IV. Fragilità e innovazione ai margini
Le vecchie illusioni del cittadino sulla campagna che non cambia mai – disse David. La campagna cambia molto più di una città. Per la città è solo questione di edifici differenti… magari più grandi e più brutti, ma nient’altro. Quando la campagna cambia, è in maniera più fondamentale.
J. Christopher, La morte dell’erba
A partire dal patrimonio conoscitivo accumulato grazie alle attività dell’associazione Aree fragili Aps e della Strategia nazionale per le aree interne, proviamo ora a capire come crisi ambientale, crisi fiscale dello Stato e questione migratoria prendono forma nell’Italia del margine. Ci interessa capire le dinamiche di interconnessione e interdipendenza tra i tre poli che danno forma al nostro modello teorico, quali sono gli elementi strutturali che stanno alla radice delle contraddizioni interne ai tre poli, come prendono forma le pratiche di emancipazione che trasformano la domanda di protezione sociale in una dinamica di mutamento verso la costruzione di modelli sociali e produttivi capaci di risolvere le tensioni. Per farlo, ripercorriamo le modalità argomentative utilizzate nel primo capitolo: affrontiamo i tre poli in modo distinto, mettendo però i margini al centro dell’attenzione e facendo alcuni affondi su esperienze che si ritengono rappresentative e paradigmatiche rispetto al nostro ragionamento. Infine, proveremo a trarre alcune conclusioni – e inevitabilmente lasceremo aperte molte questioni emergenti – nel tentativo di comprendere come le innovazioni raccolte ai margini possano fornire indicazioni più generali e sfidare dal punto di vista qualitativo le politiche e le prassi che mettono al centro i contesti metropolitani.
1. Ambiente: rottura, abbandono e circolarità.
Nelle aree ai margini la crisi ambientale si manifesta in modi diversi. Nel secondo capitolo abbiamo individuato due principî capaci di sintetizzare lo squilibrio nella relazione tra sistemi sociali e sistemi naturali. Il principio dell’accelerazione vede un incremento progressivo dei consumi di risorse ambientali e lo sfasamento tra capacità della natura di riprodursi e ritmi di utilizzo delle risorse da parte dei sistemi produttivi. La rottura del nesso di coevoluzione, invece, è data dal distacco dei sistemi produttivi e sociali dal modo di funzionamento degli ecosistemi attraverso una continua artificializzazione dei materiali e persino delle modalità attraverso le quali la vita può riprodursi. I sistemi socio-produttivi si fanno sempre più lineari, mentre i sistemi ecologici sono circolari. Accelerazione e nesso di coevoluzione si possono vedere in modo molto nitido nei territori ai margini. Essi sono un luogo di osservazione privilegiato per la straordinaria presenza di ambiente naturale e per la preponderanza del settore primario, che ci riporta alla relazione produttiva diretta tra uomo e natura. Se consideriamo i comuni classificati dalla Snai come interni, possiamo quantificare la quota di natura presente nei territori ai margini attraverso qualche dato. Nelle aree interne vi è il 72% della superficie forestale nazionale, il 55% della superficie agricola totale, il 77% della superficie protetta divisa tra aree parco, aree Sic (Siti di importanza comunitaria) e Zps (Zone di protezione speciale).
Tabella 2. Dati sulla presenza di natura nelle aree interne.
| Aree interne | Aree non interne | Italia |
% popolazione | 21,98 | 78,02 | 100 |
% km2 | 59,91 | 40,09 | 100 |
% sup. forestale | 71,83 | 28,17 | 100 |
% sup. agricola utilizzata | 55,18 | 44,82 | 100 |
densità abitativa (ab/km2) | 73,82 | 379,35 | 201,18 |
% sup. protetta/sup. totale | 13,4 | 5,8 | 10,4 |
% sup. protetta/sup. protetta nazionale | 77,47 | 22,53 | 100 |
Fonte: nostra elaborazione su dati Snai (2018).
Biodiversità, coevoluzione e accelerazione
La mappatura delle aree interne coincide quasi interamente con quella della biodiversità elevata, che segna un primato a livello europeo per quanto riguarda le specie vegetali endemiche. La flora nativa dell’Italia comprende 8195 taxa specifici e subspecifici. È il numero più alto in Europa. Nella regione mediterranea soltanto la Turchia ospita un numero maggiore di piante native (Bartolucci e altri 2018).
Eppure, questo importante patrimonio ambientale è messo a rischio sia dall’abbandono del territorio che dagli effetti diretti o secondari della dinamica di accelerazione. Può sembrare paradossale che il venire meno della presenza dell’uomo in alcuni sistemi ecologici possa portare alla riduzione di biodiversità. Tuttavia, la biodiversità del nostro paese prende forma in modo coevolutivo insieme all’antropizzazione degli ambienti naturali. In tutta la penisola non esiste ambiente che non sia stato modificato, nel corso dei secoli, dall’uomo, al punto che alcuni studiosi parlano di storicizzazione tassonomica delle specie animali e vegetali. Ciò avviene grazie al meccanismo della coevoluzione, un processo per cui l’evoluzione di più partner (animali, piante, batteri o funghi) dipende dalla loro interazione reciproca. Tutti i partner acquisiscono adattamenti specifici a seguito di pressioni mutualmente selettive e grazie ai processi evolutivi producono diversità biologica, cioè biodiversità. L’uomo, attraverso le modificazioni dell’ambiente a scopi produttivi, ha modificato gli habitat generandone di nuovi. La diversificazione degli habitat ha permesso la proliferazione della biodiversità. In proposito esiste una vera e propria branca della geobotanica che prende il nome di fitosociologia. La differenziazione degli habitat ha prodotto incremento di biodiversità fino a che le economie prevalenti sono state di tipo circolare e non hanno superato le soglie di sostenibilità degli ecosistemi locali. La rottura del nesso di coevoluzione e l’accelerazione hanno spezzato la correlazione positiva tra produzione di merci, gestione dell’ambiente e produzione di natura. La disattivazione1 produttiva del bosco e l’abbandono di superficie agricola coltivabile2 hanno interrotto la coevoluzione uomo-ambiente, mettendo a rischio molti degli habitat nei quali sono proliferate specie animali e vegetali (Moneta - Parola 2014). È il caso dei tritoni di Roccabruna nell’Appennino ligure (Cevasco 2014): essi sono proliferati grazie a particolari habitat prodotti dal sistema di regimazione delle acque funzionale all’economia zootecnica, che garantiva una pervasiva presenza di zone umide e una continua manutenzione dei canali. L’abbandono dell’attività zootecnica e la diffusione di arbusti incolti hanno portato al lento ma progressivo interramento delle zone umide, mettendo a rischio non solo la popolazione di tritoni, ma anche la permanenza della Drosera, pianta carnivora con importanti proprietà fitoterapiche. In quest’area, il progetto di conservazione della biodiversità legato alla costruzione del Sic «Lago Marcotto-Roccabruna-Gifarco-Lago della Nave» è stato impostato seguendo i criteri del ripristino socio-ambientale. Per ripristino socio-ambientale si intende il restauro di habitat attraverso le pratiche più consone al contesto ambientale e sociale contemporaneo. Si è cercato, cioè, di rimettere in moto la coevoluzione tra uomo e ambiente, facendo ruotare il progetto di conservazione evolutiva attorno a nuove economie capaci di manutenere l’ambiente.
La perdita di biodiversità nei territori ai margini non è causata soltanto dall’abbandono del territorio. Vediamo al lavoro la dinamica dell’accelerazione attraverso due fenomeni: il cambiamento climatico e il consumo di suolo. Nonostante la storia evolutiva di molte specie e le loro capacità di coevoluzione e adattamento con gli ambienti naturali in cui vivono, l’intensità e la velocità del cambiamento climatico si sta dimostrando superiore alla capacità stessa delle specie di adattarsi alle nuove condizioni. Oltre all’incremento di fenomeni climatici estremi, che hanno effetti negativi immediati a livello di popolazione e di specie, il cambiamento climatico produce mutamenti nell’ecologia delle comunità, dove si diffondono nuovi agenti patogeni e specie invasive che alterano gli equilibri locali. Si veda ad esempio l’inedita persistenza del bostrico anche nei mesi invernali. Il bostrico è un parassita che lavora sotto la corteccia delle piante fino all’essicazione. Negli anni passati l’inverno aiutava a contenerne la diffusione, grazie alle temperature rigide che ne sfavorivano la proliferazione. Gli ultimi inverni caldi e siccitosi, invece, ne hanno favorito la persistenza, costringendo in alcune aree – come la Carnia – a programmare tagli ingenti di foresta al fine di creare fasce di contenimento. Inoltre, la necessità delle comunità umane di adattarsi velocemente al cambiamento climatico potrebbe comportare modifiche alla gestione dell’acqua, delle foreste, dei terreni agricoli, con una modificazione degli habitat troppo veloce rispetto a quanto i meccanismi di coevoluzione possano sopportare. Un secondo fenomeno che induce alla perdita di biodiversità è il consumo di suolo. Nei territori ai margini i livelli di urbanizzazione sono molto bassi, tuttavia negli ultimi anni si registra una dinamica poco virtuosa. I recenti dati elaborati dall’Ispra (2018) ci mostrano che l’incremento maggiore di suolo consumato tra il 2016 e il 2017 è stato registrato nei comuni sotto i 5000 abitanti, con il 71% del consumo di suolo su scala nazionale. Un’elaborazione sul consumo marginale di suolo3 basata sulla classificazione dei comuni elaborata dalla Strategia nazionale per le aree interne, invece, mostra come nei comuni interni vi sia un sostanziale sganciamento tra consumo di suolo e popolazione. Anche a popolazione decrescente, aumenta il suolo consumato (Pileri 2017). Ciò mette in luce ancora una volta la stretta relazione tra crisi fiscale dello Stato e crisi ambientale. Negli ultimi anni i piccoli comuni, di fronte alla riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato e all’abolizione dell’imposta sulla prima casa (Ici), hanno mantenuto gli impegni di bilancio e sostenuto la spesa corrente attraverso l’incremento delle entrate da oneri di urbanizzazione. Essi sono stati facilitati dalle spinte alla sussidiarietà e alla deregolazione urbanistica, senza che venissero definiti piani paesistici generali e regolamenti per tutelare la biodiversità e il rispetto dei corridoi ecologici.
Oltre alla perdita di biodiversità, l’abbandono del territorio produce dissesto. Terreni e boschi non più gestiti, infatti, destrutturano lentamente il sistema idrogeologico. Il consumo disordinato di suolo, invece, produce rischio ambientale. L’83,2% dei comuni che ricadono nelle aree progetto della Snai è classificato come a rischio idrogeologico elevato e molto elevato, contro il 57% dei comuni italiani4. In termini percentuali, la popolazione esposta a rischio è decisamente più alta nel complesso dei comuni interni che nei centri (Carrosio - Faccini 2018). Anche il dissesto idrogeologico ha una stretta connessione con la crisi fiscale dello Stato. Esso, infatti, rappresenta un costo per le casse pubbliche, che si trovano a investire risorse per i danni generati dall’abbandono. Secondo un rapporto Cresme (2012), che analizza la spesa dello Stato italiano in merito alla gestione del territorio, soltanto la riparazione dei danni creati dal dissesto idrogeologico – e non tutti i danni vengono ripristinati – richiede mediamente 500 milioni di euro l’anno. Soldi pubblici che vengono sottratti alla possibilità di investire sul welfare. Il problema del dissesto è collegato anche alla polverizzazione fondiaria della proprietà agro-forestale. La polverizzazione è un fenomeno di lungo corso, che rientra tra i fattori che compongono il circolo vizioso dell’abbandono del territorio, ed è alimentata dai meccanismi di successione della proprietà privata. Per polverizzazione si intende un frazionamento della proprietà fondiaria in appezzamenti tanto minuscoli da non consentire di formare neanche una minima entità produttiva ed economica. Nei territori ai margini ha raggiunto dimensioni rilevanti, al punto che gli esperti evocano la necessità di una nuova riforma agraria che consenta di riaccorpare i terreni affinché assumano dimensioni consone a piani di gestione e di valorizzazione delle risorse. Di fatto, in questo caso, l’istituzione della proprietà privata risulta un elemento di freno, piuttosto che uno strumento di sviluppo. Essa pone problemi anche alla intrapresa di azioni collettive per l’adattamento al cambiamento climatico, che richiederebbero piani di area vasta e una programmazione orientata al futuro nell’utilizzo del terra. Meccanismi di innovazione sociale stanno cercando di superare il problema della polverizzazione e del frazionamento attraverso la promozione di nuovi modi di possedere la terra. Interessante il caso delle Associazioni fondiarie (Asfo). L’Asfo si configura come una libera unione tra proprietari di terreni privati e pubblici, con l’obiettivo di dare in gestione i terreni, in genere abbandonati o incolti, a operatori che sono in grado di garantirne un uso economicamente sostenibile e produttivo. I pr...