Parte prima
La selezione di Fitzgerald (1920-1936)
Chi è chi – e perché
Quella della mia vita è la storia di una lotta fra l’impetuoso desiderio di scrivere e una serie di circostanze tendenti a impedirmelo.
Ai tempi in cui vivevo a St. Paul, avrò avuto dodici anni, le ore di scuola le passavo a scrivere sull’ultima pagina del libro di geografia, su quello di latino del primo anno, e ai margini dei temi, delle declinazioni e dei problemi di matematica. Due anni dopo, il verdetto di una riunione di famiglia fu che il solo modo per costringermi a studiare era mandarmi in collegio. Fu un errore. In questo modo fui distolto dalla scrittura. Decisi di darmi al football, al fumo, di andare al college, e di dedicarmi a ogni genere di futile attività che non avesse nulla a che vedere con la vera questione della vita, la quale, naturalmente, consisteva nel trovare la giusta combinazione di descrizioni e dialoghi all’interno del racconto breve.
A scuola, tuttavia, intrapresi una nuova strada. Assistetti a un’operetta intitolata The Quaker Girl e dal quel giorno la mia scrivania cominciò a traboccare di libretti di Gilbert & Sullivan e decine di taccuini pieni di spunti per decine di commedie musicali.
Verso la fine dell’ultimo anno, sul pianoforte trovai lo spartito di un’altra commedia musicale, His Honor the Sultan, il frontespizio diceva che l’opera era stata messa in scena dal Triangle Club dell’Università di Princeton.
Tanto bastò. Da quel momento, la faccenda dell’università era sistemata. Sarei andato a Princeton.
Il mio anno da matricola lo impiegai a comporre un’operetta per il Triangle Club, con conseguenti bocciature in algebra, trigonometria, geometria analitica e igiene. Ma il Triangle Club accettò il mio spettacolo, e grazie alle ripetizioni prese per tutto il mese di un agosto soffocante, riuscii a iscrivermi al secondo anno e ad aggiudicarmi un ruolo da ballerina di fila. Seguì un intervallo. Era dicembre quando lasciai il college per problemi di salute, e trascorsi il resto dell’anno in convalescenza sulla costa occidentale. L’ultimo ricordo che ho prima della partenza è di quando a letto in infermeria, con la febbre alta, scrivevo il testo definitivo per lo spettacolo annuale del Triangle.
L’anno seguente, 1916-17, tornai al college, ma avevo ormai deciso che solo la poesia poteva darmi soddisfazioni, e quindi, con la metrica di Swimburne e la materia di Rupert Brook che mi risuonavano in testa, trascorsi la primavera a comporre sonetti, ballate e rondò, fino alle ore piccole. Avevo letto da qualche parte che tutti i grandi poeti avevano scritto grandi poesie prima dei ventun anni. A me restava solo un anno e, in più, incombeva la guerra. Dovevo pubblicare un libro straordinario di poesie prima di restarne travolto.
In autunno ero a Fort Leavenworth, al campo di addestramento per ufficiali di fanteria, con la poesia nel dimenticatoio e un’ambizione nuova di zecca: scrivere un romanzo immortale. Tutte le sere, con il taccuino nascosto dietro il manuale dei «Piccoli problemi per la fanteria», scrissi, frase dopo frase, una specie di versione riveduta della storia della mia vita e della mia immaginazione. Stilai un piano in ventidue capitoli, quattro dei quali in versi; due vennero completati; ma poi fui scoperto e, dunque, fine dei giochi. Non potevo più scrivere nei momenti di studio.
Una complicazione non da poco. Mi restavano tre mesi di vita (in quei giorni tutti gli ufficiali di fanteria erano convinti di avere solo tre mesi di vita) e non avevo ancora lasciato il segno nel mondo. Ma un’ambizione così impetuosa non poteva essere piegata da una semplice guerra. Ogni sabato, all’una in punto, terminata la settimana lavorativa, correvo al Circolo ufficiali, dove, in un angolo di una saletta satura di fumo, chiacchiere e fruscii di giornale, scrissi un romanzo di centoventimila parole nei fine settimana di tre mesi consecutivi. Niente revisioni; non c’era tempo. Appena terminavo un capitolo, lo inviavo a una dattilografa di Princeton.
Nel frattempo, vivevo fra le sue pagine imbrattate a matita. Le esercitazioni, le marce e i «Piccoli problemi per la fanteria» erano un sogno confuso. Anima e corpo erano tutti rivolti al libro.
Arrivai felice al mio reggimento. Avevo scritto un romanzo. Adesso la guerra poteva pure andare avanti. Smisi di pensare a paragrafi e pentametri, similitudini e sillogismi. Divenni tenente, inviato di stanza oltre confine – ma gli editori mi scrissero che pur non ricevendo da anni un manoscritto originale come L’egotista romantico, non potevano pubblicarlo. Era abbozzato e inconcludente.
Arrivai a New York sei mesi dopo e presentai il mio biglietto da visita ai giovani aiutanti di sette caporedattori diversi, offrendomi come cronista. Avevo appena compiuto ventidue anni, la guerra era finita, e pensavo di inseguire i criminali di giorno e di scrivere racconti di notte. Ma quei giornali non avevano bisogno di me. Mandarono indietro i loro aiutanti a dirmi che non avevano bisogno di me. Dal suono del mio nome sul biglietto, decisero in modo chiaro e irrevocabile che ero del tutto inadeguato al ruolo di cronista.
Divenni invece un pubblicitario a novanta dollari al mese, scrivendo quegli slogan che fanno passare via le ore estenuanti in treno, in mezzo alla campagna. Dopo il lavoro, scrivevo racconti – da marzo a giugno. Diciannove in tutto; quelli più veloci, scritti in un’ora e mezza; quelli più lenti, in tre giorni. Nessuno li comprava, nessuno mi scriveva lettere personali. Avevo centoventidue lettere di rifiuto appuntate su una cornice della mia stanza. Scrissi film. Scrissi canzoni. Scrissi complessi piani pubblicitari. Scrissi poesie. Scrissi bozzetti. Scrissi freddure. Verso la fine di giugno vendetti un racconto per trenta dollari.
Per la festa del quattro luglio, profondamente disgustato da me stesso e dai direttori editoriali, tornai a casa a St. Paul e informai amici e parenti che mi ero licenziato e che ero tornato per scrivere un romanzo. Essi annuirono con gentilezza, cambiarono argomento e parlarono di me con molto tatto. Ma questa volta sapevo quello che facevo. Finalmente avevo un romanzo da scrivere, e per due caldissimi mesi, scrissi e corressi, stilai e asciugai. Il 15 settembre, Di qua dal paradiso fu accettato a mezzo raccomandata.
Nei due mesi che seguirono, scrissi otto racconti e ne vendetti nove. Il nono fu accettato dalla stessa rivista che l’aveva rifiutato quattro mesi prima. Poi, a novembre, vendetti il mio primo racconto ai redattori del «Saturday Evening Post». Prima di febbraio, gliene avevo ormai venduta una mezza dozzina. Poi uscì il mio romanzo. Poi mi sposai. Adesso passo il tempo a chiedermi come sia accaduto tutto quanto.
Per dirlo con le parole dell’immortale Giulio Cesare: «È tutto qui, non c’è altro».
Princeton
A partire dal liceo fino a metà del secondo anno di università, mi tormentò il fatto che non sarei andato e non ero andato a Yale. Mi stavo dunque perdendo un grande segreto americano? Yale possedeva un lustro che a Princeton mancava; i pantaloni di flanella a Princeton restavano sgualciti per tutta la settimana, i capelli erano sempre lievemente scompigliati dal vento. A Princeton nulla veniva compiuto con la stessa perfezione con cui a Yale si organizzavano il ballo delle matricole o le elezioni nei circoli dei laureandi. Dalle lotte all’ultimo sangue per le elezioni dei circoli, con bordate snob e struggimenti adolescenziali, fino all’enigma con cui ti confrontavi all’ultimo anno, per capire ciò che Princeton era e a cosa serviva veramente, tolte le sciocchezze e le ipocrisie, Princeton era comunque sprovvista dello splendore intenso, nitido e affascinante di Yale. Solo quando cercavi di strapparti via dal cuore un pezzo del tuo passato, come feci io una volta, ti rendevi conto del suo potere di destare un amore profondo e imperituro.
I suoi iscritti consideravano Princeton alla stregua di un dogma e sdegnavano qualsiasi tentativo di analisi. Già nel 1899, Jesse Lynch Williams era stato oggetto di un anatema per aver dichiarato che il vino di Princeton contribuiva a rendere i minuti preziosi. Se avesse voluto affermare a gran voce che la sua università era il fior fiore della democrazia americana, e che essa rappresentava consapevolmente e con ardore la norma americana in fatto di ideali di condotta e di successo, sarebbe andato a Yale. Come avevano fatto suo fratello e molti altri della sua scuola. Al contrario, egli aveva scelto Princeton perché a diciassette anni le furie che fustigano la gioventù americana erano divenute troppo coercitive per i suoi gusti. Egli desiderava qualcosa di più tranquillo, di più pacato e di meno esigente. Si vedeva stretto in una competizione sfrenata che voleva spedirlo dritto dritto a New Haven e poi a rotta di collo nel mondo. Le medaglie che ricompensavano il vincitore alla fine di ogni gara erano senz’altro allettanti, ma egli cercava il sapore dei bei pascoli e un attimo per fare un bel respiro e ruminare, prima di andarsi a infilare nella rumorosa battaglia della vita americana. A Princeton trovò altri come lui ed ecco nascere l’atteggiamento beffardo e sottilmente ironico nei confronti di Yale.
Harvard non si concepiva neppure, a Princeton. Quelli di Harvard erano «bostoniani dall’accento affettato», oppure «gente che se ne andava di casa grazie a una borsa di studio Isaac». Lee Higginson & Company procuravano i loro atleti, ma qualunque cosa facessi per Harvard, non potevi appartenere al «Fly» o al «Porcellian» senza essere prima andato alla Groton o alla St. Mark’s. Queste erano impressioni compiaciute quanto errate, poiché Cambridge, per molti aspetti, era lontana miglia e miglia. Harvard rappresentava una serie di relazioni sporadiche, talvolta piacevoli, talvolta ostili – niente di più.
Princeton si trova nel piatto entroterra del New Jersey, una fenice verde che sorge dal posto più brutto del mondo. La squallida Trenton suda e marcisce poche miglia più a Sud; a nord, ci sono Elizabeth, la Erie Railroad e i bassifondi alle porte di New York; a Ovest, la tetra zona a monte del fiume Delaware. Ma intorno a Princeton, a sua protezione, c’è un anello di silenzio – caseifici garantiti, tenute immense con parchi popolati da pavoni e daini, boschi deliziosi e fattorie che nella primavera del 1917 noi percorremmo e tracciammo sulle mappe, in vista della guerra. La frenesia dell’Est è già scomparsa quando il treno locale arriva con il suo sferragliare familiare dalla stazione di coincidenza. Due alti pinnacoli e a un tratto ti ritrovi circondato dal più bel trionfo dell’architettura gotica in America, bastioni su bastioni, sale dopo sale, archi spezzati coperti di rampicanti – belli e rigogliosi su due miglia quadrate di erba verde. Qui la monotonia non esiste; non esiste la sensazione che sia stato tutto costruito l’altro ieri, per il puro capriccio del milionario di turno; Nassau Hall esisteva già da vent’anni quando le guarnigioni assiane ne crivellarono di colpi i fianchi.
Alfred Noyes ha paragonato Princeton a Oxford. Personalmente, le trovo agli antipodi. Princeton è più agile e fresca, e al contempo meno intensa e più sfuggente. Con tutto il suo passato, Nassau Hall si erge vuota e desolata, non come una madre che ha generato figli e reca le cicatrici del suo travaglio, ma come una vecchia balia paziente, scettica e affezionata ai suoi figli putativi che, da americani, non possono appartenere a nessun posto sotto il sole.
Nella mia fase romantica, cercai di evocare la Princeton di Aaron Burr, Philip Freneau, James Madison e Harry Light-Horse Lee, per stabilire una sorta di nesso, per così dire, con il Settecento, con la storia dell’umanità. La catena, però, si era interrotta alla guerra civile, l’eterno anello spezzato nel fluire della vita americana. La Princeton coloniale era, dopo tutto, una piccola università confessionale. La Princeton che conoscevo io, e a cui appartenevo, era cresciuta alla grande ombra del rettore McCosh negli anni settanta dell’Ottocento, grazie alle grandi ricchezze post bellum di New York e Philadelphia era poi arrivata a includere i raduni sportivi e le feste degli studenti con fiumi di birra, e poi ancora la coscienza americana, il Triangle Club di Booth Tarkington e i piani monastici di Wilson per un’utopia dell’educazione. Da qualche parte, si annidava anche un nesso con l’ascesa del football americano.
Infatti a Princeton, così come a Yale, il football divenne, negli anni Novanta, una specie di simbolo. Simbolo di cosa? Dell’eterna violenza della vita americana? Dell’eterna immaturità della razza? Del fallimento della cultura all’interno delle sue stesse mura? Chissà. Al principio era qualcosa che dava soddisfazione, poi divenne essenziale e bellissimo. Molto tempo prima di finire nelle mani di milioni di insaziabili, insieme a Gertrude Ederle e Mrs. Snyder, esso divenne in sostanza lo spettacolo più intenso e drammatico dopo i giochi olimpici. La morte di Johnny Poe con il Black Watch nelle Fiandre fu per me come lo sbattere dei piatti di un’orchestra, una stecca sulle corde di violini trepidanti, un’avventura dello spirito come nessun’altra mai conosciuta a Princeton. Un anno fa, sugli Champs Élysées, incrociai un giovane slanciato dai capelli neri e dall’inconfondibile andatura indolente. Dentro di me qualcosa si fermò; mi voltai a guardarlo. Era il romantico Buzz Law; l’ultima volta che l’avevo visto era stato in un freddo crepuscolo dell’autunno del 1913, mentre scalciava dietro la linea di porta con una benda insanguinata intorno alla testa.
Dopo la bellezza delle sue torri e il dramma dei suoi campi da gioco, il tratto distintivo più noto di Princeton è la sua «clientela».
Una grossa fetta della dorata gioventù, destinata ad assorbire un’istruzione, finisce a Princeton. Gould, Rockefeller, Harriman, Morgan, Frick, Firestone, Perkins, Pyne, McCormick, Wannamaker, Cudhay e DuPont tutti vi approdano per una stagione, godendo di maggiore o minore considerazione. I nomi di Pell, Biddle, Van Rensselaer, Stuyvesant, Schuyler e Cook solleticano la seconda generazione di mamme e papà in possesso di un orto mondano da zappare a Philadelphia o a New York. La classe media è composta da tre dozzine di ragazzi provenienti da quelle accademie che in oro tutto trasformano, come St. Paul’s, St. Mark’s, St. George’s, Pomfret e Groton, e altri centocinquanta da Lawrenceville, Hotchkiss, Exeter, Andover e Hill, più un altro paio di centinaia da scuole private di fama assai minore. Il rimanente venti per cento arriva dal licel e garantisce una cospicua fetta della futura classe dirigente. Entrare a Princeton, per loro, è stata un’impresa più ardua, sia dal punto di vista finanziario che scolastico. Sono allenati e pronti a buttarsi nella mischia.
Ai miei tempi, una decina di anni fa, gli esami della sessione invernale erano un bel setaccio per gli studenti del primo anno. Gli atleti più lenti, i ragazzi ricchi meno dotati dei loro antenati, restavano a frotte ai margini della pista. Spesso arrivavano ai cancelli all’età di venti o ventuno anni, con l’aiuto delle ripetizioni, per poi trovarsi di fronte a un primo esame troppo difficile. Di solito erano una buona cinquantina o sessantina, a essere bocciati. Si lasciavano alle spalle molti rimpianti.
Oggi sono pochi i ragazzi di quel calibro che riescono a entrare. Con il nuovo sistema di ammissione, gli studenti vengono individuati in anticipo in base ai loro contorsionismi e ai loro tentennamenti scolastici, e li si informa che a Princeton c’è posto solo per i normodotati. E questo perché anni fa è insorta la necessità di porre un limite alle iscrizioni. La prosperità in tempo di guerra aveva reso l’università accessibile a molti ragazzi e nel 1921 il numero di candidati in possesso dei requisiti scolastici minimi per Princeton, superava di gran lunga la sua capienza.
Pertanto, a parte gli esami di ammissione, ora il candidato deve presentare il curriculum scolastico, le referenze fornite dalla scuola e da due ex allievi di Princeton, e sottoporsi a un test psicologico sull’intelligenza. I circa seicento candidati che, in possesso di tali credenziali, fanno buona impressione sulla commissione, vengono ammessi. Chi è carente in una materia può talvolta avere la meglio su chi è stato promosso in tutte. Per esempio, un ragazzo con voti eccellenti in matematica e scienze, e un voto basso in inglese, viene ammesso di preferenza rispetto a un altro con una buona media generale ma senza doti particolari. Questo è servito a innalzare il livello delle competenze e a tener fuori gli allievi di livello A, che ai miei tempi comparvero in quattro classi diverse come una sorta di insulto perenne all’intelligenza.
Se i proverbiali giudizi intransigenti dei presidi sugli adolescenti serviranno a tenere fuori i Goldsmith e i Byron, i Whitman e gli O’Neill, è ancora presto per dirlo.
Non posso fare a meno di augurarmi che qualche personaggio poco raccomandabile riesca a intrufolarvisi per mettere il sale sul sale della terra. Il moralismo mal si addice a Princeton. Ai miei tempi era incarnato dal Polity Club. Era un gruppo che ogni quindici giorni sedeva serioso ai piedi del signor Schwab o del giudice Gary, o di qualche altra sorta di sacra effigie importata per l’occasione. Se questi ispirati plutocrati avessero svelato i segreti del mercato, o si fossero anche solo attenuti al modello del cinismo spiccio degli affari, quelle occasioni avrebbero mantenuto una certa dignità, ma al Polity Club somministravano la minestra riscaldata del giornale aziendale e la merendina della produzione, con qualche contentino «sui futuri leader dell’umanità». Sfogliando una copia dell’ultimo annuario, non trovo il Polity Club. Può darsi che adesso soddisfi più nobili scopi.
Il rettore Hibben è un misto di «normalità» e discernimento, di devota lealtà allo status quo e di sottile tolleranza c...