Io, pacifista in trincea
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Io, pacifista in trincea

Un italoamericano nella Grande guerra

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Io, pacifista in trincea

Un italoamericano nella Grande guerra

Informazioni su questo libro

New York, 1915. Il giovane italoamericano Vincenzo D'Aquila scappa di casa per arruolarsi volontario nelle file dell'esercito italiano, pronto ad andare incontro «al mulino della morte per la grandezza della madrepatria». Arrivato a Napoli e poi trasferitosi a Palermo, sua città natale, viene iscritto nel 25° reggimento della brigata Bergamo e mandato in montagna a combattere in trincea insieme ai soldati semplici. Il suo entusiasmo si affievolisce però davanti alla cruda realtà del fronte e all'atrocità del conflitto. Subentra allora in lui una visione mistica che lo spinge a imbracciare il fucile, ma con la ferma volontà di non sparare neanche un colpo, per tutta la guerra. Questa è la sua «chimerica promessa»: piuttosto che uccidere un altro uomo morirà lui stesso, ma è fiducioso che Dio, la sua «invisibile guardia del corpo», lo proteggerà. Per la prima volta in versione italiana l'incredibile storia vera di un pacifista in trincea tra complicate strategie messe in atto per tener fede alla sua promessa e l'avversione dei suoi superiori che lo considerano un pazzo più che un profeta, tanto che sarà allontanato dal fronte e internato in alcuni ospedali psichiatrici. Sopravvissuto al conflitto, D'Aquila rientra negli Stati Uniti, dove anni dopo scrive il racconto della sua esperienza, pubblicato nel 1931 con il titolo Bodyguard Unseen. A true autobiography. Il libro, nonostante le critiche positive, cade presto nell'oblio. In Italia rimane inedito, probabilmente perché il fascismo non gradisce l'implicito inno alla pace che racchiude. Nato come sintesi introspettiva di una personale «odissea di guerra e pazzia», il racconto di D'Aquila costituisce oggi non solo un prezioso documento, utile agli storici e agli studiosi, ma anche un racconto avvincente di come sia possibile sopravvivere alla guerra, senza sparare un solo colpo.

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Informazioni

Argomento
History
Categoria
World History
Parte terza
Quando misi in pratica il mio ragionamento

1. Fuori dalle trincee entro Natale

Per qualche settimana trascorremmo una placida esistenza, ma era una calma troppo irreale perché durasse per sempre, specialmente in zona di guerra. Un freddo e sereno mattino, quella dolce tranquillità fu spazzata via dall’arrivo di una notizia che provocò un’intensa agitazione tra i tavoli da gioco.
Un dispaccio ordinava al brigadier generale di recarsi, seduta stante, a rapporto presso il comando supremo per l’assegnazione a un’altra sede. Al suo posto era stato già nominato un nuovo comandante.
Quest’inaspettata comunicazione accrebbe subito il trambusto fra i ranghi e le file della compagnia. Per molti degli uomini suonava come un fatale avvertimento: ben presto, avrebbero dovuto dire addio a tutte le comodità e agli agi avuti finora, avrebbero sentito la mancanza del cioccolato, dell’anisetta e del cognac. Addio pantaloni stirati e stivali lucidi, letti puliti e sonni tranquilli! Addio a tutto questo, una vita ideale in tempo di guerra!
Senza dubbio, il nuovo comandante avrebbe desiderato reclutare nuovo personale e, allora, nel giro di poco, una folla di leccapiedi e parassiti, dagli attendenti ai cuochi, si sarebbe messa a sua disposizione. In guerra per sopravvivere dovevi cambiare pelle velocemente, e ciò avveniva soprattutto nei comandi.
Per quanto riguardava me, quella mia chimerica promessa mi aveva reso fatalista e accolsi la notizia del trasferimento con serenità. L’episodio della macchina per scrivere mi aveva tirato fuori dai guai e mi aveva tenuto lontano dal combattimento. Bastava solo questo perché fossi ansioso di scoprire cosa avesse ora in serbo per me quella mia guardia del corpo invisibile1. Fu per questo che la notizia non mi fece battere ciglio. Avevo da sempre una naturale disposizione a ritenere che tutto ciò che accade nella vita è per il nostro bene e nutrivo la certezza che nulla avviene nel mondo se non per volontà divina. Come disse il saggio: «Bene e male, vita e morte, povertà e ricchezza, tutto proviene dal Signore»2.
Ero ottimista. Il Potere Divino che ancora risiedeva in me mi dava grande forza ma, forse, riguardo le previsioni sulla guerra, rendeva questo mio senso di sicurezza troppo forte. Non a caso, passavo per essere la persona meno preoccupata dell’intero settore.
Dovendo arrivare il nuovo comandante, non ci fu data alcuna tregua. Iniziarono a pulire gli alloggi e, dato che dovevano al più presto liberare il campo, ci rispedirono alle nostre compagnie d’origine. Così, in quegli ultimi giorni di novembre, scesi a valle verso Čiginj per riunirmi al tenente Volpe. Ero sereno e aspettavo di conoscere quali nuove avventure mi attendevano.
Senza alcun preavviso, mi presentai a Volpe che, come ho detto in precedenza, svolgeva le funzioni di comandante della 7a compagnia. Non appena lo informai del motivo del mio rientro, esclamò che il mio arrivo era un’autentica benedizione. L’ufficiale subalterno incaricato di tenere in ordine i registri e il libro paga era stato appena trasportato all’ospedale perché colpito da polmonite e bronchite acuta. Pertanto, visto che ormai avevo familiarità con l’intero settore grazie alla permanenza al comando di brigata, il tenente pensava fossi il più adatto a sostituire quell’ufficiale, prendere in consegna i registri e tenerli aggiornati. Mi dette subito l’incarico.
Ancora una volta ero caduto in piedi. In caso di scontro, infatti, il responsabile dei registri, naturalmente, non sarebbe stato chiamato a combattere, cosicché il rischio di uccidere e, quindi, di venire meno alla mia promessa, sarebbe stato minore. Il destino mi aveva teso una grossa mano, la migliore che potesse capitarmi.
Il mio predecessore aveva però portato via con sé tutti i registri nella speranza di poterli aggiornare prima di passarli in consegna. Così, mi ordinarono di andare a cercarlo nei i vari ospedali da campo sparsi lungo le retrovie, mettendomi sulle sue tracce finché non avessi riottenuto quei documenti.
Per prima cosa, cercai in lungo e in largo nei pressi di Case Cemponi, sperando di imbattermi in lui e nei registri. Dopo tre giorni di approfondite indagini e scrupolose ricerche, alla fine, lo trovai presso una fattoria isolata che era stata requisita dal corpo sanitario dell’esercito. Giunsi in questo particolare ospedale da campo intorno alle due di notte mentre fuori infuriava una tormenta. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come incappai in quel posto, ma un insistente presentimento mi diceva che l’uomo che stavo cercando era là.
Bussai alla porta. Nessuno rispose. Allora, le diedi un calcio e incominciai a picchiare, per poi scagliarmi contro di essa con tutta la forza che avevo in corpo. Si mosse di qualche centimetro ma poi inspiegabilmente sbatté indietro, contro la mia faccia. Questo fatto richiamò alla mia mente la vicenda del soldato ignoto e della sua tragica fine3. Adesso mi sembrava di essere io quel soldato. Ma di certo, a differenza sua, io non mi sarei docilmente adagiato a terra sino a morire congelato: quella vicenda mi era servita da lezione. Avevo ancora con me il moschetto consegnatomi al comando di brigata e decisi che lo avrei usato per obbligare chi era dentro a prestarmi attenzione. Così iniziai a sparare a terra, sulla soglia, e attesi di vedere cosa succedeva. Subito, una mezza dozzina di chirurghi e infermieri militari aprirono timidamente la porta lasciandomi entrare. Mi presentai. Qualcuno di loro mi riconobbe perché mi aveva visto al comando e iniziarono a trattarmi con fare amichevole. Quando mi chiesero perché mi fossi messo a sparare, raccontai loro quel triste episodio, spiegando che non avevo alcuna intenzione di fare la stessa fine. Compresero le mie ragioni e si scusarono.
Mi tolsi di dosso il mantello, completamente coperto di neve, e mi avvicinai alla stufa per riscaldarmi. Mentre sorseggiavo un caldo punch al rum, iniziai a guardarmi attorno. La confusione era sconcertante e gli uomini che mi circondavano apparivano duramente provati: mutilati, feriti e ammalati in preda a dolori e sofferenze atroci. Sembrava un autentico purgatorio.
Quando il responsabile dell’ospedale apprese dello scopo della mia missione, disse che avrei potuto prendere senza problemi i registri poiché l’ufficiale che stavo cercando era in fin di vita. Tuttavia, aggiunse, avrei dovuto lasciare immediatamente l’ospedale, c’erano troppi casi di infezione e rischiavo il contagio.
Protestai e gli dissi che uscire con quella terribile tormenta, a quell’ora della notte, era fuori questione, dato che avrebbe significato morte certa come era stato nel caso del soldato ignoto. Il dottore cedette, ma precisò che non c’era nessuno spazio libero dove potessi riposare. Gettai uno sguardo intorno e mi accorsi di una scala che conduceva al solaio: forse sopra avrei trovato un piccolo spazio dove sistemarmi.
Salii e iniziai a procedere a tentoni nel buio più nero, inciampando su corpi di sconosciuti, finché trovai abbastanza spazio per potermi sdraiare sul pavimento.
Mi stesi a terra, stanco com’ero per quell’infinito girovagare in cerca dei registri, e cercai di prendere sonno. Quasi subito, sentii qualcosa muoversi rapidamente sul mio petto e poi piombarmi sulle guance. Prima che potessi realizzare di cosa si trattava, una dozzina di animaletti circa mi scorrazzavano su e giù per il corpo. Mi immaginai come un novello Gulliver. Una volta accortomi che questi ospiti indesiderati avevano lunghe code sporgenti che mi solleticavano le orecchie e strofinavano contro il mio naso, capii che si trattava di una famiglia di topi di campagna, dovevano essere anche ben nutriti a giudicare dal fatto che ciascuno di loro raggiungeva tranquillamente la stazza di un gatto di casa!4
La prima cosa che feci, chiaramente, fu alzarmi e scacciarli di dosso. Per fortuna, a portata di mano c’erano delle coperte e con quelle riuscii ad avvolgermi dalla testa ai piedi, stando ben attento a non lasciargli nessun passaggio per entrare. Le arrotolai in modo così stretto che c’era da soffocare. Ero passato dal battere i denti per la gelida tormenta al non potere quasi respirare per il caldo opprimente. Alla fine, riuscii ad addormentarmi, sebbene quei ratti mi tennero sveglio per un po’ giocando ad acchiapparella sulla mia coperta.
Quando mi svegliai, la luce del sole mi permise di guardare cosa avessi attorno. Fui stupito di vedere alloggiati lì così tanti soldati feriti o febbricitanti. Non riuscivo a spiegarmi come potessero riposare, dato che venivano usati senza sosta come campo da gioco da quell’esercito di roditori. Ma eravamo in guerra e in tempo di guerra le cose più strane sono possibili.
Ritornato a Čiginj, conobbi i miei nuovi commilitoni e presto mi accorsi che dei vecchi compagni ne erano rimasti ben pochi. Erano praticamente tutte facce nuove. La maggior parte dei miei amici aveva compiuto l’estremo sacrificio oppure era stata trasportata negli ospedali da campo, il loro destino era di restare paralizzati, storpi o mutilati per il resto della vita.
Ansioso di sapere a quale sorte fosse andato incontro Frank, camminai sino alla trincea occupata dall’8a compagnia, ma di lui non vidi traccia. Perciò andai dal collega che teneva i registri e chiesi sue notizie. A quanto pare, anche lui era nuovo. Mi porse l’elenco così che potessi guardare io stesso. Lo sfogliai rapidamente finché non giunsi al nome di Frank: aveva una croce incisa sopra con accanto la scritto: «Disperso». E c’era anche una data, 26 ottobre: esattamente un mese dal giorno, e forse anche dal minuto, in cui aveva sfiorato la tomba di sant’Antonio a Padova. Frank era scomparso tra le rovinose alture del Santa Lucia, scagliato giù da quel precipizio roccioso, verso la tomba. Non c’era nessuna possibilità che fosse stato preso prigioniero5.
Il termine «disperso» era, allo stesso tempo, vero e non vero. Nessuno può essere dichiarato deceduto, né dalla legge né dall’esercito, in assenza del corpus delicti. Frank, da allora, è rimasto uno che si è «perso», com’era stato perso e confuso nel corso di tutta la sua esperienza nell’esercito. Ma, alla fine, aveva terminato il suo viaggio, raggiungendo finalmente la terra della caccia felice6. Solo quando ci rincontreremo, solo allora, potrò sentire da lui com’è andata veramente. Tornai alla mia branda. Ero frastornato e pieno di sgomento.
Mentre mettevo ordine ai registri e al libro paga della 7a compagnia, pensavo a quanto ingiusta fosse la guerra. Stavo facendo quel lavoro in una casa abbandonata che l’esercito adoperava per gli uffici della compagnia, usavo un letto finemente intagliato a mano, con un vecchio ma buon materasso di lana per sedermi, e le doghe che tenevano le molle come poggiapiedi. A volte, mi distraevo e iniziavo a interrogarmi con tristezza sui legittimi proprietari e inquilini a cui era stato requisito quel posto e che erano stati gettati in mezzo a una strada, lasciando la loro casa e i loro mobili sottoposti a un’immotivata distruzione da parte di un esercito straniero.
Quella che un tempo doveva essere stata una splendida stanza piastrellata in marmo fungeva ora da postazione per il fuoco su cui i soldati abbrustolivano grossi pezzi di formaggio e preparavano la fonduta. Ogni mobile, ad eccezione del letto, era stato fatto a pezzi, gli infissi di legno rimossi e tutto era stato bruciato in mezzo alla stanza da pranzo. Nel soffitto avevano aperto una larga fessura per far uscire il fumo. Curiosamente, il solo altro oggetto, oltre il letto, che non era stato sacrificato alle fiamme era una litografia a buon mercato, «prodotta in Germania», che raffigurava Cristo e mi guardava dal muro di fronte. In mezzo a tutta quella distruzione e a quel vandalismo, la Sua immagine mi sembrava più bella che in tutti i dipinti dei più grandi artisti.
Il Suo atteggiamento era quello di benigna commiserazione, lo stesso sguardo di divina compassione che aveva concesso ai deboli smidollati7 e ai folli che erano oppressi dai forti e dai saggi della Palestina8. La Sua presenza, anche se in quel pezzo di carta, sfidava la mia coscienza, sebbene non sembrasse comunicare niente di particolare a nessun’altro in quella stanza. Del resto, in quell’ufficio era all’ordine del giorno un linguaggio osceno e blasfemo che accomunava credenti e non. Quanto a me, non potevo fare a meno di contemplare quella figura sulla parete, e il silenzio eloquente del Suo sguardo fisso e penetrante fece centro nel mio cuore.
Lo rinominai il Cristo di Čiginj. Un’immagine così capace di catturarmi non l’ho mai più vista.
La prima settimana di dicembre il nostro battaglione fu spostato alla destra del monte Santa Maria. Dato che avremmo abbandonato quella stanza malconcia, rivolsi un ultimo sguardo a quel Cristo di cartone. Non accettavo l’idea di abbandonarlo lì; presi quella litografia e la portai via con me sotto la mantella, custodendola come fosse la cosa più preziosa su tutta la terra. Avevo deciso, in quel momento, che quel Cristo rubato ci avrebbe seguito ovunque fossimo andati, certo che mi avrebbe protetto da ogni pericolo.
Portato via da quella casa dove era rimasto per una decina d’anni o forse di più, lo tenni nascosto nella mia branda sul monte Santa Maria, custodendolo gelosamente, lontano da ogni possibile danno o dal rischio che andasse perso.
Nel frattempo, avevo finito di apportare le doverose correzioni ai registri della compagnia: li trovai scombinati e pieni di errori e diciture sbagliate. I morti figuravano come vivi o trasferiti in ospedale, i feriti risultavano già morti, così come alcuni degli uomini ancora con noi in trincea. Fu un lavoraccio ristabilire le corrette annotazioni accanto a ogni nome. L’elenco così rivisto, giunto al campo di Piacenza, portò a molti nuova speranza e gioia, ma gettò altri nello sconforto e nel disincanto.
Poco dopo aver terminato questo compito, mi si presentò davanti un altro incarico fastidiosamente lento e noioso. Un messaggio dal comando del reggimento annunciava l’istituzione, per quell’inverno, di periodi di licenza di quindici giorni che avrebbero interessato l’intero esercito, ufficiali e non, a rotazione. Eravamo tutti concordi nel dire che quella era la notizia migliore che avessimo mai avuto. L’intero campo era in festa. Erano tornati i giorni felici9. Una relativa quiete regnava su tutto il fronte. Presto avremmo goduto tutti del meritato riposo e il Natale era alle porte.
Arrivarono i moduli per fare richiesta di licenza, scatenando la corsa ad accaparrarsi per primi quei preziosi fogli. Tutti volevano partire subito. Le norme prevedevano che la licenza potesse essere concessa a gruppi di venti alla volta. Al ritorno dei primi venti soldati dal loro periodo di congedo, un altro gruppo composto dallo stesso numero di persone sarebbe potuto tornare a casa. Erano considerati idonei ad avere il permesso soltanto coloro i quali avevano iniziato a prestare servizio al fronte prima del 1° ottobre. Io rientravo per un soffio, visto che la data del mio arrivo alla compagnia risultava dai registri essere il 30 settembre.
La selezione dei gruppi veniva fatta in base all’anzianità di servizio al fronte. Iniziammo quindi a stilare la lista dei nomi per il primo contingente da mandare a casa. Il tenente Volpe, chiaramente, fu il primo dell’elenco. In ogni caso, a dispetto di ogni favoritismo, feci in modo che fossero inseriti con lui coloro i quali erano effettivamente al fronte da più tempo.
Quanto a me, lasciai di proposito il mio nome fuori da quella lista, non c’era alcuna possibilità che vedessi la mia famiglia per Natale. Infatti, anche se nella mia posizione privilegiata avrei potuto facilmente aggiungere il mio nome alla lista, pensa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Emilio Franzina
  6. Introduzione di Claudio Staiti
  7. L’invisibile guardia del corpo. Un’autobiografia vera. di Vincenzo D’Aquila
  8. Premessa
  9. Parte prima. Quando iniziai a ragionare
  10. Parte seconda. Quando arrivai a una ragionevole conclusione
  11. Parte terza. Quando misi in pratica il mio ragionamento
  12. Note
  13. Appendice