capitolo secondo
Autori e opere
I registi del no
Uno studioso serio, Santiago Juan-Navarro, che insegna in Florida e si è occupato di Cortázar, di letteratura dell’utopia e del post-moderno, ha stilato un lunghissimo elenco di film e documentari sul tema Anarchism and Film, recuperabile in rete, ed esiste perfino una rivista californiana, non meno accademica, «Arena», che ha dedicato un numero (e forse più) a Anarchist Film and Video… Nell’elenco di Juan-Navarro sono registrati tutti i documentari e i film «di parte anarchica», e una gran qualità di film che si possono definire anarchici solo genericamente. Un lavoro ottimo, ma, come i testi di «Arena», è così specialistico e minuzioso che finisce per spaventare chi ha voglia di ragionare sulla presenza di un filone di ispirazione latamente anarchica nella storia del cinema, sia in autori più o meno coscienti di questa appartenenza o affinità o simpatia, sia in autori che vengono decisamente da altrove. Troppi titoli, troppa generosità nel far diventare anarchici registi dalle origini e dalle ideologie più disparate. O troppe specifiche precisazioni storiche, catalogazioni che non escludono titoli minori e minimi prodotti in particolari momenti della storia sociale del Novecento, di origine dichiaratamente anarchica ma interessanti solo come documento. Eppure l’elenco di Juan-Navarro è stimolante e curioso anche perché ascrive entusiasticamente all’anarchismo titoli inaspettati, discutibili… L’elenco si ferma ai primi anni Novanta dello scorso secolo; segnalo due aggiunte, che danno un’idea dell’uso che della parola «anarchia» viene fatto dalla feccia dello spettacolo (e del giornalismo), due titoli recenti di filmacci che, come si dice, fanno vomitare, e che si servono ignobilmente della parola «anarchia»: Anarchia. La notte del giudizio di tale James Del Monaco, e Sons of Anarchy. Fine della corsa di tale Karl Sutter, ennesimo derivato televisivo sul tema del Selvaggio con Marlon Brando.
Il sistema dello spettacolo fa, come si sa, polpette di tutto. D’altronde la parola «anarchia» è stata usata da due secoli come sinonimo di (seguo lo Zanichelli) mancanza di governo, sovversivismo, nichilismo, confusione, disordine, babilonia, disorganizzazione. Tra i suoi contrari: disciplina, dittatura, conformismo… Ma per fortuna anche armonia, democrazia. Ma davvero il pensiero anarchico esclude l’aspirazione all’armonia o a una democrazia reale? Ed esclude l’idea dell’autodisciplina o di una disciplina di gruppo liberamente definita e accettata dai suoi membri? (Un ricordo personale: quando nel 1956 Danilo Dolci, nel processo che venne intentato a lui e ai suoi sodali per uno «sciopero alla rovescia», si difese dicendo, da ottimo praticante della disobbedienza civile, «io non sono un anarchico», fu redarguito da Armando Borghi per il distorto uso della parola e riconobbe onestamente il suo torto). La necessità di ridefinire i termini basilari delle nostre convinzioni è assoluta, visti gli usi che ne vengono fatti.
Non seguirò né la strada della genericità né quella della rigidità nell’individuare le istanze anarchiche nel cinema che ho visto nel corso di una vita, e non sarò fedele al principio secondo il quale è anarchico chi dichiara ufficialmente di esserlo (e sì, ci sono registi che lo rivendicano, molto velleitari, ma i cui film valgono poco o niente: di sedicenti anarchici è pieno oggi il pianeta, una moda tra le tante, provvisoria e assolutoria). Nella nostra rapida carrellata si parlerà rapidamente di due tipi di registi nelle cui opere (anche se poche tra le tante che alcuni di loro hanno diretto) ci sembra di cogliere una visione del mondo e delle cose fortemente critica nei confronti del mondo così com’è, un rifiuto o una proposta, un no o un sì. Di fatto, sono queste le due tendenze da esplorare, quella di chi crede nella possibilità di un mondo migliore, liberato, libero, e quella di chi dispera, e ne denuncia tutta l’ingiustizia, tutto il dolore, attribuendone le cause sia alla condizione umana che alla società che l’uomo si è dato offrendo spazio ai più arroganti e determinati e cinici tra i suoi membri.
Prima di tutti, Charlot
Ai due estremi di questa biforcazione io vedo due registi francesi, nati a poco tempo di distanza l’uno dall’altro, Jean Vigo (1905) e Robert Bresson (1907), ma morti il primo a 29 anni, nel 1934, e il secondo sul finire del secolo, a 92 anni, nel 1999. Ma prima di loro, antesignano di Vigo con la differenza che non era affatto anarchico nella vita professionale, nonostante il suo coraggio all’epoca della caccia alle streghe, sta Charles Chaplin, o meglio la sua creazione, Charlot. Di recente, un giovane filosofo francese di quelli meno superflui ancorché parigino, Guillaume Le Blanc, ha scritto che «Charlot rimette in questione tutte le condivisioni sociali tra il grande e il piccolo, il centro e la periferia, il dentro e il fuori, il normale e il patologico: bisogna veramente vivere lavorando? cosa significa essere innamorati? ed essere padre? siamo tenuti a essere cittadini patrioti?». Charlot contesta «il mondo comune per renderlo effettivamente più comune, più condivisibile, per reinventare la democrazia. Non è forse la forza ultima di Chaplin e del suo personaggio che ci allontana dal nichilismo che sembra di nuovo incombere sulla nostra epoca?».
L’opera di Chaplin è troppo nota perché ci sia bisogno di ricordarla qui, ma quali sono i suoi film che risentono maggiormente di un pensiero anarchico? Direi tutta o quasi l’opera del muto, con le vette del Pellegrino, del Monello, del Circo (e sarebbero da esplorare le tante opere dedicate al mondo del circo come metafora di libertà, le cui regole non sono quelle della società «normale») e, con l’accettazione controvoglia del sonoro, Tempi moderni e Monsieur Verdoux, mentre Un re a New York, pur essendo una dichiarazione di efferata ripulsa dell’american way of life, manca della radicalità ideologica dei due precedenti capolavori, il primo che affronta di petto la società industriale e le sue aberrazioni (la condizione operaia), da cui Charlot e «la monella» fuggono verso un mondo più sano che è però tutto da inventare o da reinventare, e il secondo che dice l’orrore per la carneficina della seconda guerra mondiale, orrida impresa dei potenti di più nazioni, comparandolo alle soluzioni criminali di un individuo costretto dalla necessità. Ripeto: grande cinema anarchico di un regista molto capitalista.
Nel muto e nel sonoro, Chaplin ha avuto tuttavia qualche rivale nel campo del comico più attento all’insensatezza della società (e del genere umano), come aggressione all’ordine esistente, ma non proposta di un ordine altro: una critica che dal sociale si spinge fino al metafisico e al paradosso, nei geniali corti di Stan Laurel e Oliver Hardy e nei fratelli Marx distruttori di ogni quiete ma soprattutto della quiete borghese, su fino ai loro ultimi grandi allievi, il regista Frank Tashlin e l’attore-regista Jerry Lewis, al nostro comico più grande, Totò, fino al gruppo inglese dei Monty Python e ai film di Terry Gilliam (Brazil, La leggenda del re pescatore, Paura e delirio a Las Vegas, L’esercito delle 12 scimmie) che dal gruppo nacque, e alle fantasie di Tim Burton (da Edward mani di forbice a Big Fish) e del più superficiale John Landis (da I Blues Brothers a Una poltrona per due), fino al francese, ben più rigoroso e geniale, Jacques Tati (da Mio zio a Trafic), un osservatore gentilmente spietato delle mutazioni nella società urbana e nella mentalità comune della modernità e dei suoi esiti nell’umano. Eversivi demolitori, i comici, di un ordine che non è solo sociale e storico, ma anche quello che imbriglia le nostre aspirazioni a volare… Naturalmente, non tutti hanno mantenuto le promesse di partenza, rivelando la fragilità delle loro visioni in conseguenza dei ricatti del mercato, e naturalmente non mancano comici di successo che sono filistei, codini, rimasticatori e consolatori del peggio, italiani compresi. E se Nanni Moretti non ha mai affondato il bisturi in niente che non fosse già molle, se Carlo Verdone si ferma sempre troppo presto, Roberto Benigni, che ci sembrava quello più geniale (Berlinguer ti voglio bene è un risultato unico), si è rivelato ben presto come il più conforme di tutti alle logiche scalfariane e veltroniane, ergo, senza troppo scavare, berlusconiane.
Jean Vigo, il regista del sì
Ma torniamo ai grandi. Dopo Chaplin, Vigo, che fu anarchico anche nella sua breve esistenza. La vitalità, la carica di simpatia e di entusiasmo di Jean Vigo erano anche un frutto dell’età, di un amore per la vita che gli anni e l’esperienza della storia e del mondo non hanno potuto fiaccare. Anche se Vigo ha visto la prima guerra mondiale, la sua carica vitale non ne ha risentito, ed egli ha preso dal mondo adulto solo la parte più generosa e aperta. A cominciare dal padre, l’anarchico Almereyda, morto misteriosamente in carcere, nel 1917, probabilmente per mano di qualche poliziotto, che nel suo lavoro di fondatore di giornali e giornalista si era concesso, pare, un’eccessiva spregiudicatezza nel muoversi dentro vicende politiche non proprio esemplari, condizionate dalla peggior borghesia del suo tempo. Su di lui le testimonianze divergono, come racconta bene il biografo dello sfortunato regista, Paulo Emílio Sales Gomes, che ha anche scritto una biografia di Almereyda. Quello su Vigo è uno dei più bei libri mai scritti su un regista (1957; l’edizione italiana, che mi vanto di aver fatto tradurre per Feltrinelli nel 1979, è oggi introvabile).
Luminosa, splendida figura di giovane davvero giovane, Jean Vigo ha amato la vita anche perché sapeva che la sua sarebbe durata poco, minata dalla tisi. Ha girato avventurosamente due documentari (À propos de Nice è un allegro e feroce ritratto di un mondo adulto, corrotto, borghese) e due film, il primo dei quali un mediometraggio, con molte difficoltà. Zero in condotta (1933) e L’Atalante (1934) subirono molte traversie, e il secondo in particolare venne sconciato al punto che con estrema fatica è stato possibile ricostituirne, negli anni Ottanta, la versione originale. Essi gli hanno dato la fama di autore «maledetto» e l’hanno fatto paragonare vuoi a Rimbaud vuoi al primo Céline. In realtà, in un’opera irripetibile che acquista grazia dalle sue stesse mancanze tecniche, egli ha saputo unire alle suggestioni di un’epoca, le culturali e le politiche in lui difficilmente districabili, una tensione personale ancora nel suo primo e geniale affermarsi. Nel 1929 c’era stata la Grande crisi, e il 193...