I. L’Europa che non abbiamo capito
di Guido Crainz
1. Europa/Europe.
Un Occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell’Europa centrale: ha questo titolo un appassionato intervento di Milan Kundera degli anni ottanta. «Dopo esser stata strappata all’Europa nel 1945 – scriveva – l’Europa centrale esiste ancora?». E concludeva amaramente: ormai «l’Europa sta perdendo il senso della sua identità culturale» e nell’Europa centrale vede solo «una parte dell’impero sovietico»1.
Nella storia di questo «Occidente sequestrato», iniziata nel 1945 e terminata con il crollo del Muro di Berlino, il 1968 è un anno importante. Per molti versi uno spartiacque: la conferma definitiva che il «socialismo reale» non era riformabile. Iniziato con le speranze della Primavera di Praga, l’anno prosegue con la drammatica estate dell’invasione e con un cupissimo inverno. Con le tenebre squarciate dal rogo del giovane studente universitario Jan Palach, suicida nel gennaio del 1969 in piazza San Venceslao per esortare i suoi compagni e il suo popolo a proseguire la lotta. In quei mesi e in quelli successivi una durissima persecuzione si abbatte sui comunisti cechi e slovacchi e sull’intera società che aveva condiviso le speranze della Primavera, ne era stata coinvolta e animata. Era stato stroncato ancor prima il movimento degli studenti polacchi, all’interno di una campagna che aveva assunto accesi toni antisemiti e che provocava l’esodo di docenti prestigiosi e di una parte significativa degli ebrei ancora presenti nel paese. Infine, nella vicenda più complessa e «sommersa» della Jugoslavia si iniziavano a intendere tensioni e pulsioni destinate ad andare in differenti e divaricanti direzioni.
Nel clima di quel periodo (e anche solo in questo libro) troviamo figure importanti della cultura europea assieme a protagonisti dei sofferti e perseguitati percorsi che contribuiranno al crollo del comunismo (e talora questi aspetti convivono). Basti qui citarne alcuni, mescolando generazioni, nazionalità e «professioni»: da Milan Kundera, appunto, a Jiří Pelikán e alla sua esperienza di «esule indigesto» o a Václav Havel, scrittore, drammaturgo e primo presidente della Repubblica federale cecoslovacca dopo la caduta del Muro; dal regista Miloš Forman a Bohumil Hrabal, che aveva già scritto Treni strettamente sorvegliati, e a Jiří Menzel, che dal libro trae il film che vince l’Oscar nel 1968; da Karol Modzelewski, Jacek Kuroń, Adam Michnik a filosofi e storici delle idee come Adam Schaff, Karel Kosík, Bronisław Baczko, Leszek Kołakowski, Krzysztof Pomian, Jan Patočka, Stefan Morawski; da Zygmunt Bauman – di cui pubblichiamo la splendida introduzione ai documenti degli studenti polacchi – all’economista Włodzimierz Brus, dagli storici Miloš Hájek, Karel Kaplan, Karel Bartošek al poeta Jaroslav Seifert, premio Nobel nel 1984, o a Jiří Hájek, Eduard Goldstücker, Antonín Liehm, Zdeněk Mlynář e moltissimi altri.
A distanza di cinquant’anni iniziamo forse a comprendere che nella storia successiva dell’Europa il ’68 non è tanto rilevante per quel che avviene a Parigi oppure a Torino e a Roma, a Berlino oppure a Milano e a Trento, quanto per i rivolgimenti, i traumi e i processi che segnano i paesi che qui consideriamo. Inizia anche da lì, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia, il percorso verso un’Europa non più divisa, e per esso molti hanno pagato un prezzo altissimo: eppure quegli studenti, quegli intellettuali, quei sostenitori di un «socialismo dal volto umano» non trovarono nei movimenti studenteschi dell’Occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario (né lo trovarono nei partiti comunisti). Perché? È la domanda che si pone in questo libro Anna Bravo: e gli aspri interrogativi di queste pagine si rivolgono in primo luogo a chi, come noi, partecipò con convinzione alle speranze e agli abbagli di quei movimenti. È fin troppo facile documentare che essi, pur mossi inizialmente da ragioni ed emozioni innovatrici e antiautoritarie, rimasero lontani da quel che si svolgeva nell’Europa centro-orientale, e sin nei pressi dei nostri confini. In primo luogo, certo, per il rapido diffondersi e prevalere di un’ideologia deformante, ma forse ha ragione Kundera, forse è ancora più grave: rinvia anche a un modo angusto di intendere l’Europa. Per entrambe le ragioni forse quei movimenti (e la stessa lettura che ne è stata data poi) hanno privilegiato l’asse con i fermenti degli Stati Uniti, rafforzato dalla comune protesta contro la guerra del Vietnam. E l’hanno «integrato» con ingannevoli miti latino-americani e con una lettura idealizzata e rovesciata della rivoluzione culturale cinese (in realtà ferocissima lotta per il potere). La contraddizione non potrebbe essere più forte, soprattutto se si ritiene fondato il «ritratto di una generazione» che Giorgio Bocca tracciava alla vigilia del ’68 prendendo spunto dalla figlia di amici: «per cominciare, un rinnovato, prepotente bisogno di ideologia. Il nostro agnosticismo diretto all’utile e al comodo, il nostro tirare a campare […] non li soddisfa […]. A Roberta piace il Fidel che dice “voglio dare alla gioventù il disgusto per il denaro”, e le piace Guevara che combatte in Bolivia; si interessa ai negri in rivolta, ai vietnamiti in guerra, a ciò che si muove nell’India e nel sud Africa. Ed è questo l’altro carattere che distingue lei e quelli della sua età […]: l’interesse ai problemi del mondo e ai poveri del mondo»2.
Non di tutto il mondo, però. Certo, l’invasione della Cecoslovacchia fu condannata ma non vi fu una mobilitazione vera: non in quell’agosto e neppure nei mesi successivi, a sostegno della disperata resistenza che pur continuava (e vedeva gli studenti in prima fila). Stelle polari di quei movimenti continuarono ad essere la «libertaria» Cuba e il Vietnam del Nord, e si dimenticò presto che entrambi i paesi avevano plaudito ai carri armati del Patto di Varsavia. Qualche sussulto vi fu dopo il drammatico suicidio di Jan Palach e i commossi funerali di popolo che lo accompagnarono ma non durò a lungo (provocò invece violentissimi scontri, poco dopo, la visita a Roma di Richard Nixon). E nei repertori delle università occupate non entrò mai la splendida canzone che Francesco Guccini scrisse allora: «Son come falchi quei carri appostati/ corron parole sui visi arrossati/ corre il dolore bruciando ogni strada/ e lancia grida ogni muro di Praga […]/ dimmi chi era che il corpo portava/ la città intera che lo accompagnava…»3.
Non fu prestata molta attenzione inoltre a quel che avveniva in Polonia, che avrebbe dovuto provocare più di un brivido (l’attenzione si accese maggiormente due anni dopo, quando furono gli operai a scioperare). E altrettanto fuggevole fu lo sguardo alla vicinissima Jugoslavia, che pure avrebbe potuto suggerire qualche riflessione. Di nuovo: perché?
2. Prima del ’68.
All’inizio degli anni sessanta sembrano ormai lontani i processi staliniani, pienamente avallati dal Partito comunista italiano, che avevano colpito moltissimi militanti e figure di grande rilievo4: dall’ungherese László Rajk, già ministro dell’Interno (condannato a morte nel 1949 assieme ad altri, dopo confessioni estorte)5, sino a Rudolf Slánský, ex segretario del Partito comunista cecoslovacco, e ad altri dirigenti (impiccati nel 1952 dopo essere stati anch’essi costretti a «confessare»)6.
Sembrava lontano anche «l’indimenticabile ’56», per usare l’espressione di Pietro Ingrao, con la rivolta degli operai polacchi di Poznań soffocata nel sangue (in essa vi era La presenza del nemico, scriveva Togliatti sull’«Unità») e con l’invasione sovietica dell’Ungheria, apertamente sostenuta anch’essa («il trionfo della sommossa – scriveva ancora Togliatti – non avrebbe potuto portare ad altro che a una restaurazione reazionaria»). Sembrava superato anche il trauma di quella prima, significativa rottura di molti intellettuali con il Pci: e alla lunga distanza non stupiscono tanto le sue dimensioni quanto i suoi limiti. Stupisce il permanere di moltissimi di essi in quel partito e in quegli orizzonti culturali, in una prolungata rimozione del problema.
È dunque una cauta destalinizzazione quella che sembra procedere a est nei primi anni sessanta, sostenuta con altrettanta cautela dal Pci. Nell’aprile del 1963 ad esempio, sapendo imminente la riabilitazione di Rudolf Slánský e di altre vittime dei processi staliniani, Togliatti chiede ad Antonín Novotný – segretario del Partito comunista cecoslovacco – di rinviarla di qualche mese: «venendo pochi giorni prima delle elezioni [italiane] – scrive – darebbe luogo a una campagna forsennata contro di noi. Tutti i temi più stupidi e provocatori dell’anticomunismo verrebbero al centro dell’attenzione pubblica, spostandola dai problemi reali del nostro paese»7. Né il Pci protesta più di tanto alla fine dell’anno successivo (scomparso ormai Togliatti) per la sostituzione di Chruščëv con il plumbeo binomio Brežnev-Kosygin, che aveva creato allarme anche per le modalità brutali della sua attuazione («i ritratti levati in due ore»… esclamava a caldo Mario Alicata)8.
Ma cosa sta succedendo in realtà oltre la «cortina di ferro»? I fermenti che attraversano la Polonia di Gomułka sono evocati qui dai testi di Wlodek Goldkorn e di Adam Michnik: fermenti spesso sotterranei ma in qualche caso noti anche da noi dopo il processo che nel 1965 condanna a tre anni di carcere Jacek Kuroń e Karol Modzelewski per la loro «Lettera aperta al partito». Quella «Lettera», pubblicata in Italia nel 1967, denunciava il potere della burocrazia nel comunismo polacco, la precoce fine della prima rivoluzione antiburocratica (1956-57) e la necessità di proseguirla, il passaggio dalla crisi economica del sistema a una crisi sociale generale, e concludeva con un programma basato sulla reale attuazione della democrazia operaia. Un testo corposo, in chiave rigorosamente marxista e con più di un’eco delle analisi di Trockij9: una opposizione ancora interna a quel mondo, insomma, ed è illuminante la testimonianza di Adam Michnik sul delinearsi di «anomalie» e inquietudini destinate a crescere, dai licei alle università10.
La lenta e complessa «destalinizzazione» che segna la Cecoslovacchia nella prima metà degli anni sessanta è analizzata invece da Pavel Kolář, e sulla «ricezione» italiana di quelle vicende conviene qui soffermarsi. In primo luogo perché ci fa cogliere alcune radici di un’incomprensione, di una diversità d’orizzonte. Non solo o non tanto per le riforme economiche pensate e parzialmente avviate da Ota Šik e da altri: con misure di liberalizzazione volte a rendere meno rigida (e meno disastrosa) la pianificazione statale, a responsabilizzare imprese e operai, a incrinare un egualitarismo al ribasso introducendo incentivi individuali (un vero scandalo per la cultura di estrema sinistra che stava delineandosi da noi, concorde con i conservatori del «blocco sovietico» nel vedervi il ricomparire del capitalismo).
A comprendere alcune radici culturali e politiche dei due «differenti ’68» ci aiuta anche qualcosa di meno «impegnativo», all’apparenza: un confronto a distanza fra storici comunisti cecoslovacchi e comunisti italiani sulla politica dei «fronti popolari» varata dall’Internazionale nel 1935, e sulla sua applicazione nell’immediato dopoguerra. Nella discussione italiana, pubblicata nel corso del 1965 da «Critica marxista» (cui partecipano anche Emilio Sereni, Giorgio Amendola e Lelio Basso), Lucio Magri dà rigore teorico a umori e fermenti che stavano variamente affiorando e che chiamavano in causa su un punto centrale la politica togliattiana del dopoguerra: mettevano cioè in discussione una «via italiana al socialismo» che si inseriva nella democrazia parlamentare accettandola pienamente, senza porre il problema della successiva trasformazione socialista. Era sotto accusa, per dirla con Magri, una «illiquidata distinzione fra momento democratico e momento socialista» che eludeva e accantonava la prosecuzione del processo rivoluzionario: lo stesso tema che troveremo poi nel programma fondativo del gruppo de «il manifesto» dopo la radiazione dal Pci11. Il dibattito italiano viene subito messo al centro di un confronto fra i più autorevoli storici comunisti cecoslovacchi, coord...