Cuore tedesco
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Cuore tedesco

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Cuore tedesco

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Possiamo fare a meno della Germania? Possiamo scrollarci di dosso l'Europa? Dietro le convulsioni della crisi, continua a serpeggiare lo spettro di queste domande. Ma che cos'è, oggi, la Germania? È lo stesso paese che ha rappresentato, da Bismarck in poi, il più grande problema dell'Europa moderna, o non è intervenuto un cambiamento epocale che l'ha trasfigurata? In principio c'è una data, il 9 novembre 1989: la caduta del Muro di Berlino. Quel giorno, nella città simbolo della guerra fredda, è finito il Novecento, il «secolo più violento della storia dell'umanità»: si è dissolto l'ordine geopolitico stabilito dalla seconda guerra mondiale e nel cuore del Vecchio continente è tornata, protagonista assoluta, la Germania. A oltre vent'anni dalla caduta del Muro, infatti, il modello tedesco si sta rivelando il più efficiente dal punto di vista economico il più deciso nella difesa del sistema di welfare europeo. E alla nuova Germania è intimamente legata l'idea stessa di una nuova Europa. Anche l'Europa, in effetti, è uscita radicalmente trasformata da quell'evento: la generosa speranza dei padri europeisti era nata come risposta all'epoca «di sangue e di ferro» della guerra civile europea, avendo come presupposto implicito la persistenza di una Germania divisa. Ma l'unificazione tedesca ha cambiato tutto. Cosa ne sappiamo noi, oggi, di questa nuova Germania, del gigante d'Europa che suscita nei suoi partner scarsa simpatia e crescente apprensione? Non sarebbe meglio, prima di temerla, cercare di capirla? Angelo Bolaffi, profondo conoscitore della realtà tedesca di ieri e di oggi, intraprende un lungo viaggio nella storia e nella politica del paese che rappresenta il cuore d'Europa per far luce sulle ragioni di quel «miracolo tedesco» che è spirituale ancor prima che economico. Un percorso necessario, questo, perché la costruzione di un'autentica Europa unita, non solo dal punto di vista monetario, non può che passare per un duplice riconoscimento: gli europei devono guardare alla Germania con occhi diversi rispetto al Novecento e accettare il ruolo di egemonia che le deriva dalla storia; e la Germania, il paese che ha fatto dolorosamente i conti con il suo tragico passato, proprio per questo ha il dovere oggi di assumersi la responsabilità del futuro dell'Europa.

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Informazioni

Argomento
Storia
Parte terza
Cuore e ragione dell’Unione europea

I. Una questione vecchia e nuova

La Germania non è una nazione, essa è il terreno degli antagonismi europei, la «quintessenze de l’Europe».
(Louis Dumont)
È politicamente necessario anche se da un punto di vista emotivo terribilmente difficile ripensare in modo nuovo la questione tedesca.
(Peter Gay)
«Europa: un nome dai significati molteplici, anche nel passato remoto»1. Per questo è molto difficile dire cosa sia e dove sia l’Europa. Di sicuro non ci aiuta la geografia: su un atlante, infatti, essa ci appare, come l’ha definita Paul Valéry, «una penisola dell’Asia». Se a Occidente la situazione è tutto sommato ben definita – le Colonne d’Ercole dell’Oceano Atlantico a segnare il limes – molto diversa è invece la situazione sul confine orientale. Risulta infatti impossibile in termini meramente geofisici tracciare una sicura linea di separazione tra Europa e Asia (come conferma l’ambiguità territoriale e culturale della Turchia). È alla storia, allora, che dobbiamo chiedere aiuto perché, come ha scritto Federico Chabod, «l’Europa è soprattutto opera della Storia». L’Europa è un’idea politica, una proiezione spirituale, un sistema di valori e un progetto di organizzazione di società che sin dall’antichità classica si è definita polemicamente, per contrapposizione: «uno sguardo allo sviluppo del sentimento europeo del “noi” dalla battaglia di Salamina fino a oggi offre di questo una spiegazione tanto semplice quanto deprimente: l’Europa è stata capace di unirsi sempre solo contro qualcosa, mai per qualcosa. L’Europa ha conosciuto la sua unità soprattutto quando si è trattato di respingere una minaccia comune, fosse questa reale o immaginaria»2. Il termine «Europa» venne infatti usato nell’antica Grecia per indicare l’alleanza di Greci e Macedoni contro la minaccia dei «barbari persiani». Riassumendo: «l’Europa è un luogo geografico mal definito sul quale poggia un’entità storica la cui identità è di controversa determinazione, un nome che fluttua alla ricerca di una realtà»3. Questo spiega perché gli europei abbiano combattuto guerre nelle quali entrambi i contendenti hanno proclamato (alcuni in mala fede) o creduto (sinceramente) di lottare e morire in nome degli ideali europei: «dai tempi della Rivoluzione francese4 assistiamo al dilaniarsi dei popoli in nome dell’Europa. È l’étrange paradoxe di cui ha parlato Raymond Aron a proposito della nostra storia più recente: mentre il continente si disgregava in Stati nazionali, e il nazionalismo conquistava masse e popoli […] l’idea d’Europa continuava a brillare in cieli ideali»5. Dopo che in Germania e in Austria negli anni tra la fine della prima guerra mondiale e la Repubblica di Weimar il mito di una fantomatica «Mitteleuropa» aveva riempito d’entusiasmo l’animo di professori e di retorica i discorsi dei politici, l’avvento del fascismo in Italia (e in mezza Europa) e poi del nazismo in Germania misero in luce l’ambiguità politica e culturale che era immanente al riferimento dei cosiddetti «valori europei». Hitler, ad esempio, presentò la guerra di annientamento sul fronte orientale e la persecuzione razziale antiebraica come «crociata dell’Europa contro il pericolo bolscevico». Mentre fu proprio in nome dei valori dell’umanesimo e dell’Europa cristiana che decisero di passare all’azione i congiurati del fallito attentato anti-hitleriano del 20 luglio del 1944. Sangue d’Europa, così si intitola la bella raccolta di scritti di Giaime Pintor, massimo germanista italiano morto nella lotta di Resistenza. I nazisti, invece, intitolarono a Carlo Magno6 una delle più sanguinarie divisioni delle SS.
Fu proprio nei terribili ultimi anni di guerra, soprattutto in Italia e Germania, che cominciò a farsi strada, tra quanti eroicamente erano in lotta contro Mussolini e Hitler, l’idea di una federazione europea quale antidoto al ripetersi delle tragedie che avevano segnato la prima metà del Novecento. Nel 1944 Eugenio Colorni pubblicò in clandestinità il «Manifesto di Ventotene» intitolato Per un’Europa libera e unita, scritto in carcere da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. E sempre in quello stesso anno Carl Goerdeler7, che nell’autunno dell’anno precedente aveva sostenuto la necessità della «fondazione di una federazione che impedisca il ripetersi di una guerra europea», aveva promosso una «dichiarazione sulla collaborazione europea» approvata dai rappresentanti della Resistenza antifascista e antinazista di nove paesi che prevedeva «per il dopoguerra la formazione di un governo europeo, di un tribunale europeo e di un esercito comune». È stata, dunque, la loro «guerra civile» della prima metà del Novecento e la terribile esperienza del fascismo che ha imposto agli europei di passare dalla teoria alla pratica: i generosi appelli degli intellettuali, infatti, non erano stati capaci di frenare le pulsioni autodistruttive del Vecchio continente. Erano necessarie concrete scelte di natura politica e istituzionale. E se dopo la prima guerra mondiale il progetto di un’Europa unita, come ad esempio quello della Paneuropa di Coudenhove-Kalergi, era precocemente abortito con il fallimento della Società delle nazioni, dopo il 1945, nel contesto della nuova realtà storica e geopolitica seguita alla sconfitta del criminale «assalto al potere mondiale» della Germania nazista, gli europei iniziarono a convincersi che non avevano alternativa: l’unico futuro possibile stava nel superamento delle loro storiche inimicizie nel segno di una collaborazione politica che segnasse la definitiva archiviazione dell’epoca dei nazionalismi. Ma a forzare la mano degli europei, obbligandoli a tradurre questa diagnosi in scelta politica, è stata non solo la memoria del passato ma anche la coscienza dell’imminenza di un nuovo pericolo sull’orizzonte della politica mondiale e sul futuro della libertà in Europa: quello della minaccia sovietica. Fu Winston Churchill nel discorso tenuto il 5 marzo del 1946 a Fulton (Missouri) a comunicare all’opinione pubblica mondiale cosa davvero stesse accadendo nei paesi dell’Europa orientale «liberati» dall’Armata rossa: «da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro8 è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia». L’alleanza antinazista che aveva tenuto assieme le potenze anglosassoni e l’Urss di Stalin si era rapidamente dissolta lasciando il posto a una contrapposizione planetaria di due blocchi antagonisti: da un lato l’Occidente democratico e «capitalistico», dall’altro l’Oriente nel segno del comunismo sovietico e cinese. Questo spiega perché pochi mesi dopo, nel settembre, in un discorso tenuto nell’Università di Zurigo, lo stesso Churchill reputò necessario affrontare il tema del futuro dell’Europa nelle mutate condizioni politiche prodotte dalla sconfitta della Germania e dalla nascente guerra fredda. Per la prima volta un leader europeo indicò l’obiettivo della formazione degli Stati Uniti d’Europa (dei quali però, Churchill si affretta subito precisare, non farà parte la Gran Bretagna)9 quale speranza «per centinaia di milioni di uomini che desiderano essere felici e liberi, soddisfatti e sicuri, e che vogliono vivere secondo i principi della Carta atlantica»10. Il grande disegno di dar vita agli Stati Uniti d’Europa, i cui lineamenti nel discorso di Churchill appaiono, per la verità, ancora molto vaghi e del tutto imprecisati, se non per l’esplicita indicazione della necessità di una leadership morale e culturale della Francia come fondamento per la «recreation of the European family», è figlio, dunque, di due paure11: quella del presente, la minaccia sovietica. E quella del futuro, la possibile rinascita del «pericolo tedesco»: due le ragioni che indussero Churchill nel 1946 a invitare i francesi a riconciliarsi con i tedeschi per fondare gli Stati Uniti d’Europa: la creazione di una resistenza comune contro la minaccia dell’Urss e l’imbrigliamento della Germania in un’ampia unione. Il grande obiettivo delle forze occidentali è, dunque, quello di contenere la minaccia sovietica con la costruzione di un sistema di difesa del mondo occidentale (creazione della Nato) e di garantire la stabilità europea «tenendo a bada» la Germania: «to keep the Russians out and to keep the Germans down», secondo la celebre formulazione di Lord Ismay. Due aspetti tra loro sistematicamente connessi di una complessiva strategia che resterà, salvo ovvi e necessari aggiustamenti, immutata fino alla «grande trasformazione» del 9 novembre 1989.
Proviamo a riassumere: a partire dal 1870 la «questione tedesca» è stata il motivo principale (anche se non l’unico ovviamente) della strutturale instabilità del sistema europeo degli Stati. La Germania, da Bismarck in poi, è diventata l’incubo della Francia e l’ossessione di tutta l’Europa. Le conseguenze di questo «dissidio europeo» sono state terribili: due guerre mondiali (precedute dalla guerra franco-tedesca del 1870) e dopo la capitolazione del Reich nazista dell’8 maggio 1945 la divisione dell’Europa e la dissoluzione dello Stato nazionale tedesco. Come tre secoli prima all’epoca della guerra dei Trent’anni (e dello scontro tra cattolici e protestanti), la Germania durante la guerra fredda è nuovamente tornata ad essere campo di battaglia di due planetari schieramenti contrapposti guidati da inconciliabili visioni del mondo. La cortina di ferro è diventata confine tra due Stati tedeschi «nemici», ma anche linea di demarcazione tra due blocchi in lotta tra loro per il dominio del mondo: «la divisione della Germania è il punto di coagulo di quella tra due Europe. Segna il punto di sutura della guerra fredda»12, che non a caso finirà solo con la caduta del Muro di Berlino.
Forse potrà suonare paradossale o cinicamente realpolitisch ma è invece così: la guerra fredda e la minaccia sovietica hanno costretto gli europei d’Occidente a pensare alla necessità di costruire la loro unione e questa ipotesi si è rivelata praticabile proprio perché la divisione dell’Europa aveva «risolto» la questione tedesca. Anche se, ovviamente, altri fattori hanno pure avuto il loro peso. Primo fra tutti il successo economico dell’Europa postbellica – il riferimento è ovviamente ai «due miracoli economici» dell’Italia di De Gasperi e della Repubblica federale di Germania guidata da Adenauer (due ferventi europeisti e al tempo stesso convinti filo-atlantici), «miracoli» resi possibili dall’impegno economico americano del Piano Marshall13 – «la guerra fredda ha prodotto, dunque, anche un ambiente ideale perché l’Europa occidentale potesse sviluppare un proprio sistema regionale. Una Germania divisa e occupata ha profondamente pacificato e incoraggiato la cooperazione franco-tedesca. Mentre l’occupazione da parte sovietica di così tanta parte dell’Europa orientale e centrale ha tolto di mezzo una delle tradizionali cause della contesa di Francia e Germania. Il fatto di poter affidare la sicurezza alla Nato a guida americana ha consentito agli europei di evitare la pericolosa questione del primato militare»14. E soprattutto ha consentito agli europei di provare a risolvere per via pacifica quello che per l’Europa da quasi un secolo aveva rappresentato il vero cruccio storico e il dilemma geopolitico: la questione tedesca.
Dovettero trascorrere alcuni anni prima che il progetto di costruzione degli Stati Uniti d’Europa lanciato da Churchill cominciasse a muovere i primi passi concreti: nel maggio del 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Schuman (cordialmente detestato da de Gaulle, che lo definiva un boche, un crucco «con i piedi a Parigi e il cuore a Berlino») presenta il piano elaborato da Jean Monnet per la produzione integrata al livello europeo del carbone e dell’acciaio, i due materiali simbolo dell’inimicizia europea (e di quella franco-tedesca in particolare). Un anno dopo a Parigi nell’aprile del 1951 vennero sottoscritti da Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo i trattati per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, in nuce quella che con i Trattati di Roma del 1957 diverrà la Comunità economica europea. Sin dai suoi primi passi questo progetto presentò una profonda, forse bisognerebbe dire inconciliabile, divergenza su quali ne dovessero essere senso e finalità. Una contrapposizione di natura politica e spirituale tra due differenti idee d’Europa che a loro volta rimandavano a due diverse visioni del mondo. Una divergenza teorica e filosofica tra due teologie politiche: quella federalista e quella confederale, che sarebbe forse più appropriato definire sovranista. Rispondere alla domanda quale Europa significò inevitabilmente confrontarsi sulle ragioni storiche che della crisi europea erano state causa. Motivare perché fosse necessaria l’unità d’Europa comportò una ricognizione concreta delle condizioni concrete sociali e politiche, sulla quale le opinioni si rivelarono tutt’altro che concordi. Sul dilemma come fare quale Europa si è prodotta una contrapposizione di ordine strategico e istituzionale che da allora ha accompagnato, sia pure declinata con accenti differenti, il dibattito europeista e la politica europea dagli anni cinquanta del secolo scorso ai nostri giorni. Europa dei cittadini o Europa degli Stati? Europa federale o confederazione di Stati sovrani?
Tesi centrale del federalismo, pur nella varietà di declinazioni, da quella di matrice cristiana a quella laico-radicale, è la necessità per l’Europa di «mirare all’ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione elvetica» (Luigi Einaudi). Premessa ineludibile, sul piano pratico come su quello teorico, per poter realizzare questo obiettivo è il superamento della pretesa autarchica degli Stati nazionali in quanto causa prima della crisi europea (e delle due guerre mondiali). Secondo la critica federalista, infatti, proprio la specifica caratteristica che per i teorici della moderna teoria dello Stato (da Bodin a Max Weber) di questo costituisce essenza e fondamento, e cioè l’esercizio in forma «assoluta» del potere sovrano, conterrebbe nel suo Dna i germi patogeni di un’ineluttabile degenerazione bellicista: «la pretesa alla sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello Stato sedicente sovrano». Uno Stato sovrano (nella letteratura europeista non è sempre chiaro se questa diagnosi valga solo per gli Stati europei o per lo Stato nazionale tout-court) è, dunque, sempre e inevitabilmente uno Stato aggressivo animato da mire imperialiste. Al contrario, invece, «entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati»15. Per realizzare l’obiettivo di portare finalmente la pace in Europa (e nel mondo)16 e regolare i rapp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Europa 2014 Introduzione alla seconda edizione
  5. Vent’anni dopo
  6. Parte prima: Nuova Germania, vecchio europeismo
  7. Parte seconda: Germania, paese modello
  8. Parte terza: Cuore e ragione dell’Unione europea
  9. Indice