IV. Montale e la poesia dell’esistenzialismo storico
1. L’antifascismo e le premonizioni della guerra. Cesare Pavese.
Secondo un luogo comune a molta critica degli anni Cinquanta, la lacerazione inferta alla società italiana dalla guerra fascista e da quella civile avrebbe indotto mutamenti più nei contenuti e nella tematica della poesia e della letteratura che nelle sue forme. Quasi dieci anni dopo la fine della guerra vigevano ancora, è stato detto, gli schemi ritmici e le scelte lessicali che si erano venuti costituendo nel corso degli anni Trenta.
Una tale tesi era stata formulata, a dire il vero, anche prima; anzi, pochissimo tempo dopo la fine del conflitto, ad opera di critici e autori le cui posizioni teoriche e le cui scritture erano state travolte dal rifiuto, soprattutto politico, della maggior parte di quanto era stato pubblicato nell’età fascista e dalle proposte d’una letteratura di diretto impegno o, come allora si disse, di intervento. Era una tesi non nuova, perché già formulata da Renato Serra al momento di partire soldato per la guerra del 1915; era anzi una disputa vecchia quanto il nostro decadentismo. Solo negli anni successivi sarebbe divenuto chiaro – confrontando la nostra esperienza con quella di altre nazioni e letterature – che il tema del cosiddetto impegno aveva a che fare tanto con rapporti fra la letteratura e le altre attività ideologiche quanto con quelli fra i diversi elementi interni all’opera poetica medesima. Avvenne allora, per dirla più semplicemente, che la formula del «nulla è veramente mutato», ossia del «nulla può veramente mutare con interventi volontaristici nel campo della poesia e della letteratura perché esso è il campo dello spirito, dove le leggi del buon volere e della pratica non vigono», fosse la trista maschera della reazione politico-culturale che venne crescendo negli anni della cosiddetta «guerra fredda» (1947-59) e soprattutto con l’esito delle elezioni del 1948, quando il primato della Democrazia cristiana ebbe funzione di baluardo contro le sinistre. Tutt’altro che innocentemente quella formula aveva il torto di dimenticare che l’introduzione di nuovi contenuti – com’era tante altre volte accaduto (per esempio con la lirica del tardo Settecento e con quella dell’età della Restaurazione) – già di per sé comportava una alterazione dei significati, quand’anche il sistema dei significati potesse sembrare immutato. I riferimenti espliciti al nazismo (ad esempio) nella lirica di Montale, dal momento in cui appaiono, alterano la portata e il valore tonale di stilemi e di modi che il poeta ha fissati nella sua opera antecedente e che continua a impiegare. Le apparizioni «storiche» modificano il senso di quelle «non storiche» o di «altra storia».
I poeti non avevano atteso il 1945 per riconoscere una realtà di catastrofe. Ed è anche possibile identificare, nel periodo 1938-43, testi poetici che, rifacendosi a modelli dell’espressionismo vociano, in particolare a Jahier o, più in generale, a una linea antiermetica, si ponevano in opposizione al gusto dominante o a quella zona della cultura dominante nella quale il gusto dei settori più colti della borghesia andava d’accordo con quello dei settori meno rozzi del governo fascista.
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908-Torino 1950) è un esempio della «emigrazione interna» dell’antifascismo, quale cercò di esprimersi in poesia senza chiudersi nel «castello interiore» degli ermetici. Aveva cominciato nel segno di Gozzano e dei crepuscolari, sui banchi del liceo torinese. Ma già la tesi di laurea (1930) su Whitman, ossia su di un poeta che molto aveva agito sui simbolisti nostri e anche su alcuni vociani, era indicativa. Nascono allora le prime liriche e la ricerca di un verso epico. Lavorare stanca (1936) si volle fuori della linea del novecentismo: all’origine di quel libro era una polemica antiletteraria (frequentissima negli adolescenti), una volontà di essere autentico, serio, grave, rigido, virile. Un atteggiamento polemico che non mancava di precedenti (anche locali: Thovez), come si è detto, nell’area morale che era stata di Jahier e di Rebora; e soprattutto di Boine. Il giovane Pavese è certamente sensibile alla serietà e magari austerità di quel particolare incontro fra spirito crociano, etica tradizionale piemontese del dovere e aristocratismo intellettuale che aveva avuto il suo momento più alto nell’attività di Piero Gobetti; ma, nello stesso tempo, tende con forme sarcastiche o fosche al mito (più che alla realtà ) della vita popolare, con tutto quel che comportava di tragicismo e di desiderio di dissoluzione, come le vicende letterarie del decadentismo europeo avevano largamente dimostrato. Così l’ambiente contadino e urbano di Lavorare stanca è propriamente quello che risulta dall’interpretazione (adolescenziale e quindi ossessa dal mistero dei rapporti interumani) d’una società cui sia stato strappato il proprio organo di intellezione; che, nella specie, è da definire come quel complesso di virtualità , e anche di tradizioni socialiste, che, in termini storici, noi chiamiamo oggi col nome collettivo di Antonio Gramsci.
I poemetti narrativo-descrittivi di Lavorare stanca, con la loro scansione su quattro o cinque accenti maggiori (Pavese stesso ne parla in una nota finale del volume), non hanno nulla a che fare con la metrica «barbara» né col poemetto in prosa dei simbolisti, ma con giustapposizione di blocchi e con iterazioni pesanti costruiscono luoghi e persone, rapporti di interesse e di eros, tensioni fra città e campagna; e tutto questo è dominato da un senso di fatalità più che di destino, di attesa passiva, di pianto ringhiottito, di sfinitezza irrimediabile. Senti che quell’aria opprimente che non circola nemmeno fra le colline è un altro nome del fascismo anche se, nell’ottica di Pavese, vuol essere una condizione umana. E certo è gravezza, accidia e cecità , amor fati; l’altro, il diverso, si presenta solo come attrazione e ripugnanza. Come sempre, nella sottintesa o esplicita evocazione della morte, il paesaggio è il vero interlocutore muto, colline, forre e acque si dispongono intorno all’«uomo solo», agli uomini soli, idillio cupo, ritmato da cadenze volontaristiche, attraversato da qualche grido di prigioniero.
I.
Lo steddazzu
L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
5 può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
10 Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà . Non c’è cosa più amara
che l’inutilità . Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
15 a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
20 e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà .
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
25 l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
Ma se alcuni pochi avevano potuto attribuire ai versi di Pavese, negli anni immediatamente precedenti la guerra, un significato che andava al di là della loro portata poetica reale, la generazione recata alla guerra non ebbe una voce poetica che la esprimesse; per chi nel conflitto non vedeva, o voleva vedere, altro che «la calanca vertiginosa», il luogo dove «bollono calce e sangue nell’impronta/ del piede umano», quella voce si chiamò Montale. Chi cercava un diverso rapporto fra chi parla e le persone umane, separate, «di cui» si parla, non lo ebbe o dovette inventarselo da sé, come quell’autobiografico soldato della campagna di Russia che in una poesia di Nelo Risi, degli anni di guerra, incide con la baionetta, per terra, il nome del proprio padre.
C’era stata, è vero, una poesia sorta da una critica alla cultura che aveva nutrito di sé il fascismo; ma si era accompagnata a una così dura e sarcastica contestazione della società letteraria che questa la ignorò quasi del tutto.
2. Giacomo Noventa.
La formazione intellettuale e morale di Giacomo Noventa lo aveva posto in antitesi volontaria al suo tempo; e i suoi contemporanei lo ricambiarono con il silenzio, il rifiuto o una valutazione distorta della sua poesia; aiutati, in questo, dalle orgogliose definizioni di se stesso che Noventa non mancò di ripetere, in versi e prose. I versi furono composti, per la loro parte maggiore, nel terzo decennio del nostro secolo (anche se alcune ottave sarcastiche risalgono al 1927). Pochissimi i versi del decennio 1940-50; successivi al 1955 tutti gli altri. Se l’elaborazione è durata trent’anni, i testi poetici di Noventa (oggi tutti raccolti in Versi e poesie) nascono in coincidenza cronologica e in simmetrica antitesi allo sviluppo del novecentismo, al Montale delle Occasioni e alla poesia dell’ermetismo.
È stato e sarebbe ancora un errore considerare la poesia di Noventa senza porla in rapporto al suo pensiero filosofico e politico. Noventa si persuase, nel corso degli anni Venti, che l’idealismo italiano, quello di Croce e di Gentile, fosse un errore filosofico e che fosse necessario opporgli i valori di un pensiero cattolico; che ben poco aveva tuttavia in comune con il cattolicesimo della cultura di allora. Quei valori non si potevano esprimere (ha scritto G...