quattro
E pluribus unum.
Una critica dell’UnitÃ
Unità rimane la parola d’ordine,
da Parmenide a Russell.
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno,
Dialettica dell’illuminismo
Pour Eckhart, il s’ensuit qu’il faut laisser
les principes. Non pas les annuler,
mais ne plus y recourir simplement.
Reiner Schürmann, Des hégémomies brisées
Prologo
È universalmente noto il celebre passo del ix libro dell’Odissea in cui viene narrata l’avventura di Ulisse con il ciclope Polifemo. Completamente svenuto per l’abbondanza di vino somministratogli da Ulisse, Polifemo si risveglia accecato nell’unico occhio, emettendo urla di dolore e di rabbia che richiamano l’attenzione degli altri ciclopi, i quali accorrendo in soccorso gli chiedono chi sia la causa di tali urla e per cosa. «Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza», risponde Polifemo, e così rassicurati gli amici ciclopi se ne vanno non senza invitarlo a pregare gli dèi per il male che lo affligge senza altrui responsabilità .
L’antefatto scenico che giustifica la paradossale risposta di Polifemo rappresenta uno dei numerosi passaggi epici in cui si narra l’astuzia di Ulisse. Naufragato nell’isola dei ciclopi, viene di fatto catturato nell’antro di uno di essi, Polifemo appunto, che trasgredisce le usuali leggi di ospitalità tipiche della civiltà greca e comincia a divorare uno dopo l’altro alcuni suoi compagni di equipaggio. Cercando la via di fuga e meditando la vendetta, alla richiesta di rivelare il suo nome, Ulisse così si svela:
«Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo, lo dirò;
e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano madre e padre
e tutti quanti i miei compagni».
Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato:
«Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni;
gli altri prima;
questo sarà il dono ospitale»1.
Il passo evoca commenti di diversa natura, che spaziano tra gli altri dalla giusta punizione per aver infranto una legge fondamentale della civiltà greca, l’ospitalità sacra a Zeus, cifra di superiorità rispetto alle culture primitive cui appartenevano i ciclopi, al calembour linguistico (outis-metis) che testimonia la conoscenza da parte del Nome proprio Omero o della sua epoca rispetto al fondamento linguistico della specie umana, il cui cortocircuito avviato da Ulisse è ingestibile da una diversa specie quale rappresentavano i ciclopi cannibali, per finire al primato epistemico dell’occhio la cui cecità comporta la disfunzione comunicativa della parola in un’era anteriore alla centralità del logos2.
Forse è possibile azzardare un’ulteriore lettura di questo passo, di genere più prettamente filosofico-politico. Il gesto di Ulisse è un atto specificamente politico, un sabotaggio politico, che tuttavia non mira né a un rovesciamento di regime, né a una sostituzione della figura sovrana. L’attentato di Ulisse che priva Polifemo dell’unico occhio che tutto controlla e osserva, al centro del volto del ciclope come immagine epica e pre-visuale di ogni dispositivo panottico, non è teso ad abbattere il regime dei ciclopi né a sostituire Polifemo, bensì a sottrarsi alla sua cattura, alla sua presa dominante, letteralmente micidiale. La sottrazione politica difficilmente si integra nel codice politico che, da Aristotele in poi, legittima il nesso tra potere e politica solitamente attraverso un indice numerico pieno: Uno, Molti, Pochi (con le note derive patologiche introdotte da Aristotele per ogni corrispondenza).
Nella sottrazione, in gioco è proprio il codice della politica costruito da sempre sul suo nesso con il potere, mentre Omero mette in scena la sua decostruzione: l’indice numerico Nessuno destabilizza la comprensibilità del gesto politico, che pertanto non viene inteso in quanto tale poiché non corrisponde a nessun incrocio tra potere e politica. Nessuno sfugge al codice del potere, ma il suo successo deve essere immediatamente anestetizzato per venire relegato nell’angolo dell’impolitico, dell’impossibile politico: nessuno non può inaugurare un nesso dif/ferente tra politica e potere in cui la disgiunzione mostra la sua plausibilità sperimentale di riuscita, esattamente come narra il mito omerico.
Un’invenzione fatale
Solamente uno stile politico proteso al dominio dell’uomo sull’uomo può pensare come problema la pluralità effettuale dei membri di un consesso umano, con le loro volontà , passioni, interessi, da governare attraverso una strategia, posizionale e procedurale all’unisono, idonea a conferire a esso unità di corpo politico. Il dispositivo simbolico e performativo che gioca la trasposizione dei rispettivi aggettivi, da umano a politico, è la rappresentanza. In essa si instaura la frattura dualistica della società , già resa sostanza unitaria grazie all’egemonia di un immaginario politico dell’istituito, in governati e governanti, la cui divisione trova sforzo di ricomposizione dialettica nell’unità del corpo politico così dimidiato. Quel dispositivo simbolico occulta le tracce della propria performatività , in maniera da rendere natura seconda il peso della propria necessità : istituire un’auto-percezione del divenire-sociale di un consesso umano non in direzione della pensabilità del pluralismo istituente, bensì in direzione della gravità ontologica di un’unità istituita, cui dare il nome di politico.
Beninteso, lo squarcio di lettura qui appena aperto non intende affatto emarginare o sottovalutare altre prospettive sul dispositivo della rappresentanza, ugualmente rilevanti per la comprensione della politica3. Dalla più banale questione del rispecchiamento sociale a quella più cruciale del nesso di attivazione di presenza e assenza, dalle diverse tappe evolutive interne alla storia della filosofia politica, nell’intreccio di nomi propri e di ere ben specifiche, sino alla sempiterna radice iconica che qualifica la cultura dell’Occidente da Platone al primato del visuale dei giorni nostri, dalla decisiva rottura della modernità alla sua transvalutazione grammaticale nella teologia politica, la rappresentanza costituisce un inesorabile quadrillage concettuale da attraversare con prudenza e circospezione, in particolare in quei momenti in cui sembra che il suo dispositivo stia per collassare senza più rispondere alla funzione cruciale per la quale è stato letteralmente inventato.
Giacché, qualunque sia il modello prospettico adottato, di invenzione umana si tratta, da cogliere in quanto tale, trattenendo e restituendo le mosse e i vari contesti in cui si è giocato questo specifico dispositivo. Come peraltro ci insegna Weber, sono stati inizialmente i «principi», nella loro auto-percezione in quanto ceti privilegiati, a «liberare», per così dire, la rappresentatività vincolata e revocabile imponendo il divieto del mandato imperativo, grazie al quale il rappresentante acquista un primato sui rappresentati che pur lo eleggono, divenendo così loro «signore […] e non il loro servitore»4. Il target dell’unità del (corpo) politico è il banco di prova su cui decifrare le strategie di formazione e di funzionamento, ossia il suo ruolo sovrano.
Hofmann ha magistralmente illustrato le diverse fasi genealogiche attraverso le quali la rappresentanza si è declinata nella rappresentazione simbolica in segni di natura teologica. L’analisi è talmente poderosa e minuziosa che risulterebbe vana fatica ripercorrerla in pochi passaggi, meglio rinviare il lettore al testo. Qui interessa rilevare una notazione relativa alla mimesi teologica del dispositivo della rappresentanza in epoca cristiana, ossia un gesto concettuale di riproduzion...