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Storia della mafia
La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri
- 338 pagine
- Italian
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Storia della mafia
La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri
Informazioni su questo libro
La mafia fa affari ma non è una congrega di affaristi. Traffica, ma non è una banda di trafficanti. Tratta con i politici ma non è un partito politico. È un'organizzazione criminale ma non è solo «criminalità organizzata». Cos'è, dunque, la mafia? Il fortunato saggio di Salvatore Lupo per la prima volta indaga con completezza e rigore storiografico l'intero arco della vicenda più che secolare della mafia siciliana, dalle origini ottocentesche dell'organizzazione mafiosa e delle sue ideologie agli esiti più recenti degli anni novanta del Novecento. Emerge con forza il ritratto di una struttura criminale che aspira a modellarsi sullo Stato prendendone in appalto le funzioni fondamentali, dal monopolio della violenza al controllo territoriale. Ecco allora la necessità di ricostruire la vita secolare delle «signorie territoriali», dei gruppi familiari e criminali operanti innanzitutto nei ristretti territori della città e della provincia di Palermo, vero e stabile fulcro dell'organizzazione mafiosa: da qui ripartendo fino a sciogliere i mille sanguinosi fili che la connettono alla nazione e al più vasto mondo.
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Informazioni
Argomento
StoriaCategoria
Storia mondialeV. La cosa loro
1. L’antimafia.
Se passa una ragazza formosa un siciliano vi dirà che è una ragazza mafiosa, se un ragazzo è precoce vi dirà che è mafioso. Si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli colleghi, mi pare che si esageri1.
Siamo nel 1949. Questa considerazione minimalista finge di basarsi su osservazioni «sul campo» e deve invece molto a una tradizione letteraria, cioè al solito Pitrè. Chi la propone è Mario Scelba, ministro degli Interni celebre per la durezza verso le manifestazioni operaie e contadine, che verrà chiamato in causa da Pisciotta quale mandante della strage di Portella. La mafia non esiste, ovvero si riduce a tenue categoria culturale: la tesi viene condivisa negli anni cinquanta dalla gran parte della società regionale e nazionale man mano che i mafiosi si vanno integrando nel partito di maggioranza, ancor più agevolmente dei tradizionali gruppi dirigenti che inghiottono il boccone amaro della riforma fondiaria e gestiscono un’aurea decadenza tra finanziamenti e impieghi regionali. Scompare l’antimafia di destra e con essa la tensione antimafiosa negli apparati statali. Sono questi gli anni in cui Lo Schiavo elogia Vizzini, Genco Russo e la mafia d’ordine2.
I mafiosi si sono guadagnati qualche benemerenza scegliendosi gli stessi avversari del governo e della borghesia. Ha un suo valore simbolico il fatto che a Sciara gli assassini di Salvatore Carnevale si riuniscano nel medesimo edificio che ospita la caserma dei carabinieri, pur accedendo ad esso da una scala diversa. Gli uni e gli altri hanno a lungo pressato il sindacalista perché «lasci stare i partiti», abbandoni la politica: «picca nn’hai di ’sta maladrineria»3, gli predice un campiere. Emblematica è anche la figura del sospetto mandante dell’omicidio Miraglia, Gaetano Parlapiano-Vella tornato ai fasti del potere dopo il confino fascista4. Le inchieste relative a questi delitti restano capolavori di sciatteria, si incagliano al livello poliziesco o a quello giudiziario: qualcosa di più dell’insipienza, qualcosa di meno della complicità. Finisce sotto il fuoco delle polemiche Carlo Alberto Dalla Chiesa, ufficialetto del Cfrb, comandante la squadriglia di Corleone, che prova a muoversi al di fuori degli schemi burocratici.
Resta da sola la sinistra a gridare contro la mafia, a rivendicare i propri morti, a denunciare le collusioni: denuncia che ha tante minori possibilità di essere accolta quanto più proviene da una parte politica dopo il ’48 del tutto isolata. Ben diverso sembra l’atteggiamento delle autorità negli Stati Uniti, da dove giungono gli stimoli per la riapertura del dibattito anche in Italia. Nel 1953 viene tradotta da Einaudi l’Inchiesta Kefauver5, da considerarsi il primo libro del dopoguerra sul nostro argomento. Segue nel ’56 La mafia di Reid, sulle tracce (alquanto confuse) del complotto siciliano contro la virtuosa America; testo che gode dell’immeritato onore di una prefazione del grande giurista Piero Calamandrei, il quale apprezza proprio che la Sicilia venga considerata «l’incubatrice centrale della delinquenza americana»6 esprimendo l’auspicio che una pressione, magari un’inchiesta internazionale, possa sollevare il coperchio democristiano. Il comunista Francesco Renda trova che si tratta di «un’opera coraggiosa […] che ci fa ricordare con amarezza il lungo silenzio in tutti questi anni della nostra letteratura»7. Le ragioni di questi apprezzamenti sono evidenti. Il riconoscimento dell’esistenza della mafia proviene dal grande protettore d’oltreoceano delle forze che in Italia sostengono l’esatto contrario; le commissioni parlamentari statunitensi fungono da modello per la sinistra italiana, esclusa dal governo e sospettosa di ipotesi repressive affidate alla polizia di Scelba; si prospetta la mobilitazione di un tipo di stampa da «prima linea» che l’Italia centrista guarda con sospetto.
Kefauver […] ricorda anzi che l’idea stessa di dar vita alla commissione si deve a sedici «aggressivi» quotidiani del paese che si batterono con ogni mezzo. […] Si possono pure sin d’ora tener presenti le condizioni notevolmente diverse in cui si è trovata a operare la stampa italiana rispetto a quella americana. […] Il giornale o il giornalista americano degli anni ’50 hanno dovuto fare i conti, oltre che con i gangsters, col governatore colluso, col poliziotto complice, col magistrato pavido e corrotto, ma in fondo l’intera macchina dello Stato confederale non se la sono trovata contro8.
La considerazione è di Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano palermitano di sinistra «L’Ora» che in due riprese, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, promuove grandi reportage a puntate denunciando i rapporti della Dc con la mafia (e che viene anche fatto oggetto di un clamoroso attentato dinamitardo): è un giornalismo dai grandi titoli ad effetto che però cerca anche di scavare nei casi di Corleone e nel sacco edilizio della capitale, di dare ad essi profondità storica riesumando le vecchie storie su Cascio-Ferro o le cronache dei processi degli anni venti. Ma è tutto un mondo di giornalisti e intellettuali engagé, sul finire del centrismo, a proporre o riproporre la questione. Un personaggio atipico è il sociologo triestino Danilo Dolci che introduce lo sciopero della fame nella tipologia italiana della protesta, costruisce centri nella zona di Partinico, conduce ricerche e stende dossier sul banditismo, la povertà, il clientelismo9. Altri provengono da una Sicilia profonda e antica: un geometra di Villalba, Michele Pantaleone; un medico di Montemaggiore, Simone Gatto10; un maestro di Racalmuto, Leonardo Sciascia. Il primo riconduce la mafia al concreto di una storia paesana e di una figura di notabile, don Calò; il secondo la inquadra nella tematica del meridionalismo classico alla Franchetti; il terzo gioca tra narrativa e saggistica la sensazione che la mafia riveli una generale corruttela, non si comprende mai se generalmente italiana o specificamente siciliana.
Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America – pensa il capitano Bellodi di fronte al mafioso don Mariano – Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. […] Sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le auto-mobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontarne quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi11.
Per questi intellettuali mafia è fenomenologia del potere: un potere arcaico che viene dall’alleanza tra Dc e destre, tra borghesia e feudalesimo; che riproduce dunque tutti i vizi del trasformismo italico e siculo. Nel ’59 esce Il gattopardo, con la sua ideologia del «tutto cambia perché nulla cambi» verso la quale la sinistra ha un rapporto di odioamore: la detesta come reazionaria ma la considera nel contempo una realistica raffigurazione della condizione isolana, fors’anche una consolazione della propria incapacità di incidere su di essa.
Veramente comunisti e socialisti siciliani riescono a uscire dal ghetto nel 1959-60 con la cosiddetta operazione Milazzo che prende il nome dal notabile calatino, già separatista, protagonista della spaccatura dall’interno della Dc grazie alla quale viene costituito un governo regionale atipico, sostenuto dall’estrema destra e dall’estrema sinistra; nel quale la vecchia classe politica di estrazione agraria fa la sua ultima prova guadagnando consensi su una piattaforma accesamente sicilianista. La sensazione è che alcuni gruppi mafiosi, in transito dai gruppi di destra alla Dc, appoggino questo tentativo di conservare qualcosa delle vecchie autonomie notabiliari contro il nuovo partito-macchina creato da Fanfani: è il caso di Francesco Paolo Bontate alias don Paolino Bontà, proprietario e affittuario di vaste aree ad agrumeto, capo-mafia palermitano tra i più importanti, già separatista e monarchico. Questo schieramento politico è anche quello che vede l’esordio di due gruppi imprenditoriali che successivamente saranno oggetto di dure polemiche per la loro contiguità ad ambienti mafiosi: i finanzieri Salvo di Salemi, i costruttori catanesi Costanzo. Sembra anzi che il gruppo Salvo-Bontate sia tra gli artefici della caduta di Milazzo, con un mutamento di fronte destinato a garantire ai Salvo una «sorta di benevolenza» da parte dell’intera Dc, espressasi nel perdurante monopolio delle esattorie con un aggio (cioè un premio) del 10% contro una media nazionale del 3,312. Secondo il pentito Calderone, la mafia aveva sostenuto Milazzo «in modo fortissimo» anche in ragione delle leggi in sostegno dell’imprenditoria approvate in quel primo esperimento consociativo13: l’idea che il capitale «siciliano» vada comunque protetto, tipica del perverso schema dell’unanimismo regionalista, fa sì che il passato si proietti nel modo peggiore sul futuro.
Caduto Milazzo si va al centro-sinistra, e l’Assemblea regionale invita il Parlamento a dar vita alla Commissione d’inchiesta sulla mafia lungamente richiesta proprio da sinistra, alfine costituita nel 1963: sembra che con l’Italia del centrismo e la Sicilia del latifondo la mafia vada verso la sconfitta. La Commissione avvia un lavoro notevolissimo di documentazione, i cui risultati restano però ignoti ai più; il suo presidente, il democristiano Pafundi, prima annuncia che negli archivi si va accumulando una «polveriera», poi tarda a farla esplodere, finché alla fine della legislatura (1968) la montagna partorisce il topolino di poche, anodine pagine di relazione. Chi auspicava un pubblico processo alla classe dirigente comincia a giudicare l’Antimafia un’«occasione mancata»14. Il partito di maggioranza non è disponibile a farsi giudicare, ma a concedere che nel paniere democristiano vi sia stata qualche isolata mela marcia come il fanfaniano Vito Ciancimino, mentre l’opposizione ribadisce energicamente come un simile personaggio (sindaco di Palermo, assessore all’urbanistica, segretario cittadino della Dc) rappresenti la personificazione di un sistema di potere più vasto fatto di clientele e affari, che si intreccia attorno all’amministrazione comunale palermitana; peraltro da anni la stampa ironizza sul comitato d’affari detto VALIGIO (Vassallo-Lima-Gioia, un costruttore e due politici democristiani), monopolizzatore del sacco edilizio di una città che si espande e si gonfia freneticamente di abitanti. Già l’inchiesta ministeriale affidata al prefetto Bevivino (1964) aveva svelato una prassi che la documentazione della Commissione conferma pienamente: distruzione di antichi edifici e grandi estensioni di verde pubblico o privato, manipolazione dei piani regolatori, appalti truccati, licenze facili, società di comodo.
Cinque oscuri personaggi, ad esempio, hanno monopolizzato l’80% delle licenze […]. Quattro dei cinque beneficiari si dedicavano ad altre attività: uno era ex murifabbro, un altro venditore di carbone, un terzo ingegnere diffidato nel 1957 per avere firmato progetti senza averli né redatti né diretti, un quarto era manovale e guardiano di cantiere in attesa di diventare portiere di uno dei 1465 edifici per i quali aveva ottenuto la licenza15.
Il tipico costruttore di successo, Francesco Vassallo, viene dall’hinterland, la borgata di Tommaso Natale, fa il suo apprendistato quale scassapagghiara negli anni trenta, si lega per via matrimoniale a una famiglia mafiosa locale che avrà due morti ammazzati (fratelli della moglie) nel 1961-62. Nel dopoguerra il suo decollo nel mondo dell’imprenditoria avviene brandendo lo strumento cooperativo, che in questo come in altri casi i mafiosi utilizzano, a preferenza della società per azioni, per «dar vita a microstrutture imprenditoriali nelle quali si consociano tra loro ma anche con soggetti “collaterali” all’organizzazione»16. Insomma all’inizio Vassallo possiede pochi capitali ma non manca di relazioni: come quelle con un’importante ditta di trasporti e lo stabilimento Montecatini di Tommaso Natale, che gli consentono di partecipare agli appalti pubblici garantendo della sua affidabilità. Poi la strada si fa agevole, grazie al credito facile, alle opportune varianti nei piani edilizi, agli scambi di favori e prestazioni con i Lima, i Gioia, e altri notabili come Di Fresco e Matta. Quest’ultimo verrà alla ribalta quando la Dc cercherà di inserirlo tra i commissari dell’Antimafia, suscitando l’energica e vittoriosa reazione dei comunisti capitanati da Pio La Torre.
Tra Dc e Pci si va dunque allo scontro, sino alla contrapposizione tra la relazione di maggioranza (Carraro)17, quelle della minoranza di sinistra (La Torre) e di destra (Pisanò) con cui si conclude la prima fase della vita della Commissione (1976). Ciò non deve però nascondere l’accordo che si era creato tra...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- Indice
- Avvertenza
- I. Introibo
- II. La rivelazione
- III. Guardiani e affaristi
- IV. Democratizzazione, totalitarismo, democrazia
- V. La cosa loro