capitolo terzo
Politica e cittadinanza
Una politica municipalista
Sono molti i problemi che si pongono a chi cerca di delineare le caratteristiche di un intervento a scala municipale, ma al contempo sono considerevoli le possibilità di immaginare nuove forme di azione politica che recuperino il concetto classico di cittadinanza e le sue valenze partecipative.
In un periodo in cui aumenta il potere degli Stati-nazione, in cui l’amministrazione, la proprietà, la produzione, le burocrazie e i flussi di potere e di capitale tendono alla centralizzazione, è possibile auspicare una società fondata su opzioni localiste, a base municipale, senza sembrare degli inguaribili utopisti? Questa visione decentralista e partecipativa è assolutamente incompatibile con la tendenza alla massificazione nella sfera pubblica? La nozione di comunità a scala umana non sarà una suggestione atavica di stampo reazionario che si rifà al mondo pre-moderno (tipo la «comunità popolare» del nazismo tedesco)? E chi la propone, come il sottoscritto, intende con ciò rifiutare tutte le conquiste tecnologiche realizzate dalle diverse rivoluzioni industriali che hanno fatto seguito alla prima, due secoli or sono? E ancora, può una «società moderna» essere governata su base locale in un’epoca in cui il potere centralizzato sembra una scelta irreversibile?
A queste domande di carattere teorico posso aggiungerne molte altre di carattere pratico. Come è possibile coordinare delle assemblee locali di cittadini per trattare questioni quali il trasporto ferroviario, la manutenzione delle strade, il rifornimento di beni e risorse provenienti da aree lontane? Come è possibile passare da un’economia basata sull’etica degli affari (ivi compresa la sua controparte plebea: l’etica del lavoro) a una guidata da un’etica basata sull’auto-realizzazione all’interno dell’attività produttiva? Come possiamo mutare gli attuali strumenti di governo quali le costituzioni nazionali e gli statuti comunali per adeguarci a un sistema di autogoverno basato sull’autonomia municipale? Come possiamo ristrutturare un’economia di mercato orientata al profitto e basata su una tecnologia centralizzata, tramutandola in un’economia morale orientata all’essere umano e basata su una tecnologia alternativa decentrata? E inoltre, come possono tutte queste visioni confluire all’interno di una società ecologica che cerca una relazione equilibrata con il mondo naturale e che vuole affrancarsi dalla gerarchia sociale, dal dominio classista e sessista, e dall’omogeneizzazione culturale?
Fornire una mappa dettagliata, dal punto di vista economico e istituzionale, di come dovrebbe essere questa futura società significa rifarsi a un’interpretazione pseudo-ecologica del futuro che contraddice uno dei precetti fondamentali dell’ecologia sociale: l’unità nella diversità. La convinzione ecologica che ogni comunità umana (così come ogni individuo) sia squisitamente unica attraversa tutte queste riflessioni.
Le ricette dettagliate che si prefiggono di risolvere ogni problema dinanzi al quale potrebbe trovarsi ogni ipotetica comunità decentrata non hanno nulla a che fare con le idee ecologiche. L’ecologia sociale nega con forza che tutti i nostri problemi sociali siano così universali, o meglio globali (per usare un gergo alla moda presso certo ambientalismo), che «agire localmente» risulti privo di senso. Viceversa, il localismo deve appunto sviluppare una particolare sensibilità nei confronti della specificità e dell’unicità dei luoghi, un vero e proprio senso del luogo, una sorta di lealtà verso il territorio in cui viviamo.
La concezione secondo cui le comunità decentrate sono una sorta di «atavismo» pre-moderno, o meglio anti-moderno, riflette l’incapacità di riconoscere che una comunità organica non deve necessariamente essere un «organismo», in cui le componenti individuali sono subordinate all’insieme collettivo, e rimanda a una concezione dell’individualismo che confonde individualità con egoismo. La società di mercato, ossessionata dall’attenzione verso gli oggetti che chiama merci e dalla rozza monetizzazione di tutti gli aspetti della vita, non ha mai prodotto autentiche individualità, a meno che non si vogliano spacciare per tali qualche industriale d’arrembaggio o qualche commerciante da rapina. Anche se qualunque tentativo di delineare una società ecologica partendo da una comunità libera, autonoma e organica (organica tanto nel rispettare la flora e la fauna quanto nell’incoraggiare la solidarietà umana e l’aiuto reciproco) corre sempre il rischio di farla diventare una «comunità popolare» nel senso campanilistico e addirittura fascista della definizione, essa rimane tuttavia il terreno più fertile per lo sviluppo di personalità altamente consapevoli e creative. Tutto all’opposto, il nazismo, con il suo cianciare sull’auspicabilità di una Volksgemeinschaft germanica, svendette il contenuto utopico di questa aspirazione popolare al localismo comunitario in nome di un «principio di leadership» con il quale subordinò completamente il localismo al centralismo, la comunità alla nazione, il conservatorismo tecnologico all’innovazione industriale, particolarmente quella finalizzata alla progettazione bellica e ai metodi di sorveglianza politica.
Non c’è nulla di «nostalgico» o «innovativo» nel tentativo dell’umanità di armonizzare il collettivo con l’individuale. L’impulso a realizzare questi scopi complementari (soprattutto in tempi come i nostri, in cui entrambi rischiano una rapida dissoluzione) è una costante ricerca umana che si è espressa sia in ambito religioso che nel radicalismo secolare, sia negli esperimenti utopici che nella vita cittadina di quartiere, sia nei gruppi etnici chiusi che nei conglomerati urbani cosmopoliti. Solo una sedimentata consapevolezza ha permesso alla nozione di comunità e di individualità di non scivolare verso il campanilismo da una parte o verso l’atomismo dall’altra. È solo la coscienza, e non altro, che in ultima istanza determinerà se l’umanità sarà in grado di raggiungere un senso pieno della dimensione collettiva senza nulla sacrificare a un senso pieno dell’individualità. Una politica creativa senza una cittadinanza creativa è impossibile tanto quanto una cittadinanza creativa senza una politica creativa. Ogni aspettativa che una formula politica (o un insieme di istituzioni democratiche) possa in sé cautelarci da una qualsiasi degenerazione totalitaria è mal riposta. Una consapevolezza vigile, aiutata dalla conoscenza e da un senso di umana solidarietà, è tutto quello che possediamo per contrastare una «regressione» autoritaria da un lato e un «progresso» altrettanto autoritario dall’altro.
Un nuovo corpo politico
Gli sforzi per ricostruire una politica autentica – non un ennesimo mosaico di tecniche statuali – implicano una rinascita del corpo politico stesso, ovvero una politica intesa come recupero della cittadinanza e dell’educazione civica. Questo tipo di politica ha una forma di sviluppo quasi cellulare, un processo di proliferazione e differenziazione organica simile a quello di un bambino nel corpo della madre. Assemblare una politica siffatta come si assemblano le varie parti di un’automobile – blocco motore, guarnizioni, cilindri, candele, ecc. – significa profanare il senso stesso della parola «politica», per non parlare del disprezzo mostrato nei riguardi del carico umano che questa macchina deve portare verso le cabine elettorali. Finché gli attuali innovatori sociali non abbandoneranno la concezione secondo cui il «processo politico» va inteso come mobilitazione invece che educazione, come espressione di leader carismatici invece che di cittadini attivi, come propugnatore di soluzioni contingenti invece che di visioni prospettiche cariche di senso etico, fino ad allora la politica, lungi dall’essere nuova, sarà la vecchia statualità autoritaria infiorata di mera retorica.
Un programma politico innovativo non può che essere un programma municipale, oppure non sarà né un programma di ricostruzione della società né una politica in qualunque senso effettivo del termine. La cellula vivente che costituisce l’unità primaria della vita politica è la municipalità ed è da questa che deve discendere ogni altra cosa: la confederazione, l’interdipendenza, la cittadinanza e la libertà. Non esiste alcun modo di mettere insieme una politica (vecchia o nuova) se non iniziando dalle sue componenti elementari: i villaggi, i paesi, i quartieri e le città, ovvero gli ambiti che costituiscono il livello più diretto di interdipendenza politica, l’unico livello immediatamente contiguo alla vita privata. È a questo livello che si può cominciare ad acquisire familiarità con i processi politici, processi che vanno ben oltre il voto e l’informazione. È a questo livello che diviene possibile oltrepassare il privato e la grettezza di una vita familiare celebrata per la sua separatezza, e così sperimentare quelle istituzioni pubbliche tese alla partecipazione e all’associazione. In breve, è a partire dalla municipalità che la popolazione può reinventare se stessa non più come agglomerato di monadi isolate, ma come corpo politico creativo in grado di ricostituire una vita civica vivace con proprie forme e contenuti. Comitati di isolato, assemblee, organizzazioni di quartiere, cooperative, gruppi civici di azione saranno la nuova arena pubblica e andranno ben al di là di fenomeni contingenti come manifestazioni, marce e comizi, garantendo una notevole stabilità ed efficacia. Ignorare tale irriducibile unità civica della vita politica significa giocare a scacchi senza scacchiera, perché è in questo ambito che si possono fare le mosse per giocare nel senso più diretto ed essenziale.
Un potere che non sia nelle mani della gente è un potere delegato allo Stato e, inversamente, ogni potere detenuto dalla gente è un potere strappato allo Stato. Dove c’è potere non può esistere alcun vuoto istituzionale: o è nelle mani della gente o è nelle mani dello Stato. Laddove esista una cogestione del potere, tale situazione è temporanea ed estremamente precaria: presto o tardi il controllo della società e del suo destino finirà verso la base, nelle mani della gente e delle comunità, oppure verso il vertice, nelle mani dei professionisti di Stato. Solo se l’intera struttura piramidale verrà disgregata, se la gerarchia verticale verrà sostituita dall’ecocomunità orizzontale, si eclisserà il principio del dominio, sostituito dal principio di complementarietà e dalla partecipazione.
È necessario, tuttavia, intendere il potere nella sua concretezza, nella sua solidità e tangibilità, e non solo a livello spirituale e psicologico. Ignorare il fatto che il potere è un fatto muscolare della vita significa scivolare in una dimensione illusoria, impalpabile, che non tiene conto della sua concreta influenza nel determinare il destino della società. Intendo dire che se la gente riconquista il potere dallo Stato è necessario deprofessionalizzare la gestione della società fin dove è possibile, cioè semplificare e rendere trasparente, chiara, accessibile e dunque gestibile dai comuni cittadini la maggior parte della cosa pubblica. Il concetto non è affatto inedito, anzi ha costituito per intere generazioni la base della pratica democratica ateniese, ed era talmente ben praticato che il meccanismo di base della democrazia nella polis era il sorteggio e non l’elezione.
Il potere è un fatto solido e tangibile anche perché va riportato alla sfera militare, in particolare all’inossidabile verità che il potere dello Stato, o del popolo, si fonda in ultima analisi sulla forza. Lo Stato detiene il potere solo se esercita il monopolio della violenza. Allo stesso modo, la gente detiene il potere se è armata, se ha creato proprie milizie di base per difendersi non solo da criminali o invasori, ma anche dal potere sempre invadente dello Stato. Anche in questo caso gli Ateniesi avevano ben capito quanto un esercito professionale fosse una minaccia per la libertà.
Una formazione civica che intenda creare una politica autentica, una cittadinanza capace e un’economia municipale sarebbe facilmente vulnerabile se non riuscisse a sostituire la polizia e l’esercito professionale con una milizia, ovvero una guardia civica composta di ronde, a rotazione, per scopi di vigilanza e una milizia cittadina ben addestrata per affrontare le minacce esterne alla libertà. La democrazia greca non sarebbe mai sopravvissuta ai ripetuti attacchi dell’aristocrazia senza la sua milizia di opliti, quei fanti che accorrevano alla chiamata con proprie armi e con ufficiali eletti. La tragica vicenda della conquistata supremazia degli Stati sulle municipalità autonome, o della na...