V. Alla ricerca di un linguaggio
Si è accennato alle difficoltà, per la letteratura italiana del primo dopoguerra, di trovare una dimensione espressiva capace di tenere il passo delle mutate condizioni, materiali non meno che intellettuali, che si erano determinate e che in altri paesi stavano per dare luogo alle più significative opere del cosiddetto modernismo. Tempo di edificare, titolava emblematicamente nel 1923 un suo volume di saggi Giuseppe Antonio Borgese, ma in quale senso si dovesse procedere non era chiaro neanche per lui, se è vero che, facendosi sostenitore dell’opera di Federigo Tozzi, ne pregiava tuttavia soprattutto Tre croci, il romanzo più compattamente costruito secondo modalità ancora naturalistiche, e se, facendosi editore del diaristico Ricordi di un impiegato, ne tagliava «deliberatamente tutto quello che, a suo parere, nuoceva all’economia narrativa, alla trazione dinamica del racconto, alla netta delineazione e sagomatura della magra, ma abbastanza drammatica, vicenda»1.
Ho citato parole di Giacomo Debenedetti, che ribaltando l’opinione di Borgese ha creduto di vedere proprio nelle parti «tagliate» e nei fermenti anche acri dell’autobiografismo e dello psicologismo tozziano appunto il segno della modernità che già nutriva la ricerca sia narrativa che drammatica di Pirandello, e che stava per sfociare altrove nella fluviale composizione dell’Ulysses joyciano. Non è qui il luogo per giudicare dell’una e dell’altra posizione, e semplicemente si ricorda il caso a testimonianza degli interrogativi che dovevano porsi allora alla critica e, ancor prima, a chi affidava alla scrittura il racconto del proprio confrontarsi da una parte con la vita e dall’altra con la tradizione letteraria.
Lo stesso Borgese aveva affrontato il problema con le pagine di Rubè (1921), costruendo un personaggio che è parso per molti aspetti, nella sua ansia introspettiva e nell’incapacità di sciogliere le sue tensioni contraddittorie, antesignano di figure che avrebbero avuto di lì a poco, con Zeno Cosini, più decisa rappresentazione. Ma, dal punto di vista espressivo, né Rubè né La coscienza di Zeno avevano saputo intaccare la rigidezza letteraria della nostra prosa, alla quale continuava a mancare il conforto, già attivo altrove, della lingua viva, parlata, o comunque il coraggio della sperimentazione. Si segnala, naturalmente, la scrittura di Palazzeschi; si segnala quella di Bontempelli, ma è solo con Gli indifferenti e con le opere di Alvaro che il panorama della narrativa sembrerà alla fine degli anni venti ravvivarsi.
È stato notato che «Solaria», pur così decisa nel sostenere criticamente l’importanza e il valore della prosa romanzesca, non ne presenti concretamente che scarni esempi nelle sue pagine (la prima puntata del Garofano rosso di Vittorini uscirà solo nel 1933), e proporzionalmente pochi, rispetto ai racconti e alle poesie, nelle sue stesse edizioni2. Si è parlato del resto, a proposito di questo periodo, dell’incapacità della nostra letteratura di «“fare il salto” verso il grande pubblico, diventando mezzo d’espressione dei suoi interessi reali», proprio mentre dall’esterno giungono storie di «un diverso spessore, un sapore di verità e realismo inusuali anche quando si riferiscono a tempi o paesi lontani»3: di una curiosità e di un gusto che trovavano dunque alimento, piuttosto e come abbiamo notato, nel romanzo straniero4.
Sono a lungo i francesi a dominare il campo, e l’orientamento soprattutto ottocentesco della «Biblioteca Romantica» li rende nella collana, ancora negli anni trenta, la presenza più massiccia; ed è un romanziere francese, Alain-Fournier, a inaugurare nel 1933 con Le Grand Meaulnes, tradotto da Enrico Piceni5 come Il grande amico, la nuova collezione «Medusa», intesa a «presentare le opere più singolari dell’alta letteratura mondiale contemporanea»6 e che ospiterà presto Mauriac, Maurois, Colette, Gide.
André Maurois (ancora Piceni risulta fra i suoi maggiori traduttori) è uno dei romanzieri più apprezzati in Italia; ne scriveva Giuseppe Raimondi nel 1928, a proposito del suo Bernard Quesnay:
A lettura finita si ammira la discrezione e la giustizia con cui lo scrittore ha riprodotto un simile ambiente, e ci si ricorda che è propria dei romanzieri di razza francese quell’economia, quella limpidezza e talvolta quella secchezza che fa singolari i loro libri. Né italiani né spagnoli li possono eguagliare. Piuttosto si può avvicinare agli inglesi7.
Con lui, Jacques Chardonne; ha osservato in proposito Anne-Rachel Hermetet che «Maurois impersona però la parte più “facile”, più “per le signore” del romanzo francese e non a caso gli articoli a lui dedicati si possono leggere solamente nelle riviste di informazione letteraria rivolte al grande pubblico come “La Fiera/L’Italia letteraria” o nelle riviste antologiche come “Pègaso”», mentre più interessante appare «il caso di Chardonne, che viene studiato tanto in periodici di larga diffusione […] quanto in riviste sperimentali come “Solaria” o universitarie come “La Cultura”»8.
Si tratta comunque, e ancora, di un’ottica letteraria tradizionale, che si inquadra nel gusto del «ritorno all’ordine» che abbiamo detto tipico della «Ronda» e rispetto al quale già un romanziere come François Mauriac, con la sua prospettiva filosofica e morale, appariva nuovo e non sempre facile da accettare (fra i suoi traduttori, oltre a Piceni, Marise Ferro, Giuseppe Prezzolini, Maria Martone). Più interessante il caso di André Gide, in particolare per la pubblicazione nel 1924 di Corydon, con la sua problematica omosessuale, e nel 1925 con Les Faux-Monnayeurs, che dal punto di vista stilistico e strutturale presenta una decisa evoluzione verso forme narrative più sperimentali e moderne; né l’una né l’altra opera tradotte in italiano, tuttavia, mentre appare nel 1920 Il Prometeo male incatenato (senza indicazione del traduttore), nel 1925 La porta stretta (traduttore Adolfo Franci) e nel 1933 I sotterranei del Vaticano (traduttore Cesare Giardini). Ha comunque osservato Hermetet che:
L’immagine della Francia si rivela piuttosto legata al passato che non iscritta nelle questioni suscitate dal presente. Ne testimonia la sparizione della qualifica «francese» quando le opere vengono definite «moderne», come se queste due nozioni fossero inconciliabili agli occhi dei critici italiani9.
È semmai la scrittura di Proust, destinata a restare fino al 1945 senza traduzione, che sollecita più che i lettori i nostri scrittori e che conserva negli anni venti una posizione di deciso rilievo nel campo letterario alla Francia; ma già alla fine del 1933 vediamo che, dei ventisette volumi pubblicati nella «Medusa», il numero degli otto romanzi francesi è ormai eguagliato da quelli di lingua tedesca. L’osservazione è di Mario Rubino10, che sottolineato come, fino al 1928, «il numero delle traduzioni di narrativa tedesca contemporanea fu davvero esiguo e la scelta delle opere da pubblicare del tutto accidentale», segnala però «il cambiamento radicale» che si ebbe negli anni seguenti, «con ben dieci titoli pubblicati nel solo 1929, che salirono a sedici già nel ’30»11: cosa che era frutto dell’apporto «di una nuova leva di mediatori culturali qualificati» e insieme della «disponibilità di un’editoria in crescita, alla ricerca di nuovi prodotti da immettere sul mercato»12, oltre che, nella drammatica situazione che proprio in Germania si stava configurando, del ricorso a questa «nuova letteratura romanzesca d’oltralpe come di un possibile strumento di conoscenza delle motivazioni più profonde che di quei rivolgimenti erano alla base»13.
Nella sua introduzione al testo emblematico di questa produzione, Berlin-Alexanderplatz di Alfred Döblin, Alberto Spaini parlava della malavita berlinese come di «un nuovo aspetto della grande crisi morale dalla quale la Germania è torturata negli ultimi quindici o venti anni, crisi solo accelerata e spinta a forme mostruose dalla guerra»14; ma accanto a Döblin e ai testi della cosiddetta Asphaltliteratur si pubblicano Thomas e Heinrich Mann, ed è ancora Spaini a presentare nel 1933 Il processo di Franz Kafka, con la raccomandazione di non prenderlo «come un’opera allegorica, da interpretarsi passo passo e parola per parola» se non si vuole perderne «ogni valore poetico e lirico»15.
Fra i protagonisti di questo sviluppo – oltre a Spaini citeremo Enrico Rocca, Ervino Pocar, Leonello Vincenti – un posto precipuo spetta a Lavinia Mazzucchetti, attiva sia sul piano della ricerca universitaria sia su quello dell’editoria e della divulgazione; Anna Antonello indica come due anni chiave del suo lavoro «il 1929, l’anno d’avvio della collana “Narratori Nordici” della Sperling & Kupfer, e il 1933, in cui esordisce la collana “Medusa” con un’importante parte tedesca da lei diretta»16. È infatti per i «Narratori nordici» che «più che mai la Mazzucchetti può scegliere i volumi in base al suo gusto letterario e alle sue simpatie personali: dalla novella Disordine e dolore precoce di Thomas Mann […] a Carlo e Anna di Leonhard Frank, […] poi Zweig, Hesse, Carossa, Wiechert, tutti scrittori amici che pubblica finché non deve piegarsi alle direttive del regime».
Per «Medusa» la situazione è molto simile, e la Mazzucchetti assolve il suo impegno con grande abnegazione17, anche se le vicende politiche erano ormai tali da non consentire l’espansione del settore. Se guardiamo ai dati elaborati da Rundle, il totale delle traduzioni dal tedesco vede nel 1934 e 1935 un calo assai significativo – del trenta per cento circa – rispetto ai dati precedenti e in particolare rispetto a quelli, in costante aumento, dell’inglese e del francese18. Né si avrà più una significativa ripresa, anche per l’adeguarsi successivo, sia pure lento e non senza contraddizioni, al bando già comminato in Germania agli autori dichiarati «decadenti e antitedeschi», nonché, ovviamente, a quelli di origine ebraica.
È ora e piuttosto agli scrittori inglesi e americani che l’editoria comincia a rivolgersi, stimolata dai contatti che si erano andati stabilendo nel tempo e, per quanto riguarda l’America, dalla curiosità anticipatrice di veri e propri personaggi d’eccezione quali Cesare Pavese ed Elio Vittorini19. Si è già accennato a Emilio Cecchi e Carlo Linati, e si devono a loro le prime rassegne organiche di saggi e interventi in materia: di Linati, nel 1932, Scrittori anglo-americani d’oggi, edito da Corticelli, mentre di Cecchi esce presso Carabba nel 1935 Scrittori inglesi e americani20. Sono per entrambi gli autori inglesi a costituire l’interesse primario, sia per le ragioni anagrafiche che li fanno uomini ormai più che maturi al manifestarsi del «mito» americano, sia per quello snobismo culturale che caratterizza soprattutto Cecchi e che gli farà sempre apparire sotto i segni della «barbarie», nonostante singoli apprezzamenti, il lavoro d’oltre oceano21.
Linati traduce da Yeats, da Synge, da Joyce, da Lawrence, e in italiano porta infine anche L’americano di Henry James nel 1934. Cecchi, da Shelley, da Chesterton e, tralasciando le pagine non raccolte in volume, da Shakespeare; ma dall’America porta solo, nel 1936, la saggistica di Berenson, che lo riconduce all’amata arte italiana del Rinascimento.
Non mancò, a dire il vero, un proposito d’altra portata e che avrebbe potuto dare, se realizzato, altra storia alle traduzioni dall’americano; Cecchi aveva infatti accettato l’incarico di Mondadori di tradurre Sanctuary d...