La società rurale veneta dal fascismo alla Resistenza
1. L’agricoltura veneta nella grande crisi.
La scelta del tema di questo convegno nasce dalla consapevolezza che la storiografia del periodo fascista e della Resistenza non potrà compiere significativi passi in avanti finché le ricerche e i dibattiti interpretativi non usciranno dall’ambito politico e istituzionale in cui, com’era naturale, in una prima fase si sono prevalentemente mossi, per calarsi nella società, analizzando i rapporti di produzione, le condizioni di vita, la cultura, gli atteggiamenti politici dei diversi ceti sociali; le forme e le funzioni del potere esercitato dalla classe politica fascista a livello nazionale e locale; i modi e la portata del «consenso» al regime; la consistenza e l’efficacia dei movimenti di opposizione; l’ampiezza e l’incisività della Resistenza, e il significato di essa nell’esperienza storica profonda della società italiana; il problema della «continuità» e della «frattura»: sono tutte questioni che potranno trovare una più rigorosa verifica soltanto guadagnando in tutta la sua profondità la dimensione sociale, che vuol dire anche, per l’estrema varietà del paese, regionale e locale.
E non v’è dubbio che per la regione veneta, nella quale, nel periodo considerato, oltre la metà della popolazione attiva appartiene ancora al settore primario (il 53,2 per cento secondo il censimento del 19361: ma il peso della campagna è assai maggiore se si considera la larga presenza di quella tipica figura veneta che è l’operaio-contadino, censito nel settore industriale e nondimeno fortemente legato alla terra per condizione familiare e per i ritorni quotidiani e stagionali ai lavori agricoli) lo studio della società rurale costituisce il primo passaggio obbligato in questa direzione di ricerca.
Storia della società rurale vuol dire innanzi tutto storia dell’economia agricola, dei rapporti di produzione nelle campagne, delle condizioni materiali dei ceti rurali2. È questo un terreno di ricerca assai poco praticato dalla nostra storiografia contemporaneistica, se i nostri punti di riferimento più validi restano ancora il magistrale e suggestivo saggio di Emilio Sereni La questione agraria nella rinascita nazionale3 – pur con tutti i limiti derivanti dalle difficili condizioni della clandestinità e dall’ottica politica contingente in cui fu scritto nel lontano 1942-43 – e l’organica ma sommaria esposizione di Mario Bandini, un tecnico serpieriano di sicura competenza ma sorretto da una problematica storica assai circoscritta e fortemente datata al secondo dopoguerra4. Dopo un ventennio di silenzio pressoché assoluto, la ripresa degli studi di storia agraria recente avviene per merito degli economisti nel segno delle analisi quantitative, condotte a un elevato grado di aggregazione per fattori (Orlando) e per grandi aree geografiche (Tattara), validissime e insostituibili per rappresentare nel suo insieme il processo di sviluppo dell’economia nazionale, ma insufficienti a cogliere nella sua concreta articolazione la dinamica dei fenomeni che si verificano nell’infinita varietà del mondo rurale5. Soltanto ora gli studi sembrano volgersi a quelle minute ricerche locali che sono la premessa d’una sicura conoscenza della storia agraria e rurale di qualunque periodo6.
È in questa prospettiva che vanno affrontati alcuni temi di maggiore rilievo per lo studio della realtà economica e sociale delle campagne venete negli anni del regime fascista e della seconda guerra mondiale, a partire dalla svolta protezionistica e deflazionistica che tra il 1925 e il 1926 avviava il nuovo corso della politica economica del fascismo. Con le misure volte a favorire e proteggere la produzione cerealicola e con la rivalutazione della lira, che colpiva duramente l’agricoltura: deprimendo i prezzi agricoli e rivalutando i debiti contratti dai coltivatori; con la politica della «ruralizzazione» e della «sbracciantizzazione» – che è una risposta in termini di assorbimento di manodopera eccedente e di stabilità sociale alle difficoltà dell’economia – il regime impostava infatti le linee fondamentali d’una politica agraria destinata a protrarsi nel decennio successivo sotto il peso della grande crisi mondiale, che infierì con particolare crudezza sull’agricoltura.
È necessario premettere a questo punto, per chiarezza espositiva, che dal punto di vista agrario la regione veneta si può suddividere, schematizzando al massimo, in quattro grandi zone7. 1) La montagna, caratterizzata dall’estremo frazionamento della proprietà e della conduzione e dalla preminenza dell’allevamento. 2) La fascia collinare e dell’alta pianura, al di sopra della linea delle risorgive, dove assumono maggiore importanza economica le colture arboree della vite e del gelso con la bachicoltura, accanto alle colture erbacee rese possibili anche dall’irrigazione, e protagonista dell’economia agricola appare, fatte le debite eccezioni, la piccola azienda contadina di proprietari coltivato ri, fittavoli e mezzadri. 3) Al di sotto di questa fascia si distende la bassa pianura, nella quale è necessario distinguere una zona mediana di antica bonifica, in cui l’opera millenaria dell’uomo ha prosciugato e resi fertili i terreni, consentendo un fitto insediamento umano che ha prodotto nei secoli un frazionamento moderato della proprietà e più accentuato della conduzione, configurando un paesaggio agrario appoderato, disseminato di fabbricati colonici, nel quale le colture erbacee sono sistematicamente intercalate dai filari delle piantate. 4) A mano a mano che si scende verso il corso dei grandi fiumi padani e verso i bordi del mare e delle lagune e ci s’inoltra nelle terre di recente o recentissima bonifica, le piantate si fanno più rade e predominano le distese dei campi destinati alle colture cerealicole e industriali, in primo luogo bieticole; la grande proprietà fondiaria – in larga misura condotta per mezzo della grande affittanza capitalistica – prende il sopravvento su quella media e piccola, la quale, quando c’è, consiste di solito in un fazzoletto di terra da cui trae qualche misero sussidio il bracciante che lavora a giornata nelle grandi aziende capitalistiche condotte con manodopera salariata. Benché si debba subito precisare che anche in queste zone estese proprietà sono frazionate in poderi condotti a mezzadria, mentre dopo il 1927, come vedremo, tenderanno a estendersi le diverse forme di compartecipazione.
Occorre infatti osservare, innanzi tutto, che l’effetto congiunto del crollo dei prezzi agricoli non protetti (allevamento, vino, seta ecc.), dell’incoraggiamento delle coltivazioni granarie, della ruralizzazione che tendeva ad aggravare il carico demografico e quindi a estendere la fascia dell’autoconsumo contadino, e della cosiddetta «sbracciantizzazione», volta a incrementare, più che la piccola proprietà contadina, la mezzadria e le varie forme di partitanza a scapito della grande azienda capitalistica condotta con manodopera salariata8, contrastava la tendenza ad adottare forme di conduzione più moderne, che si era manifestata con particolare vivacità nel periodo giolittiano ad opera d’una borghesia agraria aperta all’iniziativa imprenditoriale. In tale contesto si consolidava nel Veneto una struttura aziendale arretrata, ancora simile in molti casi, specialmente nell’alta e media pianura, a quella che il Berengo ci ha magistralmente illustrato per la prima metà dell’Ottocento, caratterizzata da una miriade di piccoli coltivatori, che, producendo quasi esclusivamente per l’autoconsumo e per pagare il canone padronale, talvolta parzialmente in natura, sono costretti a fondare l’ordinamento colturale sul trinomio frumento, mais, vite, opponendosi ai più razionali sistemi di rotazione9. La politica agraria del fascismo si presenta quindi perfettamente funzionale, come vedremo meglio innanzi, alle caratteristiche parassitarie che contraddistinguono una fascia consistente della proprietà fondiaria veneta, nella quale la larga presenza della proprietà nobiliare, sottolineata dal Sereni10, rappresenta un solido legame di continuità con i rapporti di produzione precapitalistici nelle campagne.
Nel quadro di tale struttura economica e sociale anche la politica di protezione granaria era indubbiamente idonea a garantire la rendita fondiaria. Ma la politica cerealicola di quegli anni, anche se coincideva con la visuale statica e arretrata che dell’assetto delle campagne aveva il fascismo, richiede una valutazione meno schematica e più attenta alle critiche condizioni dell’economia, dalle quali nessun governo – come tutta la storia economica italiana dall’Unità a oggi sta a dimostrare – avrebbe potuto prescindere: la necessità vitale di riequilibrare la bilancia dei pagamenti fortemente passiva anche per le massicce importazioni alimentari11; la necessità non meno vitale di sostenere i prezzi del frumento di fronte al drammatico crollo dei prezzi internazionali, i cui effetti la pur altissima protezione doganale riuscì soltanto in parte a mitigare. Il reddito della produzione cerealicola costituiva di fatto, assieme a quello della zootecnia, il principale asse portante dell’agricoltura italiana, della quale rappresentava circa un quarto del prodotto vendibile (un terzo nelle regioni di collina e pianura padane)12. Abbandonarne le difese avrebbe significato trasformare la pur gravissima crisi in una catastrofe devastante, che non avrebbe soltanto falcidiato la rendita ma anche travolto in prima linea i contadini. Nel quadro della generale contrazione del mercato interno e degli scambi internazionali e di accentuato protezionismo praticato da tutti gli Stati, non era infatti possibile compensarne la caduta mediante l’incremento dei prodotti ortofrutticoli e vitivinicoli (come ritiene il Tattara)13, o di altre colture pregiate (e basti pensare alla crisi serica con i prezzi del settore caduti ai livelli prebellici in termini nominali!)14 destinate alle esportazioni e al consumo interno d’una economia recessiva. Poiché l’arma più semplice ed efficace della protezione doganale non era applicabile ai prodotti la cui redditività dipendeva in misura sostanziale dalla possibilità di collocarne una quota consistente sui mercati esteri – vino e ortofrutticoli in prima linea – non restava in pratica che attestarsi sulla difesa dei prezzi del prodotto fondamentale dell’agricoltura, che essendo anche l’alimento base dei consumi popolari, si avvantaggiava sul mercato interno, particolarmente in periodo di crisi economica, del maggior grado di inelasticità.
Questa politica sacrificò certo la zootecnia, meno protetta, con grave danno delle zone montane e collinari del Veneto, che non soltanto vedevano crollare i redditi delle principali produzioni, ma anche peggiorata la loro ragione di scambio nei confronti del frumento e del granoturco – oltre che dei prodotti industriali – che essi non producevano in proprio se non in quantità del tutto insufficiente rispetto al fabbisogno e dovevano perciò acquistare15. Ma se prescindiamo dalla situazione particolare della montagna, dove i condizionamenti ambientali assegnano un ruolo privilegiato all’allevamento, dobbiamo considerare attentamente, per l’Italia in generale e in specie per il Veneto, il diverso rapporto tra superficie agraria e disponibilità alimentari in termini di calorie, cui danno luogo le colture erbacee e l’allevamento animale. Come osserva Fernand Braudel:
À surface égale, dès qu’une économie se décide d’après la seule arithmétique des calories, l’agriculture l’emporte de loin sur l’élevage; bien ou mal, elle nourrit dix, vingt fois plus d’hommes que son rival16.
Certo le tecniche di rotazione avevano mutato profondamente questo rapporto nell’agricoltura moderna, facendo dell’allevamento e delle colture foraggere in avvicendamento con i cereali, assai più che due rivali, dei fattori strettamente complementari. Ma l’avvento dei concimi chimici e della meccanizzazione non ha forse sottratto in parte le colture erbacee a questa servitù tecnica, rendendo assai più elastico questo rapporto di complementarietà?17 Come nei secoli precedenti la «rivoluzione agricola», nella sovraffollata Italia tornava così a valere il principio secondo cui ogni incremento demografico implica, oltre un certo livello, un più largo ricorso agli alimenti vegetali: «céréales ou viande, l’alternative dépend du nombre des hommes».
L’eccedenza della popolazione rispetto alla superficie agraria attivamente produttiva, che è fenomeno generale italiano, si avverte particolarmente nelle campagne venete, gravate da una forte densità demografica, specie nell’alta e media pianura18, dove abbondano madri prolifiche, inconsapevoli benemerite dell’insensata campagna demografica del regime, e si traduce, anche attraverso la struttura poderale assai frazionata, in una forte incidenza dell’autoconsumo contadino. Non può quindi stupire un incremento delle produzioni cerealicole nel quadro di una lunga e drammatica recessione economica mondiale, che non consentiva certo agli addetti all’industria e ai servizi di aumentare i propri redditi e quindi il tenore proteico della loro dieta alimentare (fa...