico spiraglio per lavorare in redazione, e lui ci si butta sopra senza fare obiezioni. «Ho sopportato per un paio d’anni i sarcasmi degli atleti. Ho studiato tecnica atletica come per una tesi di laurea» racconterà. È per poter scrivere che inizia a documentarsi: legge di medicina sportiva, di tecniche di allenamento, di meccanica – le leve formate dai muscoli e dalle ossa, la distribuzione nel tempo del consumo di energia, l’efficacia della respirazione sono le variabili che spiegano il successo atletico. L’alimentazione e le caratteristiche razziali acquisiscono ai suoi occhi un’importanza primaria: c’è chi nasce con le gambe lunghe e chi basso di statura: nei 400 a ostacoli, bisogna stupirsi?, sarà sempre favorito il primo. Non si è razzisti a notare che in questa gara il tutsi trionfa del pigmeo, il montenegrino del tarchiato azteco. Ma a Brera del razzista daranno spesso e volentieri. «L’atletica è soprattutto bella perché, espressa dall’uomo con i soli mezzi che gli ha prodigato il buon Dio, esalta l’umana poesia dell’individuo in continua lotta per superarsi e migliorare» scrive in Atletica leggera.
Fra il 1945 e il 1949 Gianni fa alla Gazzetta esperienze interessanti. Non gli consentono spesso di occuparsi di calcio, ma riesce a mettere un piede nel ciclismo (che nella società italiana sarà superato in popolarità dal calcio solo agli inizi degli anni cinquanta) e lo spediscono anche all’estero, dove impara molto e consolida il suo pessimismo nei confronti del popolo italiano.
Il passaggio cruciale avviene al Tour de France del 1949. Brera lo segue come inviato e il primo giorno viene colto da una tremenda indigestione di banane, tanto forte che pensa addirittura di farsi ricoverare. Ma il suo senso del dovere glielo impedisce: deve seguire il Tour? seguirà il Tour. Gliene incoglie bene. Quel Tour riesce infatti miracoloso per lo sport italiano: lo vince Coppi, Bartali è secondo e Magni quarto. Le corrispondenze di Gianni sono così belle da far guadagnare alla Gazzetta duecentomila copie di vendita. Al suo ritorno a Milano il giovane giornalista viene individuato da due fazioni contrapposte per non essere né il direttore proposto da una né quello dell’altra: per ora mettiamo lì lui, poi si vedrà, si dicono. Prima del suo trentesimo compleanno, Brera si installa da condirettore nel più grande quotidiano italiano.

La guida della Gazzetta è probabilmente l’avvenimento cruciale della carriera di Brera. Per anni, dopo che l’avrà abbandonata, perverranno al suo indirizzo lettere intestate a «Gianni Brera – direttore Gazzetta», segno che il periodo in cui è alla testa della «rosea» è quello in cui i lettori decretano il suo successo come scrittore di cose sportive, e rimarrà molto a lungo nell’immaginario collettivo degli italiani. Il giovane giornalista accetta accanto a sé – e anzi esplicitamente vuole – come condirettore Giuseppe Ambrosini, gran teorico del ciclismo. A Brera resta il calcio, che era fin dal principio il suo vero obiettivo.
Ora, finalmente, l’obiettivo è raggiunto. Tenendo le redini del quotidiano sportivo, Brera è in grado di elaborare e di esprimere compiutamente, senza più doversi inquietare di piacere a capiservizio o caporedattori, la sua concezione difensivista del calcio. Questa idea, tipicamente sua, deve essere già ben formata al momento in cui Brera prende la direzione del giornale, ma va da sé che solo dalla plancia di comando si ha il diritto di decidere la rotta da seguire. Quasi lo stesso si può dire dello stile. Il direttore scrive come vuole; e gli altri, uguale: nel senso che anche loro devono scrivere come vuole il direttore.
Il gioco del calcio è di squadra, quindi non conta solo, né conta principalmente, quello che fa il singolo, quanto sopra tutto la gestione collettiva del match. L’esercito necessita di un ordine, di una strategia, di una tattica. Una squadra di calcio anche. Nella tattica calcistica, sostiene Brera, il ruolo primario appartiene alla difesa. Nel suo difensivismo confluiscono certamente diverse esperienze: da quella del centravanti a quella del partigiano: il contropiede del gioco all’italiana assomiglia un po’ al «mordi e fuggi» della tattica garibaldina della guerriglia, in cui se il nemico ti attacca ti ritiri, per poi colpirlo quando torna indietro e ti espone le chiappe di una retroguardia. A tutto ciò si aggiungono le conoscenze tecniche e fisiologiche maturate nello studio dell’atletica: se manca il vigore, ragiona Brera, è impossibile puntare tutto sull’attacco: la Prima guerra mondiale, come icasticamente dirà più tardi, non si sarebbe potuta vincere semplicemente decidendo di marciare senz’altro su Vienna.
Nel maggio del 1949 il Grande Torino si schianta sulle colline di Superga insieme all’aereo su cui viaggiava. L’incidente commuove tutta l’Italia e in qualche modo, una volta evaporata la commozione, dà anche il via alla discussione sulle tattiche calcistiche. Il Grande Torino aveva giocato sulla base del modulo WM, una recente importazione dall’Inghilterra. Con questo modulo una squadra eccellente come quella granata aveva raccolto molte vittorie, prima di essere sconfitta dalla tragedia. Ma alle vittorie del WM torinese contro altre squadre italiane non aveva fatto riscontro alcuna analoga vittoria della nazionale tricolore contro gli inglesi, che usavano lo stesso modulo.
Negli anni trenta a dominare la dottrina calcistica erano appunto gli inglesi, che praticavano un gioco veloce e acrobatico, fondato su battute ampie e vigorose, marcatura a uomo ma ampi spazi agli attaccanti avversari. Il modulo si basava su un attacco molto vivace, su palle spessissimo alte (che richiedevano un controllo quasi funambolico) e sulla pressoché completa assenza di ricami alla sudamericana, che sui terreni bagnati del Regno Unito e...

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