II.
Dallo scandalo degli enti inutili
al Movimento del ’77
Verso la fine del 1975 si aprono pesanti crepe nel governo Moro-La Malfa, per il dirompente successo delle sinistre, e in specie del Pci, alle comunali e regionali del 15 giugno. Il 31 dicembre esce, in parte inatteso, sull’«Avanti!» un durissimo fondo di Francesco De Martino, segretario del Psi. Questi, per solito equilibrato, qui parte lancia in resta contro la Dc e contro il governo in carica. Sente aria nuova, il bisogno di equilibri «più avanzati e meglio garantiti», una formula cara a uno dei suoi vice, Enrico Manca, il quale da tempo sostiene la necessità di far entrare il Pci nell’area di governo. Qualcuno racconta che Aldo Moro – sul quale la dura lezione delle amministrative di giugno (un vero terremoto) non è passata invano – cerchi il modo per uscire da quell’esecutivo troppo «stretto» e che quindi abbia volutamente provocato, in modo baronale, da cattedratico a cattedratico, l’insigne studioso di Diritto romano, De Martino, non salutandolo. Un’offesa a sangue. In realtà una trappola democristiana. Nella quale il Professore, come viene chiamato in via del Corso, è caduto ingenuamente. Con quell’editoriale fiammeggiante il Psi ha, di fatto, aperto la crisi, anche se questa verrà formalizzata mesi dopo, bruciandosi le dita col cerino passatogli da Moro.
La prima grande manifestazione di solidarietà al segretario del partito non può che svolgersi a Milano dove ho trovato una base in fermento. Fossati e La Rocca mi dicono di seguirla. Al mattino, scendendo per la colazione al solito Hotel Manin vicino al Palazzo dei giornali, incrocio il segretario di De Martino, il cordiale piacentino Colarossi. «Non potresti tenere compagnia al Professore, è proprio giù di corda…». Vado e lo trovo con un viso più che mai segnato dalle rughe. Ha capito di essere caduto in un gioco cinico. Per fortuna sopraggiunge Italo Pietra che, dopo il licenziamento dal «Messaggero», è tornato a Milano. È molto caricato: «Cerchiamo di tenerlo su di morale, è a pezzi», mi sussurra. E comincia con alcune volute, paradossali gaffe sulla storia romana di cui De Martino è uno specialista. Scambia Menenio con Vipsanio Agrippa e il Professore con un incerto sorriso lo corregge. Poi Pietra si butta sul calcio. «Mi dicono che tu giocavi benino, ala sinistra, ma avevi soltanto un piede, quello mancino».
E l’altro finalmente si illumina: «No, no, giocavo bene anche di destro», precisa come rianimato.
Al comizio, che si tiene al Dal Verme vicino al Castello Sforzesco, arriva meno avvilito e vi trova un popolo socialista fervido, scaldato, con tante bandiere rosse, molto «alternativo» ecco. Il Professore raccoglie quello spirito tenendo un discorso forte, intenso. La base socialista milanese, lombarda, nella sua «pazzia» libertaria gli ha dato la carica giusta di passione. Dura poco peraltro. In albergo ci ha raggiunti l’Angiolino Del Boca che è rimasto al «Giorno» venendo da Gaetano Afeltra segregato in una stanza a far quasi nulla (e lui occuperà bene il tempo libero scrivendo il primo dei grossi tomi sulla storia dell’Africa orientale italiana, per poi dedicarsi alla Libia). Leggiamo insieme il testo che la segreteria di De Martino sta per divulgare alle agenzie: un «brodino» dove non c’è nulla di quella mattinata fiammeggiante, polemica, orgogliosa. Ci offriamo di riscriverlo noialtri due. Ma l’antico pessimismo ha già ripreso il sopravvento, il Professore scuote la testa e mormora: «Grazie, grazie, ma, tanto, non serve…».
A Roma, ho contatti radi col Psi, faccio politica soprattutto partecipando, come collaboratore assiduo, alla vita redazionale, spesso entusiasmante, della rivista «Mondo Operaio» che riunisce il meglio degli intellettuali socialisti. Le riunioni allargate di redazione sono dei veri e propri seminari di livello post-universitario. Infatti durano anche ore e ore, a ruota libera, affrontando e dissodando terreni sempre nuovi, seminando fermenti e sedimentando proposte sulla riforma dei partiti e dello Stato, sull’economia pubblica vista in chiave nuova, sul Terzo mondo ormai decolonizzato. Norberto Bobbio è il padre nobile di quella incredibile stagione della rivista socialista, rilanciata e rimessa in carreggiata, anni prima, da Antonio Giolitti e da Gaetano Arfè dopo la gestione, tutta centrata sul «controllo operaio» e molto sbilanciata verso una sinistra sostanzialmente extraparlamentare, di Raniero Panzieri (il futuro fondatore di «Quaderni rossi», prematuramente scomparso nel 1964) e di Lucio Libertini, alla fine degli anni cinquanta.
Si avvicinano, ormai, dopo la crisi definitiva del governo Moro-La Malfa, elezioni politiche che possono provocare forti sommovimenti. Me ne occupo a fondo girando ancora una volta l’Italia. Il Psi conduce una campagna elettorale all’attacco nei confronti della Democrazia cristiana che, fra l’altro, lo aveva seccamente escluso, di nuovo, dall’esecutivo. Ma sarà il Pci a raccogliere i frutti dell’albero del potere dc scosso dal vento un po’ isterico dei socialisti frustrati e delusi. È il nuovo giornale fondato da Carlo Caracciolo e da Eugenio Scalfari, «la Repubblica», a sventolare la minaccia di un «sorpasso» del Pci guidato da Enrico Berlinguer sulla Dc. In realtà , all’ultima ora, l’elettorato italiano accorda ancora una certa preferenza allo scudo crociato e tuttavia il Pci insegue a pochi passi. Mentre il Psi, guidato in modo scarsamente dinamico dai demartiniani, registra il peggior risultato della sua storia scendendo sotto la soglia del 10 per cento, al 9,9, e va in crisi. Formalmente la aprono le dimissioni del vice-segretario, un «bassaiolo» di Casalpusterlengo, sotto Lodi, lo scaltro Giovanni Mosca, ex operaio della Magneti Marelli. «Giuanìn» crede di aver fatto una gran furbata dimettendosi, invece porrà fine alla propria carriera, lui che sin lì ha egemonizzato Milano e la Lombardia relegando Bettino Craxi all’opposizione. Si dimettono anche gli altri vice-segretari, Enrico Manca e il siciliano Salvatore Lauricella. A questo punto Francesco De Martino, accusato n. 1, non può che lasciare. La corsa alla segreteria è aperta.
Nello stesso giorno delle politiche è successo a Roma un fatto clamoroso: si è infatti votato anche per il Campidoglio e la spinta propulsiva a sinistra dell’anno prima si è tradotta in una svolta epocale. Ha accettato di guidare, come «indipendente», la lista del Pci uno degli storici dell’arte, dei docenti universitari, che hanno fatto scuola nel Novecento. Giulio Carlo Argan, torinese, in gioventù legato agli intellettuali laici incarcerati negli anni trenta per antifascismo e lui stesso seguito a vista dagli agenti dell’Ovra anche quando con Cesare Brandi collabora già col ministro Giuseppe Bottai. È un’operazione politica abile di cui ha tirato i fili un segretario di Federazione, Luigi Petroselli (ma per tutti è Gigi) che viene considerato, con una certa spocchia, un burocrate e che invece è un politico fine e colto. Il Pci, con un balzo inaspettato, supera per la prima volta nella corsa al Campidoglio la Dc (che aveva quale capolista lo stesso Andreotti) col 35,5 per cento dei voti contro il 33,1, interrompendo così un’egemonia trentennale. Farà maggioranza con un Psi a Roma piuttosto debole (7,7%), col Psdi e col Pri. Vice-sindaco uno dei socialisti più liberi di mente, il dirigente industriale Alberto Benzoni, nipote di Giuliana Benzoni che fece da tramite nel 1943 fra Maria José e antifascisti come Ivanoe Bonomi.
Una giunta solida che «Il Messaggero» appoggia nonostante le proteste della Dc nazionale e romana. È attesa al compito immane di avviare il risanamento urbanistico e sociale della disperante costellazione di borgate abusive e di tante lottizzazioni anch’esse illegali, di ridare slancio alla cultura, di contrastare il clima di piombo creato dai due terrorismi, di arrestare il degrado dei monumenti e dell’intero centro storico. È in quel 1976 che Argan lancia il grido «O i monumenti o le auto», una campagna, subito appoggiata dal soprintendente ai beni archeologici Adriano La Regina, contro lo smog, sempre più denso, da traffico che sta sfaldando i marmi antichi facendoli sciogliere appena le piogge acide si fanno battenti. È in quel periodo che l’urbanista Leonardo Benevolo elabora una prima idea di parco archeologico dai Fori ai Castelli, che verrà presto ripresa e ampliata da Antonio Cederna e da Italo Insolera per divenire però con Gigi Petroselli (sindaco dopo Argan) un cavallo di battaglia politico. Pochi sanno che Gigi ha seguito nella sua Viterbo, da corrispondente dell’«Unità », il dibattito sul nuovo piano regolatore comunale. In quel microcosmo ha quindi capito e metabolizzato i complessi problemi di una città antica in un contesto contemporaneo. Esperienza, questa della giunta Argan-Benzoni, fra le più appassionanti e però anche fra le più impervie in una città gonfia e sfaldata, dove si calcola che 800 000 persone vivano in edifici del tutto abusivi, privi, anzitutto, di fognature e quindi con un inquinamento colossale dell’Aniene, delle mille «marane», delle acque sotterranee che, alla fine, si gettano nel Tevere avvelenandolo.
Torniamo al dopo-elezioni del 1976. Tocca a me seguire il Comitato centrale del Psi squassato dalla crisi interna, all’Hotel Midas sull’Aurelia. Per il «Corriere della Sera» c’è Giampaolo Pansa, per «La Stampa» Gaetano Scardocchia, amico vero e compagno di lavoro per tanti anni al «Giorno», per la «Repubblica» Fausto De Luca. Devo dire che Fossati mi lascia grande libertà e anche La Rocca si fida, non si intromette. Siamo così autonomi noialtri inviati dei quattro maggiori quotidiani, che, quando lo stallo dei lavori si conferma totale, assumiamo una iniziativa comune. A Franco Roccella, collega al «Giorno» anni prima ma da gran tempo in aspettativa per vari incarichi politici, fra radicali e socialisti, chiediamo di procurarci un incontro con Antonio Giolitti. Il quale ha 61 anni, viene da una carriera politica di prestigio, è stato valido ministro più volte. Non è compromesso con alcuna camarilla ed è stato con Riccardo Lombardi il leader (più moderato peraltro) della sinistra interna. La sua candidatura alla segreteria viene proposta dalla corrente sindacale, dall’intero folto gruppo di intellettuali raccolti attorno alla rivista «Mondo Operaio» e appoggiata pure da Riccardo Lombardi che ha superato una certa ruggine con Giolitti.
Siamo soltanto noi quattro giornalisti, Giolitti e Roccella. Senza troppi preamboli, gli diciamo che, se entrerà in Comitato centrale e si candiderà , avrà certamente l’appoggio dei nostri quattro giornali. C’è qualche attimo di silenzio. Poi Giolitti, che non è mai stato un gran parlatore, ci risponde più incerto e inceppato del solito. In sostanza ci ringrazia e tuttavia non se la sente di candidarsi. Siamo imbarazzati e un po’ stupiti. Peccato. Ci sembrava, da ingenui, una gran bella candidatura, in grado di far riemergere il Psi dal grigiore clientelare in cui è invischiato.
Nei giorni di stallo totale i colleghi mi hanno mandato da Pietro Nenni per chiedergli di poter assistere alle successive sedute del Comitato centrale. Lo trovo da solo nella grande sala, seduto alla tribuna, gli parlo da sotto e lui mi prende subito le mani fra le sue – che sento rugose e calde – con tratto affettuoso. Ascolta la richiesta sorridendo anche con gli occhi dietro le lenti e poi mi mormora con quella voce che a volte va in sopracuto: «Sono giorni inquieti, caro Emiliani, giorni inquieti. Dopo, vedremo, vedremo. Ma… superiamo questi giorni». Mi fa capire che lui, il presidente, è d’accordo. E così sarà . Per alcuni anni i giornalisti potranno assistere, caso raro, ai lavori dell’assise socialista. Al Pci non ci fanno neppure avvicinare. Alla Dc, nell’orrendo palazzo dell’Eur, ci fanno ascoltare, stando fuori, da un corridoio o scala laterale, attraverso una finestra aperta. Alla democristiana.
La sera in cui esce e viene votata, anche dalla sinistra, la candidatura – subito definita «di minoranza» – del quarantaduenne Bettino Craxi, considerato «un giovane», incontro, nei corridoi del Midas, Cicchitto e Signorile insieme. Li affronto con un certo sarcasmo. «Voialtri Bettino forse non lo conoscete bene. Io, che vengo da Milano, sì, e vi assicuro che vi si mangerà con le ossa e tutto…». Rimangono entrambi interdetti. Poi si allontanano non so se più preoccupati o contenti. È finita, di fatto, la corrente lombardiana. Riccardo accetterà per un breve periodo la carica di presidente del Comitato centrale (a ciò lo sollecita anche Italo Pietra in un fondo sul «Messaggero» accostandolo a Willy Brandt). Poi rinuncerà capendo di non contare nulla. E il trio Cicchitto-De Michelis-Signorile si salderà alla maggioranza craxiana sempre più stabilmente. Comincia pure l’appannamento, lento ma costante, della rivista «Mondo Operaio» e del suo gruppo rifondatore. Nel quale Martelli infila sempre più gente di fiducia.
Bettino Craxi accorda a noialtri quattro (De Luca, Pansa, Scardocchia e me) la sua prima intervista da segretario sulla terrazza dell’Hotel Raphaël dove vive da qualche anno in una suite concessagli dall’amico Spartaco Vannoni. Credo che nessuno di noi gli riesca troppo simpatico. Del resto, non siamo stati particolarmente calorosi nei suoi confronti (o forse ha saputo del nostro incontro con Giolitti). Massimo complimento da parte nostra, l’aggettivo di «tedesco». Più simile però a Helmut Schmidt che a Willy Brandt.
Un pomeriggio dello stesso 1976, mentre sto al giornale a chiacchierare nei corridoi, si fa vivo un intelligente sindacalista della Uil molto vicino a Benvenuto, Gianfranco Fornari. Mi vuol parlare di un piccolo ente reso superfluo dal trasferimento della materia alle Regioni, piccolo, inutile ma coriaceo: l’Ente nazionale biblioteche popolari e scolastiche, con una bella sede nella centralissima via della Gatta, un miliardo circa di dotazione, una buona biblioteca (la Rispoli) e un pianoforte a coda Petrof ogni tanto usato per dei concerti. Un suo dipendente mi lascia del materiale e io gli dedico un pezzullo di denuncia neanche molto visibile.
Il giorno dopo, ho la coda alla porta di sindacalisti, per lo più della Cgil, per lo più socialisti frustrati dallo stato calante del partito, che mi portano pacchi di materiali sui loro enti non meno inutili e non meno coriacei. Chi non viene di persona, telefona. Come la signora Sbanò, una vedova, la quale mi dipinge il quadro dell’ente inutile «perfetto»: è l’Opera nazionale orfani di guerra (Onog) che riceve dallo Stato una discreta cifra, la spende tutta quanta in salari e stipendi e non ha poi una sola lira da destinare all’assistenza dei superstiti orfani di guerra (ormai, come minimo, dei trentenni). Essi, peraltro, dovrebbero essere assistiti pure da altri enti: l’Opera nazionale orfani di guerra anormali psichici, l’Opera nazionale orfani di guerra del Mezzogiorno riciclatasi come tale da altri incarichi, l’Opera nazionale assistenza infanzia regioni di confine (Onairc), ma pure l’Istituto Andrea Doria per gli orfani dei marinai caduti in guerra e l’Istituto F. D. Roosevelt per orfani dei lavoratori caduti in guerra. Tutto questo vasto apparato per appena 700 orfani sparsi per l’Italia e quindi meglio assistibili dai Comuni di residenza. Alcuni enti dovrebbero essere stati soppressi negli anni sessanta, e invece sopravvivono, distribuiscono stipendi e godono di sedi, di patrimoni immobiliari tutt’altro che modesti.
Ci sono casi clamorosi come quello dell’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi) che, col decentramento regionale e quindi comunale, non ha più alcun senso pratico e che invece continua a esistere, a spendere, a costare. Ma uno dei più incredibili è quello della ex Gioventù italiana del littorio (Gil) autentica pupilla del regime mussoliniano, figliata dall’Opera nazionale Balilla, detentrice di un patrimonio capillare di palestre, piscine, coperte e scoperte, campi d’atletica, colonie marine e montane, che il commissario Tortonese, un severo e solerte esponente del Partito d’Azione, aveva censito in modo completo nel lontano 1947. Quel patrimonio, ben 1331 proprietà , poteva quindi essere già allora attribuito al ministero della Pubblica istruzione e/o ai Comuni in cui risultava costruito dal regime. Invece no, era stato «appaltato», in sostanza, alla Democrazia cristiana (il Foro Italico ai Comitati civici di Luigi Gedda in vista dello storico 18 aprile 1948), per passare poi da un commissario all’altro (sempre dc ovviamente), da un decennio all’altro, sino a quegli anni settanta in cui, con un patrimonio sempre più depauperato e degradato, continua a sopravvivere. In un paese che, specie al Sud, non ha palestre né piscine. La ex Gil ha stretto una solida collaborazione con la Pontificia opera di assistenza (Poa) che, presieduta dal fratello di Paolo VI, Ludovico Montini, detiene l’esclusiva delle importazioni di farina e di altri generi alimentari dagli Usa. Il mio informatore privilegiato per questo ente è un simpatico sindacalista, Antonio Pettenella, che mi porta trionfante bilanci e relazioni trasferiti a casa di nascosto, magari nottetempo. Pietro Pinna, sindacalista socialista della Cgil, ancora giovane, mi illumina sul più grande di questi enti inutili: l’Ente nazionale assistenza orfani dei lavoratori italiani (Enaioli), il più ricco di tutti, con tanti miliardi in banca e poca assistenza sul campo, il quale si erge storicamente su una sterminata foresta di sigle corporative poi unificate. Mi rendo conto che si è così formata una vera e propria organizzazione e gestione dello Stato centrale «per enti». I quali svolgono una loro attività assistenziale, ma in modo burocratico, datato, a volte anche cervellotico (mandando al mare i silicotici e isolando da tutto e da tutti i poveri anziani), e soprattutto accentrato, ormai incompatibile con la realtà delle istituzioni decentrate di governo. Per ora è tutto in mano al ministero dell’Interno, ai prefetti. C’è poi un vero e proprio mercato, imponente, delle rette di ricovero, le quali vengono accaparrate soprattutto da istituzioni confessionali.
Qui comincia poi il capitolo – e anche su questo il laico «Messaggero» di quegli anni mi dà spago – delle ex Opere pie («Opera pia, Opera piglia», si dice a Roma), una rete fortissima di istituti di assistenza e beneficenza, soprattutto nelle regioni come la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Lazio dove la Controriforma ha destinato ad esse solidissimi patrimoni. A Bologna, mi dice l’urbanista Pier Luigi Cervellati, le ex Opere pie (oggi Ipab, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) sono proprietarie, in pratica, di tutte le aree che fiancheggiano per decine di chilometri la strategica via Emilia, nonché di grandi edifici storici, di collegi, di ricoveri, di quadrerie (per esempio, l’Opera pia dei poveri vergognosi che sono poi i nobili decaduti i quali «si vergognano» del loro nuovo stato di povertà ). A Roma tale patrimonio, un tempo ingentissimo, è stato venduto e svenduto, ma, secondo una denuncia del Psi, raccoglie ancora cinema, supermercati, palazzi con affitti elevati e così via1.
In questa inchiesta – diventata una vera e propria campagna – incontro personaggi straordinari anche nell’ambiente politico. Ad esempio una deputata bolognese, Adriana Lodi, che si è fatta, in materia assistenziale, una cultura straordinaria. Sarà una delle mie fonti più fruttuose e informate. Fra i socialisti, oltre ad Aldo Aniasi, già a lungo sindaco di Milano, spicca Mario Corsini, romano, anche lui serio e profondo conoscitore di quella autentica giungla assistenziale. Ho già citato il dirigente della Uil, Gianfranco Fornari, che, quasi senza volerlo, ha aperto i rubinetti di questa autentica fiumana col piccolo Ente biblioteche popolari, Pettenella della ex Gil, Pinna dell’Enaoli. Ma c’è pure Gianni Grassi, parmigiano, dell’Unione italiana ciechi (Uic), col quale, fra l’altro, partecipo alle domeniche del Club alpino sulle nevi del Lazio e d’Abruzzo per imparare i rudimenti dello sci di fondo.
L’Uic è il solo ente che reagisce con una querela per diffamazione, annunciata in pompa magna il giorno dell’Immacolata. Assurdamente mi vorrebbero fare assistere all’evento. Nemmeno dipinto. Qualche mese più tardi la ritireranno chiedendomi di non infierire. Nascono intanto due commissioni: una presieduta dall’amico Sabino Cassese, grande specialista di problemi dello Stato, per gli enti inutili, e un’altra, presieduta dal cattolico Ario Rupeni, per le ex Opere pie o Ipab «nazionalizzate» da Crispi, in modo purtroppo confuso, nel 1890. La prima farà un eccellente lavoro di disboscamento, anche se poi l’ufficio del Tesoro incaricato di liquidare gli enti inutili ci metterà una vita per scioglierli definitivamente perpetuando la leggenda della loro inestinguibilità . La commissione per le ex Opere pie invece non combinerà molto: qui gli interessi della Chiesa e delle sue istituzioni sono ben corposi e rinascerà la solita vecchia polemica contro «voi laicisti e anticlericali» dei tempi di «Ciccio» Crispi. A un certo punto si tratterà di definire il carattere «prevalentemente religioso» degli istituti (che lucrano sonore rette di ricovero o di assistenza) e la Dc, attraverso l’onorevole Maria Teresa Cassanmagnago, proporrà questa soluzione: basta un crocefisso o altra immagine sacra nell’androne della ex Opera pia e il suo carattere «prevalentemente religioso» è bell’e conclamato. Poi interverrà la Corte costituzionale, purtropp...