Ma cos'è questa crisi
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Ma cos'è questa crisi

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Ma cos'è questa crisi

Informazioni su questo libro

Marcello De Cecco è uno dei pochi studiosi di economia capaci di fornire una bussola alla lettura della crisi. Il suo sistematico commento alle vicende che da cinque anni caratterizzano la congiuntura economica mondiale più difficile e complessa dell'ultimo secolo è una lezione di metodo storico, di rigore dell'analisi, e anche di stile: spiegare gli arcana dell'economia e della finanza a quelli che non stanno dentro lo stretto recinto degli addetti ai lavori comporta infatti grande padronanza di scrittura, capacità evocativa, e non da ultimo una forte dose di ironia. La diagnosi è ben chiara. Il principio che continua a ispirare le ricette dominanti per uscire dalla crisi è: «prima l'austerità e poi la crescita».Ora, osserva De Cecco, «la prima l'abbiamo da tempo, ma la seconda non si vede, e se la ricetta non ci ha ancora soffocato lo dobbiamo a Obama, che questa ricetta non la applica».Ma quando è nata l'idea che per investire bisogna aver prima risparmiato? «Essa è presente già in Adam Smith, e percorre per più di un secolo l'intera storia della teoria economica. Fino a quando arriva Keynes che, con la forza della disperazione dovuta alla crisi post-bellica, afferma che, al contrario, sono gli investimenti a determinare i risparmi». Le analisi di De Cecco mostrano bene la tensione tra le due spiegazioni, e la divergenza tra le due ricette. Il cuore della crisi europea sta nel continuare a rimanere abbarbicati all'idea dell'austerità a tutti i costi. La battaglia che si conduce in Europa attorno a questi temi è una battaglia aperta, che coinvolge le autorità monetarie, i gruppi politici, le lobby, gli interessi della speculazione e della rendita. Tutti soggetti che si muovono in uno scenario storico complesso, difficile da penetrare. Ma sta proprio qui il fascino della lettura di De Cecco: mai rinunciare a capire, mettendo sempre davanti a tutto la storia.

Domande frequenti

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Informazioni

Il Cavaliere inerte mentre Roma brucia
(1° novembre 2011)

«Mi sono trovato finalmente a pensare, questa settimana, che il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Lo scrive James Stewart sul «New York Times». Così il nostro presidente del Consiglio è arrivato a essere promosso dal ruolo di zimbello della stampa internazionale a quello di possibile innesco di una tragica crisi finanziaria mondiale.
Il governo dell’attuale primo ministro, nei quasi dieci anni nei quali è stato al potere, avrebbe potuto rendersi conto che il debito pubblico pregresso del nostro paese era un autentico barile di polvere pronto a esplodere quando le condizioni finanziarie internazionali lo avessero innescato. Avrebbe dunque dovuto agire in maniera appropriata per ridurlo e metterlo in sicurezza. Al contrario, lo ha addirittura fatto crescere, con le proprie improvvide politiche, vanificando la strategia di rientro che i ministri del centrosinistra, in particolare Visco, hanno tentato quando sono stati al governo. Altrettanto noto al nostro primo ministro e al suo governo era, come lo era ai mercati, che i due anni orribili, dal punto di vista della concentrazione dei rimborsi e delle cedole del debito pubblico italiano, sarebbero stati il 2011 e il 2012. Ma la conoscenza di tali scadenze non sembra aver agitato i sonni dei nostri governanti, inducendoli a una politica economica che non spaventasse i nostri partner europei e i mercati internazionali. Essi hanno invece atteso senza una cura al mondo che la tempesta si addensasse sul loro capo, mentre, al contrario, gli altri paesi deboli dell’Europa si affannavano a mostrare, col comportamento dei loro governanti e dell’intera loro classe politica, di voler affrontare le proprie difficoltà finanziarie senza tergiversamenti e furbizie. Così la Spagna, che ha problemi più gravi dei nostri, è riuscita a guadagnarsi uno spread e un trattamento, da parte dei mercati e dei governi partner, meno sfavorevoli dei nostri.
Il nostro premier è stato per decenni un maestro della comunicazione, con la quale è divenuto straricco. Quel che il comportamento inane suo e del suo governo comunicava al mondo lo sapeva benissimo. Eppure ha continuato a suonare la lira mentre Roma bruciava. Messo infine all’angolo dal duo Merkel-Sarkozy, che è apparso esso stesso abbastanza atterrito dagli avvenimenti, e spesso brancolante nel buio, il nostro premier ha stilato un elenco di promesse di cose da fare e lo ha mandato a Bruxelles. Glielo hanno rispedito come insufficiente e lui glielo ha rimandato con l’aggiunta di un paio di misure che evocano la «faccia feroce» dell’esercito di Franceschiello. Quel che sarebbe accaduto alla riapertura dei mercati, dopo il week end, quando gli operatori finanziari di tutto il mondo avevano avuto il tempo per rendersi conto della mancanza di sostanza delle promesse italiane, non occorreva grande fantasia per prevederlo. Infatti, si è verificato.
Ora abbiamo percorso, sulla strada del rialzo dei tassi, quasi tutto il tratto che porta al punto di non ritorno, stimato al 7%. Questi ultimi cento punti base che ci separano da esso non sono un percorso lineare. Ognuno di essi porta a un’accelerazione della velocità con la quale ci avviciniamo al precipizio. In altri paesi, i governi in carica, assai prima di raggiungere questi livelli di allarme, hanno rimesso il mandato. Ma, come notano gli esterrefatti osservatori stranieri, qui da noi si afferma con la massima tranquillità che bisognerà aspettare gennaio, quando i membri del nostro Parlamento saranno certi di essersi assicurata la pensione, per poter pensare a una messa in minoranza del governo, non più sanabile da un voto di fiducia che ricompatti ancora una volta il gregge. E nel frattempo?
L’Italia non è mai stata al centro di una grande crisi finanziaria internazionale, in tutti i 150 della sua storia unitaria. Questa volta rischiamo di trovarci nello scomodo ruolo di protagonisti. Né siamo mai stati messi sotto controllo finanziario internazionale. L’unica volta che ci fu questo rischio fummo investiti dal turbine finanziario internazionale mentre ci dibattevamo nella nerissima stagione della Banca romana e delle faide tra Crispi e Giolitti, nei primi anni novanta del secolo XIX. La Grecia dichiarò la bancarotta e noi riuscimmo a eludere questo affronto per un sussulto di orgoglio, che portò Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti a prendere il timone, proprio per evitare, come disse Sonnino, «che l’Italia faccia la fine della Grecia». Da quella sterzata verso la salvezza nacque la Banca d’Italia, ma anche una politica economica talmente dura da provocare, nel 1898, una rivolta operaia sedata a cannonate da un governo capeggiato da un generale. Poi tornò il sole, in tutto il mondo, e andammo a dieci anni di sviluppo economico accelerato e di risanamento finanziario, il celebre decennio giolittiano. Se ci basta, possiamo consolarci con questa speranza nata dal ricordo di tempi altrettanto grami. Ma dove sono oggi i Sonnino e i Luzzatti?

Trattato Ue: il mostro giuridico
(6 febbraio 2012)

Nella crisi, ma anche prima, le peculiari caratteristiche della Bce rispetto a una vera banca centrale nazionale, di non essere per statuto abilitata a finanziare i deficit degli Stati membri e di non poter espletare le funzioni di prestatore di ultima istanza, sono state evocate con frequenza. Perché le cose stiano così è facile capirlo: l’Unione monetaria europea fu costituita da Stati legati da un’unione economica ma non politica, e nemmeno facenti parte di una federazione. Visto che l’Unione monetaria era stata una creatura politica imposta dai francesi ai tedeschi per tenerli aggregati all’Occidente dopo la fine dell’Urss, bisognava inventare per lei una banca centrale con regole diverse da quelle delle banche centrali degli Stati nazionali e delle federazioni. Regole che creassero una moneta unica al posto di quelle degli Stati dell’Unione, ma che non abolissero le banche centrali nazionali (restate a esercitare la supervisione sulle proprie banche commerciali) e che non dessero alla banca europea la sovranità monetaria.
Ne venne fuori un esemplare unico nella storia monetaria: una banca centrale priva di sovranità monetaria che quindi abdicava a due delle funzioni caratterizzanti una banca centrale, la possibilità di creare moneta per finanziare i bilanci pubblici degli Stati membri e quella di fungere da prestatore di ultima istanza per le banche dell’area della moneta unica. In tal modo si distruggeva anche la sovranità monetaria dei singoli Stati membri. D’altronde, senza una vera unione politica o almeno fiscale, sarebbe stato veramente peculiare fare altrimenti.
Negli anni ottanta e novanta il mondo aveva visto crisi finanziarie imponenti ma mai una che colpisse il centro dell’economia mondiale con la potenza della crisi attuale. Evidentemente i fondatori dell’Uem sperarono che ciò proseguisse nel futuro, e che la funzione di banca centrale mondiale continuasse nelle emergenze a essere svolta da chi l’aveva fatto per cinquant’anni, la Federal Reserve. Queste acrobazie furono architettate ed eseguite perché la Germania, centro del sistema monetario europeo, aveva acconsentito alla creazione della moneta unica solo sotto la spinta della politica estera e dei propri industriali, che vedevano con grande interesse un’unificazione dei mercati europei delle merci e dei servizi e la fine della politica dei cambi fluttuanti in Europa. La Bundesbank e i partiti conservatori non vedevano con fiducia la scomparsa del marco e cercarono di attutirne le conseguenze. Dovettero accettare una banca centrale europea il cui consiglio direttivo non era formato secondo criteri di potenza economica ma nel quale piccoli paesi come Austria e Finlandia contavano quanto la Germania. Con lo scoppio della crisi, queste debolezze costituzionali sono emerse e hanno colpito come uno shock imprevisto. Non ci si aspettava che anche i sistemi bancari europei ritenuti più forti ne fossero investiti con tanta violenza.
La preparazione istituzionale alla crisi era ugualmente debole sia negli Usa che in Europa. Negli Usa la tradizione di sovranità monetaria era fortissima e nessuno si sognò di bloccare l’interventismo della Fed di Ben Bernanke, come nessuno in altre emergenze aveva fermato la Fed di Alan Greenspan. In Europa, non solo non c’erano precedenti per la Bce, troppo recente per aver avuto necessità simili, ma la banca centrale più importante del sistema, la Bundesbank, e buona parte della pubblica opinione tedesca erano contrari a tale interventismo per motivi di teoria e prassi economica e politica. Per questo abbiamo assistito a continui rinvii invece che a interventi tempestivi e massicci da parte della Bce, o anche degli organi dell’Unione europea, e alla faticosa elaborazione di istituzioni e metodi di intervento nuovi, come la Efsf e Esm, tentativi abbastanza penosi di riuscire ad affrontare i gravissimi problemi posti dalla crisi senza voler prendere il toro per le corna, cioè dare alla Bce un vero statuto di banca centrale e promuovere risolutamente i passi necessari a realizzare un’unione politica avente gli stessi confini della zona euro o anche solo di una parte di essa.
Stiamo così, in maniera artificiosa e contorta, arrivando a una ripetizione degli episodi di unificazione monetaria italiana e tedesca dell’Ottocento: un’unificazione monetaria forzata dal paese più potente, come furono Piemonte e Prussia. Ma non è la stessa cosa. Ora si tratta di paesi creditori, capeggiati dalla Germania, che cercano di imporre qualche forma di controllo finanziario sui paesi debitori perché non esistono legami federali che permettano una centralizzazione delle finanze pubbliche o un controllo centralizzato di esse per l’intera area monetaria.
In quest’ottica bisogna vedere il trattato di Bruxelles firmato qualche giorno fa. È una mostruosità giuridica, come lo fu il trattato di Maastricht. La Bundesbank già ne critica la mancanza di rigore. Invece di costituire la Bce in vera banca centrale, si è dato vita a due pessime e poco potenti imitazioni dell’Fmi come l’Esm e l’Efsf, che appena create già richiedono un potenziamento se si vuole che abbiano qualche impatto come muri parafuoco contro l’accendersi di fiammate nei paesi deboli d’Europa.
Si dice: ma l’Europa si è costruita così, con artifici, stratagemmi, strane istituzioni, perché in Europa non sempre una linea retta può unire due punti. La storia non lo permette, purtroppo; il passato non passa; ma alla fine, una complicazione dopo l’altra, un artificio dopo l’altro, si riusciva a unire i due punti. Si risponde: ma c’erano gli Usa a fare da supervisore e protettore dell’unificazione europea e l’Urss a fare da Babau, da uomo nero. Ora la seconda è svanita e i primi sono meno interessati a tenerci uniti e nemmeno ne hanno più i mezzi. Né la Cina ha intenzione di prendere il posto degli Usa. E poi, perché noi europei dobbiamo sempre aver bisogno di un «fratello maggiore»?

La cura greca della troika crea recessione e gonfia il debito
(12 febbraio 2012)

Un sondaggio del quotidiano greco «Kathimerini» attribuisce al partito Nuova democrazia il 31% dei voti alle elezioni di marzo prossimo e al Pasok di Papandreou l’8%. In mezzo, con più del 30%, alcuni partiti di sinistra contrari alla soluzione per il rifinanziamento del debito greco votata ieri dal governo e che oggi si dice anche il Parlamento approverà. Così il partito che, guidato da Karamanlis, ha portato la Grecia al disastro economico, ha mentito per anni sull’entità del deficit pubblico, dichiarandolo al 6% e portandolo invece al 15%, ha gestito in maniera irresponsabile le spese per le Olimpiadi, è ancora di gran lunga preferito a tutti gli altri dal popolo greco. Il primo ministro Papademos dice che, se la soluzione approvata dal governo non fosse approvata dal Parlamento, ne seguirebbe l’immediata bancarotta sia del governo che delle banche, con chiusura di banche e uffici governativi, stop agli stipendi, ai salari, fallimento di imprese. Quindi, non c’è alternativa.
Al punto al quale l’inane gestione della crisi greca da parte della troika Ue-Bce-Fmi ha fatto arrivare le cose, è evidente che ha ragione Papademos. Una bocciatura da parte del Parlamento greco produrrà un vero e proprio tsunami finanziario in Grecia e un riflesso internazionale la cui entità è aggravata da un fatto non ancora apprezzato nella sua gravità. L’Europa è infatti entrata nella seconda fase della recessione iniziata a fine 2008 e repressa, temporaneamente, solo negli Stati Uniti, nei paesi asiatici e sudamericani, e in Germania e suoi satelliti. Ma da questi ultimi, come Finlandia e Austria, arrivano notizie pessime per il 2012. E anche per la Germania si prevede una stasi o un regresso. Un segnale poco positivo viene dalle importazioni cinesi, che si prevedono in forte regresso nel 2012. Ciò vuol dire che la crescita della domanda interna cinese sta affievolendosi, e questo si ripercuote sui grandi esportatori di materie prime ma anche sui produttori di beni di investimento o di prodotti di lusso, come Germania e Italia. C’è la concreta possibilità che dalla recessione, come negli anni trenta, si passi a una depressione. Piove sul bagnato, dunque.
Dopo il summit di Bruxelles il messaggio inviato alla Grecia e a tutti i paesi in difficoltà è stato quello della favola di Esopo. Le formiche europee hanno detto alle cicale europee, in particolare alla cicala greca: «Hai voluto cantare tutta l’estate. Ora crepa». Il fatto è che, a livello macroeconomico, questo non va affatto bene nemmeno per le formiche, e i satelliti della Germania se ne stanno accorgendo, a partire dalla Finlandia. E comincia ad accorgersene anche la Germania. Ma l’hanno capito anche i greci, e questo induce molti di loro a dimenticare le ragioni che li hanno portati all’insolvenza.
A dicembre il summit europeo ha varato un documento economico nel quale si carica l’aggiustamento dei conti intra-europei solo sui paesi in deficit, ponendosi addirittura come virtù etiche le capacità della Germania di generare surplus. Una soluzione condivisa tra paesi in surplus e paesi in deficit non è nemmeno adombrata, pur avendo recenti ricerche della più svariata provenienza chiarito che non è assolutamente possibile che la deflazione possa essere curata con una politica fiscale restrittiva, se non è possibile svalutare. Tanto da indurre il ministro tedesco Schäuble ad affermare che, se si continua così, nel 2020 il debito pubblico greco non sarà il 120% del Pil, come previsto dall’accordo coi creditori, ma il 146%, livello del tutto insostenibile. Perciò la signora Merkel, insieme alla sua eco francese, mellifluamente suggerisce che a garanzia del debito greco bisognerebbe istituire un fondo di ammortamento, non amministrato dai greci, nel quale versare i contributi della Ue alla Grecia e i cui proventi dovrebbero andare solo a ripagare il debito. Poco prima aveva suggerito la nomina di uno straniero a supervedere i conti greci.
Nell’ultimo rapporto sulla situazione greca, l’Fmi si lagna del fatto che la Grecia, anziché realizzare una seria politica di riforme strutturali, abbia adottato misure di restrizione della spesa e aumento delle imposte che hanno come risultato la deflazione. Malgrado questa aperta ammissione del fallimento della ricetta imposta dalla troika alla Grecia, dato che le misure deflattive furono parte integrante del pacchetto negoziato per il primo piano di aiuti, Fmi, Commissione europea e Bce hanno continuato a insistere anche su tali misure deflattive, pur dopo aver compreso che da esse è derivato il crollo del Pil greco rispetto ai livelli del 2007 in ciascuno degli anni successivi, e che ad esso va attribuito il crollo del gettito fiscale.
In parallelo coi negoziati per organizzare un’insolvenza pilotata in Grecia, si è cercato da parte delle autorità europee di mettere in piedi una sorta di porta parafuoco, che tenga lontano dal resto dell’Europa il contagio di una possibile trasformazione della crisi greca in un’insolvenza non guidata e selvaggia. Da una parte si è raggranellata una quantità chiaramente insufficiente (e fino a luglio solo in parte disponibile) di risorse finanziare contro la potenza di fuoco illimitata dei mercati. Essa è affidata a due enti di nuova creazione, Efsf e Esm, che dovrebbero venire in soccorso di Stati europei in difficoltà. Allo stesso tempo si studia il Piano B, che contempla l’uscita della Grecia dalla Ue.
La fiducia dei paesi europei in surplus nella continuazione della Grecia come Stato sovrano, sia fuori che dentro l’Ue, si dimostra quindi molto ridotta. Il che, se si osservano i comportamenti greci sopra ricordati, non è senza fondamento. Ma allora, perché delegittimare Giorgio Papandreou, come fecero Merkel e la sua eco francese, quando voleva proporre ai greci un referendum sulla permanenza del paese nella Ue? A quei tempi il referendum lo avrebbe vinto. Ed è il solo uomo politico greco con cultura economica e statura di uomo di Stato. Ma ha il grande torto di avere sconfitto Karamanlis, amico personale e protegé politico di Angela Merkel, e di aver rifiutato la consegna alla marina greca, e il relativo pagamento alla Krupp, di quattro sommergibili di fabbricazione tedesca, facendoli dichiarare incapaci di tenere il mare da un ammiraglio greco, nominato perito dello Stato.

Lo tsunami della Grecia può investire il Club Med
(20 febbraio 2012)

È ormai evidente alla gran parte degli osservatori che si è creato un deficit profondo di fiducia da parte di tutti gli attori coinvolti nel dramma greco. Le date fissate per consegnare la seconda tranche del fondo di salvataggio di 130 miliardi sono infatti superate senza che la consegna abbia luogo. E anche lo scambio, con forti perdite di capitale, tra titoli greci vecchi posseduti dalle banche internazionali (ma anche greche) e titoli greci nuovi non pare arrivare a conclusione.
È chiaramente in corso un braccio di ferro non solo tra politici greci di opposte fazioni, ma anche all’interno dei partiti, che ritarda le decisioni. Da parte dei creditori e dei loro governi l’esasperata perdita di fiducia conduce ormai a suggerire soluzioni che sempre più rassomigliano a quelle che si prendevano da parte dei comitati di creditori all’epoca dei grandi prestiti internazionali e delle grandi bancarotte sovrane, prima della grande guerra.
I politici greci stanno battagliando tra loro sulla data delle elezioni. Il capo del partito conservatore, preferito dai sondaggi, vuole che sia molto vicina (ad aprile) e che sia subito seguita da una rinegoziazione dell’accordo votato solo qualche giorno fa anche da lui in Parlamento. Il ministro socialista dello Sviluppo, a Francoforte, dichiara che un rinvio delle stesse gli va benissimo (e si capisce, dato che il suo partito è in ribasso ma mostra tendenze migliorative e comunque alle elezioni non lo capeggerebbe lui, ma Evangelos Venizelos). Appoggia quindi la proposta del ministro tedesco Schäuble di continuare con una coalizione guidata da Lucas Papademos, anche se è stata deprecata con parole di fuoco dal presidente della repubblica Papoulias. E la stessa cosa, vale a dire rinviare le elezioni quanto più si può, sembra fare Papandreou.
L’Eurogruppo, dal suo canto, propone che i 130 miliardi siano versati in un fondo speciale dedicato in via prioritaria al versamento degli interessi sul debito, altra tecnica ottocentesca di gestione dei default sovrani. Da fonti interne ai paesi creditori si suggerisce poi di versare in quel conto anche i fondi di coesione dovuti alla Grecia dalla Ue. Infine, dalle stesse fonti si propone di mettere un fiduciario dei creditori dentro ciascun ministero greco, con ampi poteri di controllo e di contrasto, sempre per essere sicuri di dove finiscono i soldi dei salvataggi. Tutto questo agitarsi, frutto della mancanza di reciproca fiducia che diviene ogni giorno più grave, induce il ritorno sulla scena dei ribassisti, che operano sulle obbligazioni dei paesi debitori europei. Gli spread, che erano scesi quando si profilava un versamento entro i termini dei 130 miliardi, sono iniziati a risalire, riducendo anche l’effetto positivo delle prime azioni del nuovo governo italiano e della politica dei prestiti alle banche da parte della Bce. Ne comincia a risentire anche il cambio dell’euro, che registra un notevole calo col dollaro.
Tutti i negoziatori, greci e stranieri, pare abbiano acquistato la certezza della tenuta a breve dei mercati, malgrado le inevitabili turbolenze prevedibili in caso di fallimento dei negoziati, e non sembrano più spaventati da questa possibilità, perché si è raggiunta l’opinione che un fallimento della Grecia e perfino una sua uscita dall’euro non sarebbero la fine del mondo. L’ha detto la signora Kroes, lo ripetono Schäuble e il primo ministro olandese Rutte. Forse lo pensa anche Samaras. Invece, la fine del mondo magari no, ma un periodo di grave turbolenza, all’annuncio di questi avvenimenti, non ce lo toglie nessuno. Con possibile riduzione immediata e forse grave degli effetti positivi di misure rigoristiche prese in Italia e nel resto della periferia, mentre restano quelli negativi sull’economia e sulla società.
Come possa tutto questo giovare alla ripresa dell’economia europea e mondiale, i fustigatori della Grecia e, indirettamente, anche dell’Italia, ce lo devono spiegare. Se dobbiamo credere al Fmi ma anche al nostro governo e naturalmente a quelli dei paesi «virtuosi», una spinta positiva alla crescita verrà dall’effetto di misure di liberalizzazione dei mercati. Tutti sanno, però, che tali effetti si dispiegano, se pure lo fanno, nel medio termine, mentre a breve funzionano solo le misure keynesiane di rilancio della domanda interna o gli effetti sul commercio estero di una svalutazione, in questo caso dell’euro, se import e export rispondono nella maniera canonica alla variazione del cambio. Nel caso della Grecia quest’ultima ipotesi trova molto scetticismo, per la scarsa capacità di penetrazione delle merci greche, tranne qualche rimarchevole eccezione.
Ma siamo poi certi che Spagna e Italia, i paesi che non possono essere sacrificati, pena lo sfascio del sistema monetario europeo e forse persino di quello mondiale, resterebbero indenni in caso fallisse, in maniera disordinata, la Grecia? A giudicare da come si muovono gli spread a ogni stormire del vento greco che non sia solo una brezza, c’è da chiederselo. E certo della cattiva tenuta dei cosiddetti muri tagliafuoco, peraltro non ancora collaudati da una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. L’euro forte piace solo alla Germania (30 aprile 2007)
  7. Private equity e hedge fund: vizi e virtù (28 maggio 2007)
  8. I cinque anni che hanno cambiato il mondo (9 luglio 2007)
  9. La prima crisi della seconda globalizzazione (17 settembre 2007)
  10. Se la Bce somigliasse alla Fed (28 gennaio 2008)
  11. Finanza Usa, i timonieri senza bussola (31 marzo 2008)
  12. Vizi pubblici e mitologie private (7 aprile 2008)
  13. La cura Fed non salverà il mondo (12 maggio 2008)
  14. Produttività: perché la sfida è stata persa (2 giugno 2008)
  15. Viva il mercato, ma con i soldi dello Stato (8 settembre 2008)
  16. Quel male oscuro del biglietto verde (29 settembre 2008)
  17. Dentro il caos dell’economia mondiale (7 ottobre 2008)
  18. Addio al mito dei mercati «emergenti» (27 ottobre 2008)
  19. Bretton Woods: le nuove regole per un’economia in crisi (28 ottobre 2008)
  20. Il capitalismo dei compari (8 dicembre 2008)
  21. Germania, hub industriale dell’Unione (19 gennaio 2009)
  22. Se il Re dollaro non fosse più moneta di riserva (9 febbraio 2009)
  23. Quanto costa all’Italia (10 febbraio 2009)
  24. Nazionalizzare: la strada è segnata (2 marzo 2009)
  25. Poca luce in fondo al tunnel (11 maggio 2009)
  26. Alla Germania serve l’Europa (15 giugno 2009)
  27. Otto grandi, zero risposte (13 luglio 2009)
  28. Il ricatto della grande finanza (14 settembre 2009)
  29. Grandi banche in odore di speculazione (15 febbraio 2010)
  30. A che serve spezzare le reni alla Grecia (22 marzo 2010)
  31. Quella «tragedia greca» chiusa nell’urna tedesca (19 aprile 2010)
  32. Chi gioca a sfasciare Maastricht (3 maggio 2010)
  33. Bce, la Bundesbank non comanda più (17 maggio 2010)
  34. L’Italia e il grande spettro del ritorno agli anni trenta (31 maggio 2010)
  35. Dottrina Draghi per euro e Bce (7 giugno 2010)
  36. Le vuvuzelas dei debiti sovrani (12 luglio 2010)
  37. Basilea III, ecco il vero stress test (13 settembre 2010)
  38. Diabolica Fed non impari mai (8 novembre 2010)
  39. Inflazione: la paura viene dalla Cina (28 febbraio 2011)
  40. Il direttorio di via Nazionale: qui pulsa il cuore dell’Europa (27 giugno 2011)
  41. Le parole della grande crisi: downgrading (13 settembre 2011)
  42. Il Cavaliere inerte mentre Roma brucia (1° novembre 2011)
  43. Trattato Ue: il mostro giuridico (6 febbraio 2012)
  44. La cura greca della troika crea recessione e gonfia il debito (12 febbraio 2012)
  45. Lo tsunami della Grecia può investire il Club Med (20 febbraio 2012)
  46. Euro, fisco, credit crunch: l’Italia stretta nella morsa (12 marzo 2012)
  47. Il rebus dell’euro che resiste al dollaro (23 aprile 2012)
  48. Banche e bolle immobiliari: così dilaga la febbre spagnola (14 maggio 2012)
  49. Una pietra miliare nella storia della Bce (10 settembre 2012)
  50. L’euro forte e l’inflazione che divide Bce e Fed (8 ottobre 2012)
  51. La crescita o l’austerità? La lezione americana (10 dicembre 2012)
  52. L’ultima guerra delle monete (21 gennaio 2013)
  53. Perché la Bce non combatte la deflazione (11 marzo 2013)
  54. L’etica tedesca e lo spirito dell’euro (26 marzo 2013)
  55. Se lo Stato paga i debiti ma illude le imprese (15 aprile 2013)