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La schiavitù è uno stato di guerra
Informazioni su questo libro
John Brown (Torrington, 9 maggio 1800 – Charles Town, 2 dicembre 1859) è stato un attivista fautore dell'Abolizionismo negli Stati Uniti d'America, dedito alla causa dell'Underground Railroad, che credeva e sosteneva l'insurrezione armata come l'unico modo per rovesciare l'istituzione della schiavitù negli Stati Uniti d'America..
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Informazioni
Argomento
StoriaCategoria
Storia nordamericanauniversale dei poveri

© 2019 Edizioni dell’asino
Isbn 978-88-6357-273-5
© 1962 Il saggiatore
Prima edizione: marzo 1962.
In copertina foto di schiavi gullah
nella piantagione di Boone Hall, Carolina del Sud.
Distribuzione Messaggerie libri.
Progetto grafico orecchio acerbo.
Questo libro è stampato su carta
conforme ai principi Fsc.
L’editore rimane disponibile ad assolvere
i propri impegni nei confronti dei titolari di eventuali diritti.
In redazione:
Goffredo Fofi, Sara Giannesi, Giorgio Laurenti,
Davide Minotti, Ilaria Pittiglio e Nicola Villa.
Stampato a San Giuliano Milanese (MI) da Geca.
La schiavitù è uno stato di guerra
Lettere, dichiarazioni, testimonianze
di John Brown
a cura di Bruno Maffi

John Brown nel 1856

Prefazione I Bruno Maffi
Non si può certo affermare che la “grande storiografia” anglosassone sia, non diciamo, tenera, ma neppur generosa, con John Brown. A oltre un secolo dalla sua esecuzione a Charlestown, i negri possono ancora intonare le note dell’inno:
John Brown’s body lies muldering in the grave,
John Brow’s soul thru’ the world is marching on,
e qualche studioso raccoglierne amorosamente i cimeli o rievocarne diligentemente le imprese;1 ma “l’alta cultura” in genere lo dipinge, nella migliore delle ipotesi, come un pittoresco avventuriero del West; in un’ipotesi meno benevola, come uno dei mille aspiranti-coloni che dell’antischiavismo fecero un piedestallo ai loro interessi di border-men, o che rivestirono di un esaltato manto religioso la sete di conquista violenta di un podere, quando non dilapidarono i fondi messi a loro disposizione da abolizionisti e filantropi; nell’ipotesi peggiore, come un pericoloso caposcarico con forti venature di follia ereditaria, che occupa un posto nella storia dell’Ottocento americano e quindi anche mondiale solo per aver precipitato coi suoi colpi di testa lo scoppio di una guerra “non necessaria”. Per distruggere un mito se ne crea un altro: si abbatte l’angelo e al suo posto si erige un diavolo dal piede forcuto.
L’accanirsi contro il “mito”, salvo a ristabilirlo capovolto, non è un fatto nuovo nella ricostruzione “scientifica” del passato, in specie di quell’Ottocento che di figure simili abbonda: figure di spregiatori della legge e del costume, della diplomazia pacifica e del realismo intelligente (o codardo), che servirono bensì di lievito e impulso alle rivoluzioni politiche e sociali e alle guerre “legittime”, ma che la grassa borghesia vittoriosa si affrettò a buttare da parte non appena ebbero cessato di contribuire al suo – questo sì “necessario” – trionfo, e di cui, anche a distanza di molti decenni, non ama veder risorgere lo spettro. In comune con gli uomini della frontiera, John Brown ha senza dubbio il gusto dell’avventura spericolata e un irresistibile prurito alle mani – ma non più di tanti contemporanei e un po’ come, fatte le debite proporzioni, il Garibaldi della Pampa argentina. Nel suo odio della schiavitù negra si fondevano certo una quantità di motivi discordanti; ma è quello che si può dire delle più celebrate figure della Guerra civile, le quali, fra l’altro, scesero in lizza – per lo più tardivamente – per la causa dei pochi, di quelli che poi, a guerra finita e a ricostruzione iniziata, si avventarono sulle floride terre del Sud, del Nord e dell’Ovest come la settima piaga d’Egitto, senza aver mai combattuto, avendo lasciato combattere i “paranoici”, mentre l’Old John lottò, senza risparmio né rimorsi, per un insieme di cause ch’erano quelle dell’uomo comune in generale, di pelle sia nera che bianca. E concediamogli pure l’esaltazione religiosa e un rametto di follia: ma, quanto alla prima, sfidiamo chiunque a non trovarla in tutti i rappresentanti qualificati dell’epoca, Lincoln compreso (per tacere dei suoi successori alla White House), e a dimostrare che gli accenti biblici, mistici e perfino apocalittici erano sinceri e genuini in questi e artificiosi in quello; circa il secondo – a parte ogni riserva di fatto – non occorre il rinvio a Erasmo per rammentare che di “folli” è lastricata la via della storia che cammina, e di “savi” quella della storia che batte il passo o retrocede.
Guerra “non necessaria”, dicono i sapienti nel cui schema mentale la storia si inquadra alla sola condizione di scorrere sui pacifici binari delle soluzioni concordate, dell’equilibrio mercantile fra domanda ed offerta. Ma non così la vissero e la sentirono i contemporanei, e non diciamo soltanto i poeti e i prosatori – da Whittier a Whitman, da Emerson a Thoreau, da Hawthorne a Melville, per citarne solo alcuni – ai quali un rametto di follia, sia pure benigna, si concede sempre insieme alle foglie di alloro; bensì le figure di primo piano nell’Olimpo politico, parlamentare e militare, del Nord e del Sud negli anni ’40, ’50 e ’60.
Anche se non condotta a regola d’arte da politici e militari autorizzati, diciamo così, dall’alta cultura, la guerra era in atto da molto tempo prima che gli eserciti di Grant e di Lee, di Abramo Lincoln e di Jefferson Davis si schierassero in campo: infuriava almeno da quando era apparso che una barriera non facile da abbattere divideva gli interessi economici, sociali e politici del Nord da quelli del Sud; da quando la grassa borghesia dei più evoluti Stati atlantici aveva chiesto e ottenuto (1824, 1828) la protezione doganale, e i liberistici (strani scherzi, Madama Libertà!) Stati del Sud – Carolina in testa – avevano risposto dichiarando nulli i deliberati del Congresso e minacciando, già allora, la separazione (e solo la formale promessa – più tardi non mantenuta dai whig – di una progressiva riduzione dei dazi di entrata delle merci li aveva momentaneamente placati); da quando, chiuso il ciclo popolare-radicale del jacksonismo (comunque vadano interpretati i disegni del tanto discusso Presidente), l’ago della bilancia politica era tornato a spostarsi verso il conservatorismo dei democratici (strani scherzi ancora!) filoschiavisti, rimettendo in forse la sopravvivenza di uno Stato centrale, i diritti non solo rivendicati dai negri ma posseduti dai bianchi “uomini comuni”, la libertà di accesso alle vergini terre dischiuse lungo una mobile ed elastica “frontiera”, l’indipendenza del colono medio e piccolo dal peso schiacciante della monocoltura, e del cittadino in genere dal potere inappellabile dello sbirro e del giudice.
Guerra “non necessaria”? Ma già del 1819 sono le parole di James Tallmadge: “Se l’Unione deve dissolversi, così sia! Se deve scoppiare la Guerra civile che tanti minacciano, posso soltanto dire: che venga!, e appena del 1854-’57 i motti Impending Crisis e Revolution the only Remedy for Slavery, scelti da Hinton R. Helper e da Stephen S. Foster come titoli di libri largamente diffusi; mentre agli atta...
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