capitolo trentesimo
La banalità degli specialisti
Voglio chiudere in bellezza questa giornata, e voglio chiudere così anche questo libro. Che sarà il secondo e ultimo, dopo La fabbrica della cura mentale, perché non ho alcuna ambizione di diventare uno scrittore seriale a tema e, per dirla alla maniera di Leonardo Sciascia quando biasimava i professionisti dell’antimafia, non voglio certo diventare un professionista dell’antipsichiatria. La giornata è iniziata bene. Dopo una settimana di vacanza. Lontano dal reparto. Torno, in una splendida giornata di sole, anche se è l’8 gennaio. Dodici pazienti e… nessuno legato! Roba da buon umore. Al giro visita siamo solo in nove. I camici intendo. Lo conduce il direttore, per cui oggi è un giro visita meno manicomiale possibile, ma pur sempre rimane un giro visita ottocentesco.
Eppure, anche il malato più grave che abbiamo in reparto gliel’ha detto, poco prima: toglietevi i camici, che i camici vi allontanano da noi malati. E platealmente alcuni medici l’hanno tolto, il camice. Ed è proprio vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima è tragedia e la seconda è farsa, perché fu una tragedia quando gli psichiatri, per la prima volta, decisero di svestirsi del loro abito sacerdotale (Gorizia, anni Sessanta), ma la seconda volta, adesso, togliersi il camice per far contento il paziente, salvo poi rimetterselo prudentemente mezz’ora dopo il gesto democratico, la seconda volta è una farsa.
Oggi pomeriggio metto nel portatile Uno specialista, il docu-film di Eyal Sivan e Rony Brauman, sul processo di Eichmann a Gerusalemme. Titoli di testa. È il 1961. Lui si chiama Adolf. Le immagini sono quelle originali. È un film di montaggio. È il ritratto di un criminale moderno.
Eccolo, è di spalle, il procuratore lo presenta: signori, costui è un nemico del popolo, un assassino del genere umano, quest’uomo è nato uomo, eppure ha vissuto come una belva nella giungla. Ha commesso crimini orrendi, e chi li ha commessi non merita più di essere chiamato uomo.
Il criminale moderno adesso è di faccia, si pulisce gli occhiali, a prima vista pare un burocrate kafkiano, un burocrate un po’ ossessivo, soffia via la polvere dal tavolo, con modi un po’ ossessivi, direi, vuoi vedere, penso, che è solo un ometto un po’ ossessivo, zelante, che voleva solo eseguire bene i suoi compiti? Intanto fanno uscire uno spettatore che non la pensa così, perché grida che è un macellaio, e due guardie lo portano fuori dall’aula.
Il tenente colonnello Eichmann ha assunto la direzione dell’ufficio generale per l’emigrazione degli ebrei, informa un avvocato israeliano.
Eichmann, chiede un altro, è vero che il lavoro che lei ha svolto in Austria è quello che le ha dato più soddisfazioni?
E lui si alza in piedi come un burattino, e dice jawohl. Sì.
Poi dice che l’espulsione degli ebrei era un’emigrazione pianificata, e che si dispiace che non sia stata mantenuta fino alla fine, questa pianificazione controllata. E si rialza in piedi, il burattino, ogni dannata volta che risponde.
Emigrazione forzata, gli chiedono, che significa?
Significa accelerata, precisa il burocrate kafkiano.
E lei, agli occhi dei suoi superiori, era uno specialista in queste emigrazioni forzate?
Sì, dice alzandosi in piedi il burattino kafkiano, ma l’emigrazione forzata è una questione molto complicata. E bisogna conoscerla bene per ottenere risultati.
È per questo che veniva soprannominato lo specialista?
Sì, è per questo, perché avevo acquisito una notevole esperienza in materia. Certo, dice, io all’inizio volevo aiutare gli ebrei ad avere una loro terra, ma ero solo un soldato, senza potere, e c’era la guerra, allora mi sono limitato a eseguire gli ordini.
Seconda udienza: un testimone. Un uomo sui trentacinque anni. Della sua famiglia, madre padre e numerosi fratelli, è sopravvissuto solo lui. Only myself, dice, in inglese. Dice: io avevo ventuno anni e fui assegnato a un gruppo che doveva scavare fosse, ne scavammo una idonea a contenere cinquemila persone, ne furono giustiziate là dentro un migliaio, o millecinquecento. Le fecero spogliare e a gruppi di tre-quattrocento le fecero dirigere verso le fosse e là furono giustiziate. Alcuni, però, non erano morti, erano solo feriti, eppure furono sotterrati vivi. Ci ordinarono di sotterrarli, molti gridavano, erano ancora vivi, poi passarono i camion a gettarci sopra la calce viva.
Eichmann: ma io ricevevo degli ordini, che la gente morisse o no gli ordini dovevano essere eseguiti, era una procedura amministrativa, e io ne ero responsabile.
Ora proiettano un film, le stesse immagini proiettate al processo di Norimberga. Treni di deportazione, magazzini con accatastati occhiali, dentiere, e poi cadaveri ammucchiati prima di essere eliminati, un suicida è rimasto attaccato come una mosca al recinto elettrificato, persone nude a Mauthausen, poi, finito il film, un sopravvissuto racconta come fu separato dalla madre appena giunto nel lager.
Signor Eichmann, che limitazioni ebbe passando dall’occuparsi dell’emigrazione all’occuparsi dell’evacuazione?
Be’, ero esperto di trasporti.
Trasporti per lo sterminio, precisa l’accusatore.
È falso. Io non sapevo se il trasporto avrebbe portato queste persone allo sterminio oppure no. I vagoni bastavano per settecento e i gruppi di ebrei erano di mille. Allora, dice l’ometto Adolf, abbiamo sistemato i loro bagagli nei treni merci, di modo che i posti da settecento diventassero mille.
Il pubblico giustamente mormora, al cospetto di tanta mistificazione, ma il giudice ordina al pubblico di tenersi i suoi sentimenti per sé.
Ora l’ometto calvo e miope e ossessivo si avvicina a una cartina dell’Europa, per mostrare i territori che il Reich aveva annesso. Ha una bacchetta, in mano. È insopportabilmente ridicolo.
Un testimone parla in francese. Dice che in un campo di sterminio, in due mesi, si suicidarono un centinaio di camerati. I suicidi, dice, erano disapprovati. Ora descrive il trasporto dei bambini ebrei ad Auschwitz. Arrivavano in autobus, un autobus dietro l’altro, e scendevano in fretta, completamente disorientati. I più grandi tenevano i più piccoli per mano. Venivano portati in stanze con pagliericci per terra, sporchi, pieni di cimici. Al mattino venivano svegliati alle cinque. Non volevano scendere in cortile. Li andavano a prendere i poliziotti, di forza, tra le urla.
Eichmann: io sottoposi la questione ai miei superiori, ricevetti degli ordini, eseguii.
E i metodi per uccidere di cui avete parlato?
Non ricordo, io ero impegnato a redigere il verbale.
Poi gli fanno ascoltare una registrazione, in cui confessa candidamente di essersi sentito come Ponzio Pilato quando una volta, non ricorda dove, tutti i papi del Reich presero le loro tremende decisioni cui a lui non restava che obbedire. Solo obbedire. Poi aggiunge: lavarsi le mani era come un fatto introspettivo, sapevo d’aver fatto tutto ciò che potevo, insomma, ero solo uno strumento nelle mani di forze superiori, solo uno strumento. E alla successiva domanda del giudice, fa un’espressione tra la stolidità e lo smarrimento. L’espressione di un burattino.
Ora un testimone, dopo aver giurato, racconta che da bambino arrivò a Birkenau, con un numero di matricola piuttosto basso, 37017, era incaricato di estrarre i corpi incastrati, ammassati, centocinquanta per vagone, che arrivav...