Letture
I. Gli incerti del mestiere.
Sul Tartufo
di Ferdinando Taviani
Mi sarebbe piaciuto intitolare queste pagine con un’autodefinizione di Toni Servillo, quando dice d’essere «un efferato dilettante». Ma se non sbaglio l’idea di usare questo titolo l’ha già avuta tempo fa Oliviero Ponte di Pino per una delle sue grandi interviste su «ateatro». Mi sarebbe piaciuto perché dietro «efferato» c’è iconoclastia, testardaggine e ironia. E vi si sente l’eco della voce acida e aggraziata di Petrolini («…una satira efferata del bell’attore…»).
Per altri versi, però, anche l’espressione tutta forbici, falci e martello «incerti del mestiere» è in grado di funzionare perfettamente. L’amateur ama il teatro tutt’intero, per la ragione ch’è teatro. Lo esplorerebbe tutto, se potesse. E per esplorarlo non può far altro che cercare gli incerti del mestiere, come si cercano i funghi quand’è stagione.
All’inizio del dialogo fra Toni Servillo e Gianfranco Capitta intitolato Interpretazione e creatività, il primo a un certo punto dice semplicemente così: «Un po’ sono andato a cercarmelo il teatro, perché credo, per quella che è stata la mia esperienza, che possa rendermi un uomo migliore, “farmi bene”»1.
Basta questo per capire come mai il dialogo fra Servillo e Capitta abbia fatto crescere uno dei testi più semplici e intelligenti sul teatro come nutrimento spirituale e valore. Cioè come mestiere. Non è un’intervista, perché i due parlano alla pari, uno dalla parte del palcoscenico, l’altro dalla parte della platea, e ambedue pensano a ciò che a loro piace o no, che a loro «fa bene» o no. Parlano ambedue del valore personale del teatro, non pensando ai rispettivi ruoli, non recitando l’uno il ruolo dell’artista e l’altro quello del critico, ma restando ciascuno al suo posto, a volte andandosene ognuno per la sua strada, allontanandosi, per poi tornare a incontrarsi, ma quasi per caso, cioè senza far casino.
Il libro di Servillo e Capitta è uno dei libri più semplici e ricchi scritti oggi sul valore del teatro. Bisogna leggerlo con attenzione e semplicità per vedere come il cosiddetto mondo del teatro non sia un insieme di correnti, di specializzazioni, faticati esercizi e sofferte teoresi o tendenze, bensì qualcosa di assai più semplice: un insieme di nodi e circostanze di mestiere sui quali sarebbe inutile discettare come se si trattasse di differenti scuole, derive o tendenze. A far lume in quei percorsi non sono i segreti, ma gli incidenti del mestiere. Non è l’ordine, ma il disordine.
I mestieri hanno logiche che eccedono gli schemi delle ripartizioni teoriche. Si pensi a certi casi particolarmente chiari, per esempio le differenze fra l’essere attore di teatro e attore di cinema. Servillo in questo campo, lo si ripete spesso, è un grande esperto. Ma a volte fa dei dribbling sorprendenti. Non è sorprendente che possa passare dall’una all’altra specialità, in ambedue brillando. Dall’un genere all’altro. È sorprendente che lui (da solo o in coppia con il regista, non importa) possa inventare nel cinema un modo di recitare una sorta di vivente burattino come ne Il divo, capace di erodere i confini fra l’attore umano e il pupazzo. Quanto teatro c’è in questo cinema? E quanto ce n’è di teatro (teatro sottilissimo come seta, una raffinatissima lezione) nelle magistrali sequenze finali di Viva la libertà, quando dopo aver recitato lungo tutto il film la parte di due gemelli, simili solo nelle apparenze ma distinguibili a colpo sicuro per i differenti comportamenti, riesce a mostrare come le differenze fra i due personaggi possano pian piano erodersi e sbiadire fino a ricongiungersi, ma senza che lo spettatore se ne accorga o si accorga di poter veramente distinguere. Una sottilissima lezione che potrebbe gareggiare con alcune delle più fantasticate lezioni di Stanislavskij o Chaplin.
Per tutte queste ragioni vorrei evitare il tono delle recensioni o delle teorie e vorrei limitarmi a raccontare una giornata, che già m’è capitato di raccontare, ma senza che bastasse. Sono passati molti anni? Non tanti quanti sembra. E poi, comunque non è questo che conta. Quel che conta, mi pare, è come il teatro si raggomitolasse nell’esperienza.
4 febbraio 2000: va in scena il Tartufo di Molière, tradotto da Cesare Garboli, regia di Toni Servillo, Teatro Argentina di Roma. La mattina, sulla prima pagina di «Le Monde», è comparso un articolo di Carlo Ginzburg dedicato a Sofri, che rientra in galera a Pisa dopo che la Corte d’appello veneziana ha negato la revisione del processo per l’assassinio del commissario Calabresi. Ginzburg scrive dell’aria onesta e intelligente del giudice, che però alla fin fine è riuscito a mettersi d’accordo con la pseudogiustizia della ragion di Stato. Tartufo ha molte facce. Troppe per metterlo in scena? Cesare Garboli dice che non è un personaggio, ma un archetipo.
Due mesi prima, Berlusconi compariva a intervalli regolari, più volte al giorno, in uno spot televisivo in cui porgeva gli auguri di Natale. Allungava amichevolmente le mani sulle spalle d’una coppia perbene circondata dai figli. Si presentava come un amico delle famiglie. Non era passato molto tempo da quando era stato presidente della nostra Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel quale l’archetipo tartufesco non si manifestava nella sua variante truffaldina e violenta (grinfie d’acciaio in guanti di velluto), ma in variante parrocchiale, severa e benevolente. Fosse vera cronaca o leggenda giornalistica, si raccontava che alcuni decenni fa quel presidente avesse debuttato nella notorietà esternando in un ristorante romano la sua indignazione per una scandalosa scollatura. Similmente entra in scena Tartufo, nell’atto III di Molière, porgendo un fazzoletto a Dorina perché si copra il décolleté. Anche l’integerrimo futuro presidente aveva brandito un tovagliolo, prima d’essere in grado di sventolare le carte dei suoi nobili messaggi? Difficile, troppo difficile non impelagarsi nei confronti con l’attualità.
«Non è un buon metodo leggere un testo di tre secoli fa con gli occhiali del presente. Ma di quali altri disponiamo?», si domanda Cesare Garboli, che di Tartufo è il grande esperto. Anzi, è la dimostrazione vivente di che cosa significhi essere un «esperto» di Tartufo: sommare le doti del critico a quelle del detective. Nel 1973, in un saggio su «Paragone», aveva svelato il volto di Tartufo come il guaritore delle malattie del profondo. Più di dieci anni dopo, in uno straordinario articolo apparso su «la Repubblica»2 raccontava come se lo fosse ritrovato accanto in taxi, Tartufo, sotto gli eleganti abiti di lane chiare e dietro il papillon nientemeno che di Lacan. Passano altri dieci anni, e nella postfazione al suo libro Un po’ prima del piombo, torna a rievocare i suoi incontri con l’ipocrita: «Avevo Tartufo a pochi metri da casa, abitava nel mio quartiere, si moltiplicava nella società in cui vivevo, si riproduceva nei politici e negli intellettuali che incontravo ogni giorno». E infine (quasi sbottando): «Mio dio, era dappertutto. L’odore di quella sottana era tale che si apriva solo un piccolo, piccolissimo spazio per respirare». Se è dappertutto, che spazio rimarrà al palcoscenico su cui dovrebbe campeggiare? Se è un archetipo, com’è possibile metterlo in scena senza impelagarsi nelle interpretazioni e nelle attualizzazioni?
Ce ne sono talmente tante, in giro, di incarnazioni dell’archetipo, che sceglierne almeno una parrebbe obbligatorio. Ma poi ci si troverebbe fra le mani un’opera sminuita, ridotta alle dimensioni d’una satira del presente. Dovettero essere perplessità di questo tipo a guidare Gabriele Vacis, nel 1995, quando metteva in scena Tartufo con il Laboratorio Teatro Settimo di Torino, e decideva di non affidare l’ipocrita a un attore. Solo un carismatico fantoccio dalla faccia vuota e serena, sulla quale gli altri personaggi e noi spettatori potevamo proiettare ciascuno il proprio appetito di illusioni o il proprio senso del pericolo. Il trucco dei trucchi della nuova eloquenza (televisiva): una faccia vacua abbastanza che se appena la guardi sembra che ti riguardi.
Così, di sovrappensiero in sovrappensiero, da «Le Monde» alle attese per Tartufo della sera, aumentava la curiosità. Da quanti anni (venti? trenta?) non mi capitava di andare a teatro portato soprattutto dalla voglia di riflettere su un testo mai letto abbastanza? Una cosa era certa: che Servillo il testo non l’avrebbe lacerato. Lui, se lo sceglie, è perché d’un testo gli interessano le piccole pieghe. E siccome questo nei teatri cosiddetti «normali» molti lo predicano, ma nessuno in pratica lo sa più fare, Servillo può andar d’accordo solo con i teatri rein-ventati nelle enclaves. Lo aveva dimostrato con Zingari di Viviani, con Il misantropo di Molière, con Le false confidenze di Marivaux.
Ad allontanare, però, il teatro di Servillo dal contesto dell’establishment teatrale e a definirne l’appartenenza all’ambito creativo delle enclaves indipendenti c’è anche qualcosa di più sostanziale. Si tratta d’una sorta di paradosso a trecentosessanta gradi: il suo sperimentalismo non si traduce in interventi sui testi del grande repertorio, ma in un intervento contro le conseguenze del loro essere parte di un repertorio. Nei termini del gergo teatrale, potremo dire che l’azione sperimentale consiste per lui nel trattare le opere del repertorio teatrale come se fossero novità. Diventa regista perché è un attore che vuole dare evidenza e forma a una delle esigenze fondamentali dell’attore: recitare ogni volta come se fosse la prima volta.
Di fronte al Tartufo di Molière, per esempio, ho l’impressione che la sua domanda fondamentale non sia stata «che senso può avere rimettere in scena un testo carico di storia, di interpretazioni, di conoscenze acquisite?», ma «come metterlo in scena per la prima volta?».
Tartufo, quella sera all’Argentina fu una sorpresa: il trionfo della semplicità. Tutte le nervature, le originalità e le audacie dell’interpretazione erano state sottilmente intessute in uno spettacolo che risultava liscio come la seta. I soli segni forti erano quelli dell’organizzazione generale dello spazio. Servillo aveva spostato tutto, attori e spettatori, sul palcoscenico, lasciando la sala e i palchi dell’Argentina nel buio e vuoti. All’inizio, non si apriva il sipario, ma calava il sipario antincendio, e ci si trovava chiusi nella casa di Orgone. Al momento del lieto fine, l’antincendio si alzava, dall’altra parte la sala vuota e i palchi sfavillavano. Lo spazio smetteva d’essere un interno ed era messo in spettacolo. Un brevissimo istante di buio aveva staccato la scena dell’apparente trionfo di Tartufo (quando i documenti in sua mano gli danno il potere su Orgone e gli altri) dal ribaltone che lo vede incriminato per diretto intervento del re. È il famoso finale aggiunto e improvviso. Quello che Bulgakov definiva come l’atto della lucertola: la furbizia d’un Molière che sacrifica la coda per salvare tutto il resto. Il breve istante di buio e poi lo sfavillare della sala teatrale lussuosa e vuota erano le sole cesure nette in uno spettacolo basato sulla continua fluidità dei dialoghi e delle scene. Rendevano plausibile il salto drammaturgico, creavano un effetto di consequenzialità sottolineando lo stacco, mettendolo in scena. Uno dei casi in cui l’invenzione registica coincide con la precisione d’una nota filologica.
Tartufo (il personaggio): un Tartufo così forse non s’era visto mai, piccolino, mingherlino, aria affamata e sguardo concentrato e rovente, bloccato dalla paura d’un rapace che sta cercando la preda in un ambiente forte e pericoloso, tutto trappole. Dopo la prima sorpresa dell’entrata, filava via senza mai diventare il centro dell’attenzione. Come se non sapesse d’esser lui a dare il titolo. Il che non vuol dire che il centro diventasse Orgone, o magari Elmira. Al centro c’era la commedia, se si intende quel che questo vuol dire.
La «parzialità universale» aveva fatto sì che uno spettacolo del tutto anomalo si riverberasse nella mentalità di molti spettatori come l’immagine d’un teatro «normale». Spiccioli del dopoteatro: «Dopo tutto, era proprio teatro-teatro, teatro normale!». «Ha voluto distinguersi portando gli spettatori in palcoscenico». «Già che c’era non poteva farlo senza sprecare tutto quello spazio?, lasciandoci comodamente seduti in platea?».
No, non poteva.
Immagino che Servillo e la sua compagnia abbiano ricevuto pressioni condite d’elogi: «Quando stavate provando, si capisce, non sapevate come lo spettacolo veniva. Ma ora che è venuto così bene, così ben recitato, ora che è rodato, che bisogno c’è di tenerlo in quello spazio sprecone? Non vi rendete conto che diventa una bizzarria inutile, una voglia di originalità a tutti i costi? Non avete nessun bisogno di comprimere attori e pubblico in palcoscenico».
Il sottotesto: «Avete paura che vi si dica che fate teatro normale, tradizionale? Per questo ci tenete tanto a rovesciare lo spazio teatrale come un guanto?».
In realtà, è una condizione essenziale. La vera scommessa, il vero carattere sperimentale di questo spettacolo sta nella resistenza ad attualizzare il testo. Sta nella capacità di contraddire la voglia di dare risposta alle domande che incombono: «Chi è, oggi, adesso, Tartufo?». Sta nella scelta di far sbocciare una commedia lontana in mezzo a un pubblico odierno. E quindi la distanza fisica fra gli attori e gli spettatori è necessario che sia ridotta nella misura in cui viene invece preservata la distan...