V.
1. Essere con gli altri
Porta dentro di sé un avversario interno. Succede a molti,
succede spesso. Oggi però capisce di essergli inferiore,
di esserlo sempre stato, irrimediabilmente.
Dorme di pomeriggio, il giorno si sfascia, in televisione
guarda un programma dove vendono aspirabriciole;
pensa a questa forma di vita, alla vita
di qualcuno che vive vendendo aspirabriciole.
Una volta ho fatto una specie di escursione in campagna
fra persone che non conoscevo.
Non parlavamo di nulla, raccontavamo aneddoti,
descrivevamo i rapporti nei nostri
luoghi di lavoro, le immagini inconsce, i desideri di facciata.
Oppure ci assentavamo internamente e io guardavo il paesaggio
come un oggetto mobile, come una massa
di microeventi oltre il bulbo oculare.
Eppure a poco a poco (qualcuno raccontava
la storia di un neonato che scivola, rotola,
cade senza farsi male) qualcosa cresceva fra gli ego,
era una forma di indulgenza, una pellicola buona. Ho ripetuto
le idee insensate degli altri per stare sopra questa patina,
per mimetizzarmi, giustificarmi fino a sera.
Non ricordo chi siano, è un evento minore.
Si ripete sempre, poi dimentico.
L’avversario gli è superiore, lui lo sa, le giornate si sfasciano.
Lavorerà per non saperlo, costruirà
una pellicola dentro la quale regredire –
le parole e i gesti come segni asemici,
superfici o utensili, il tempo come distruzione,
futilità o salvezza. L’uomo raccoglie le briciole,
mette foga nel discorso, sembra contento.
2. Grattacielo
In una città americana grandina furiosamente, cerco riparo sotto un grattacielo, accanto a me c’è un bambino. Per qualche minuto non accade nulla, poi il soffitto comincia a abbassarsi; il bambino è piccolo e resta in piedi mentre io mi piego sempre di più, lo spazio si riduce. C’è un tempo vuoto, si allarga, diventa insostenibile. Vorrei uscire e tagliare la grandine, invece continuo a piegarmi e a rimanere qui, sotto un grattacielo che scende a poco a poco, sotto un soffitto che collassa – poi mi sveglio.
3. Eigentlich
Ciò che è sempre mio è addosso a quelli che mi siedono davanti, dentro vestiti fatti come i miei, nei gesti di questo secolo, nel mio linguaggio. I vagoni si fermano fra Bologna e il Policlinico. Io vi fronteggio pensando cose casuali, pezzi di infanzia, significanti puri; voi potete guardarmi mentre nulla mi appartiene. Eppure ciò che penso non uscirà da questa faccia, la mia vita impropria sarà mia per sempre. I New Order, nella cuffia, mimano un’adolescenza, quando le porte si aprono entra un odore di gomma e di freni. Sono quello che vedete.
4. Quattro superfici
Gli altri in quanto esseri esteriori,
superfici o corpi. Chi dice io invece non ha corpo,
vede soltanto le proprie mani, le guarda come protesi,
osserva gli altri mentre tengono la propria
vita interna dentro i volti,
scopre di avere un volto solo nelle foto.
È osceno essere esposto, essere una cosa – io, quest’auto,
la vetrina del barbiere, la busta
delle patatine sul marciapiede di via Gallia.
La seconda superficie è la percezione,
il modo in cui crea un piano di realtà semplificando.
A volte, in sogno, vedo le persone
senza la parete addominale, con gli organi aperti.
È un sogno, significa molto.
In questa poesia significa ciò che normalmente
resta impercepito, la meccanica del corpo, il tubo
di feci che portate dentro per esempio, la sorpresa
di quando la merda si mostra all’esterno come una sostanza aliena.
La terza superficie è il linguaggio,
le sue astrazioni, l’idea che possa esistere qualcosa
come ciò che i segni possa, esistere e qualcosa
cercano in questa frase di esprimere.
La quarta è l’immagine interna degli altri,
il loro peso immenso, il loro campo.
Agisco per voi, scrivo questa poesia per essere accolto,
divento libero solo quando morite internamente.
Il rimorchio sbanda contro la nostra auto fra Chiusi e Roma,
io lo osservo senza angoscia, è una specie
di sguardo puro, di cinematografia della mia morte. Ma Daniele
Balicco resta calmo, l’automobile passa, per qualche minuto
non parliamo, poi tornano gli aneddoti,
le biografie, quattro persone.
L’inglese ha un’espressione che mi piace molto,
small talk. Sono i discorsi di superficie,
le parole di contatto, ciò che Heidegger,
in Essere e tempo, chiama la chiacchiera, das Gerede. In italiano,
nella nostra lingua interna, la parola che usiamo più spesso
per indicare tutto questo è «cazzate».
Le opinioni su ciò che ignoriamo, i discorsi
che escono dai cellulari e entrano nei vagoni
in mezzo a tutti: i figli, un’infezione all’unghia, la Juventus,
i nemici privati che non conosciamo – gli altri
parlano di cazzate. Chi dice io fa eccezione, è l’unico
che esista veramente, è il soggetto.
Quando Daniele Balicco riprende il controllo siamo vivi,
parliamo di cazzate. Non aderisco a nulla, mi sembra
che non aderiate a nulla, siete la parte che manca
nel vostro mondo, siete un luogo inabitato.
5. Stevens
Il centro che cercava era uno stato d’animo
come il tempo quando schiarisce, nulla più.
È un’illusione essere stati vivi,
aver vissuto nelle case delle madri, sistemato noi stessi,
con i nostri movimenti, in una libertà d’aria.
Guarda la libertà di quarant’anni prima.
L’aria non c’è più. Le case stanno in piedi
ma sono rigide nel vuoto, le...