La fiaba della mia vita
I.
La mia vita è una bella fiaba, tanto ricca e felice! Se da ragazzo, quando povero e solo me ne andai per il mondo, mi fosse capitato di incontrare una potente fata che mi avesse detto: «Scegli la tua vita e il tuo destino e io, secondo il tuo sviluppo spirituale e per quanto possa mai accadere in questo mondo, ti proteggerò e ti accompagnerò!», il mio destino non sarebbe potuto essere più felice e saggio, né governato meglio. La storia della mia vita dirà al mondo ciò che dice a me: esiste un Dio amorevole che conduce ogni cosa nel modo migliore.
Nell’anno 1805 viveva a Odense, in una povera, piccola casa, una coppia di giovani sposini che si volevano infinitamente bene, un giovane calzolaio e sua moglie, lui non aveva ancora ventidue anni, una persona dalle doti sorprendenti, di indole veramente poetica, lei più anziana di qualche anno, ignara del mondo e della vita, ma piena di buon cuore. Il marito era da poco diventato «mastro» e si era costruito da solo il banco da calzolaio e il letto nuziale; per quest’ultimo aveva usato l’impalcatura che poco tempo prima aveva sorretto la bara di un certo conte Trampe, esposto sul lit de parade; le strisce di stoffa nera che da allora erano sempre rimaste a capo del letto ne erano un ricordo. Invece del nobile cadavere circondato di fiori e candelabri, il 2 aprile 1805 giaceva lì un bambino vivo che piangeva: ero io, Hans Christian Andersen.
Pare che nei primi giorni mio padre sia rimasto seduto accanto al letto a leggere a mia madre testi di Holberg, mentre io strillavo a squarciagola. Mi hanno raccontato che mio padre diceva per scherzo: «Dormi, oppure ascolta in silenzio!», ma io continuavo a fare lo strillone, e pare che così mi sia comportato in chiesa, quando fui battezzato, al che il pastore, che mia madre in seguito descriveva come uomo molto irascibile, disse: «Quel piccolo strilla come un gatto!», cosa che lei non gli perdonò mai; ma un povero emigrante francese, Gomard, che mi faceva da padrino, la consolò dicendo che quanto più forte strillavo da piccolo, tanto meglio avrei cantato quando sarei diventato grande.
La casa della mia infanzia era un’unica stanzetta, quasi riempita dal laboratorio del calzolaio, dal letto e dalla panca in cui dormivo io, ma le pareti erano piene di stampe, sulla cassapanca c’erano delle belle tazze, bicchieri e ninnoli, e sopra il laboratorio, accanto alla finestra, c’era una mensola di libri e canzoni. Nella piccola cucina c’era appesa, sopra la credenza, la griglia di stagno piena di piatti, quella piccola stanza mi pareva grande e ricca, persino la porta, che sul pannello aveva dipinto un paesaggio, per me allora era importante quanto ora un’intera galleria di dipinti.
Dalla cucina una scala portava al solaio, dove nella grondaia, tra la nostra casa e quella del vicino, c’era una cassetta di terra con erba cipollina e prezzemolo, tutto l’orto di mia madre, che ancora fiorisce nella mia fiaba La regina delle nevi.
Ero figlio unico e venivo molto viziato, ma mi toccava sentirmi dire da mia madre che ero stato molto più fortunato di lei, me la passavo come il figlio di un conte! Lei da piccola era stata spinta dai genitori a mendicare, e poiché non ci riusciva, per un giorno intero era rimasta seduta a piangere sotto un ponte del fiume di Odense; la mia mente di bambino immaginava chiaramente la scena e ne piangevo; ho riprodotto il suo personaggio in due diverse figure, la vecchia Domenica dell’Improvvisatore e la madre del protagonista nel Violinista.
Mio padre, Hans Andersen, mi accontentava in ogni cosa; avevo tutto il suo amore; viveva per me! Perciò impiegava tutto il tempo libero, la domenica, a fare per me giocattoli e disegni; la sera spesso ci leggeva L’originale di Lafontaine, Holberg e Le Mille e una notte; solo allora, quando leggeva, ricordo di averlo visto sorridere, perché nella vita e nel mestiere non si sentiva felice.
Un tempo i suoi genitori erano stati contadini benestanti, ma la sventura li aveva quasi travolti; il bestiame era morto, la fattoria era bruciata e alla fine il padre aveva perso la ragione; la moglie si era trasferita a Odense e qui aveva mandato quel ragazzo sveglio a imparare il mestiere di calzolaio, non si poteva fare altrimenti, sebbene il suo più profondo desiderio fosse frequentare il ginnasio; un paio di cittadini facoltosi avevano parlato una volta di fare una colletta, assicurargli il vitto e aiutarlo così a prendere la strada che tanto desiderava, ma non se n’era fatto nulla; il mio povero padre non aveva visto esaudito il suo più grande desiderio e questo non gli era più uscito di mente. Ricordo che da piccolo lo vidi una volta con le lacrime agli occhi, quando uno degli alunni del ginnasio era venuto da lui a ordinare degli stivali e gli aveva mostrato i suoi libri parlando di ciò che imparava. «Anch’io avrei dovuto seguire quella strada!», aveva detto, mi aveva baciato con trasporto ed era rimasto in silenzio tutta la sera.
Si incontrava raramente con i suoi pari; venivano a farci visita i suoi parenti e conoscenti; nelle serate d’inverno in casa, come ho detto, leggeva ad alta voce o mi fabbricava giocattoli; d’estate andava quasi ogni domenica nel bosco e io con lui; laggiù non parlava molto, se ne stava seduto in silenzio, immerso nei suoi pensieri, mentre io correvo in giro raccogliendo fragole su un filo di paglia o intrecciando ghirlande; solo una volta l’anno, a maggio, quando il bosco era in pieno rigoglio, veniva anche mia madre: era la sua unica gita annuale, e allora indossava un abito di cotone marrone a fiori, che usava soltanto in quell’occasione e quando si accostava all’altare, e che perciò era l’unico vestito che a mia memoria, in tutti quegli anni, abbia mai indossato per le feste; quando poi tornavamo a casa dalla gita, lei portava sempre una quantità di rami freschi di betulla, venivano infilati dietro la stufa tirata a lucido; la borracina la infilavamo invece nelle fessure delle travi e da quella, quando cresceva, potevamo vedere se la nostra vita sarebbe stata lunga o breve. Verde e stampe adornavano la nostra stanza, che mia madre teneva pulita e ordinata; il suo orgoglio era il candore delle lenzuola e delle tendine alle finestre.
Uno dei miei primi ricordi, in sé modesto ma per me importante per la forza con cui si è impresso quasi a fuoco nella mia fantasia di bambino, è una festa di famiglia, e dove? Proprio nel luogo di Odense, nell’edificio che da fuori guardavo con orrore e paura, come un ragazzino di Parigi, immagino, guarda la Bastiglia: era la prigione di Odense. I miei genitori conoscevano il custode e furono invitati da lui a una festa di famiglia, io sarei andato con loro: allora ero ancora così piccolo che, come si vedrà, venni portato in braccio al momento di tornare a casa. La prigione di Odense era per me quasi il covo dei malfattori nelle storie di ladri e briganti; spesso mi soffermavo fuori, naturalmente a grande distanza, e rimanevo ad ascoltare ragazzi e donne che cantavano filando all’arcolaio.
Arrivai con i miei genitori alla festa della famiglia del custode: il grande portone ferrato venne aperto e richiuso con la chiave del mazzo tintinnante, salimmo una ripida scala; si mangiò e si bevve, due dei detenuti servivano a tavola; non fu possibile farmi mangiare nulla, respingevo persino le cose più dolci; mia madre disse che ero malato e venni adagiato su un letto, ma sentivo l’arcolaio che ronzava lì vicino e allegre canzoni; ora non saprei dire se fosse la mia fantasia o la realtà, ma una cosa so, che provavo ansia, tensione eppure una sensazione piacevole, quasi fossi penetrato nel castello delle storie di briganti. In tarda serata i miei genitori tornarono a casa, io venni portato in braccio, il tempo era cattivo, la pioggia mi sferzava il viso.
Nei primi anni della mia infanzia Odense era una città ben diversa da quella attuale, che ha anticipato Copenaghen con l’illuminazione a gas delle strade, l’acqua potabile e Dio sa che altro! A quei tempi credo che fosse cent’anni indietro; vigeva ancora un mucchio di usi e abitudini che nella capitale erano già scomparsi da tempo. Quando le corporazioni cambiavano sede, si spostavano in corteo con le insegne al vento, limoni e nastri di seta sulle spade. Davanti correva allegro un arlecchino con campanelli e spatola; uno di essi era un vecchio: Hans Struh, che con le sue battute e il suo volto dipinto di nero, tranne il naso, che aveva conservato il suo naturale colore rosso acceso, aveva molto successo. A mia madre piaceva tanto che avrebbe voluto dire che era nostro parente, anche se molto alla lontana, ma ricordo ancora chiaramente che con un profondo senso di aristocrazia protestai che non volevo essere parente del «matto».
Il lunedì grasso i macellai conducevano per le strade un grasso bue ornato di ghirlande di fiori: lo cavalcava un ragazzo in camicia bianca e con le ali. Nello stesso periodo i marinai sfilavano lungo le strade accompagnati dalla musica e con tutte le loro bandiere, e alla fine i due più coraggiosi facevano la lotta su un’asse sistemata tra due barche. Quello che non cadeva in acqua era il vincitore. Ma ciò che soprattutto mi si impresse nella memoria e che era continuamente rinfrescato in seguito, dai ripetuti racconti, fu il soggiorno degli spagnoli in Fionia nel 1808. La Danimarca si era alleata con Napoleone, al quale la Svezia aveva dichiarato guerra, e in men che non si dica un esercito francese con truppe ausiliarie spagnole era in mezzo alla Fionia per passare in Svezia al comando del generale Bernadotte, principe di Pontecorvo. A quei tempi non avevo più di tre anni, ma ricordo ancora piuttosto bene quegli uomini quasi mori che facevano chiasso per le strade, i cannoni che sparavano a salve in piazza e davanti alla sede vescovile; vedevo i soldati stranieri sdraiarsi sul marciapiede o sulla paglia nella chiesa di Sankt Hans mezza diroccata. Il castello di Kolding bruciò e Pontecorvo arrivò a Odense, dove soggiornavano la moglie e il figlio Oscar. Le scuole sparse nella campagna erano state adibite a posti di guardia; la messa si celebrava sotto i grandi alberi nei campi o in strada. I soldati francesi erano considerati superbi e prepotenti, quelli spagnoli buoni e gentili, tra le due parti c’era un odio cruento; i poveri spagnoli destavano più simpatia. Un giorno un soldato spagnolo mi prese in braccio, mi premette sulle labbra un’immagine d’argento che portava sul petto nudo. Ricordo che mia madre si arrabbiò perché diceva che era una cosa cattolica, ma a me piacevano l’immagine e lo sconosciuto, che ballava tenendomi in braccio, mi baciava e piangeva, di sicuro aveva dei figli in Spagna. Vidi uno dei suoi compagni che veniva condotto al patibolo, aveva assassinato un francese; molti anni dopo, grazie a questo ricordo, scrissi la breve poesia Il soldato, che tradotta in tedesco da Chamisso è diventata popolare ed è stata inclusa nelle Poesie per i soldati tedesche come originale tedesco.
La stessa intensa impressione che lasciarono in me gli spagnoli a tre anni la provocò un avvenimento che si verificò quando avevo sei anni: la grande cometa del 1811; mia madre mi aveva detto che avrebbe fatto a pezzi la Terra, o che sarebbero accadute le cose terribili scritte nella Profezia della Sibilla; io ascoltavo tutto ciò che diceva la superstizione, per me era simile alla più sacra fede. Stavo con mia madre e alcune vicine sulla piazza fuori dal cimitero di Sankt Knud e guardavo la temuta, gigantesca sfera di fuoco con la grande coda luminosa. Parlavano tutte del cattivo presagio e del giorno del Giudizio; arrivò mio padre, non aveva affatto le loro idee e diede di sicuro un’interpretazione sana e ragionevole, ma mia madre fece un sospiro, le vicine scuotevano la testa, mio padre rise e se ne andò. Io ero sinceramente terrorizzato perché lui non aveva la nostra stessa fede! La sera mia madre ne parlò con la vecchia nonna, non so come interpretasse il fenomeno, ma io le sedevo in grembo, la fissavo negli occhi dolci e aspettavo che la cometa arrivasse e poi sarebbe stato il giorno del Giudizio.
Tutti i giorni, anche solo per qualche istante, nella casa dei miei genitori veniva la nonna, e soprattutto per vedere il suo nipotino, il piccolo Hans Christian; ero la sua gioia e la sua felicità. Era una vecchia tranquilla e molto amorevole, con gli occhi azzurri e mansueti e un bell’aspetto; era molto provata dalla vita; da moglie di un contadino agiato era finita ora in estrema povertà; abitava col marito malato di mente in una casetta che avevano comprato con le ultime briciole del loro patrimonio. Eppure non la vedevo mai piangere; però mi faceva tanto più impressione quando sospirava in silenzio e raccontava della madre di sua madre, che era stata una nobile dama in una grande città tedesca, Kassel, e lì aveva sposato «un commediante», come diceva lei, ed era fuggita dai genitori e da casa, e adesso tutto questo ricadeva sulla famiglia. Non ricordo che abbia mai detto il cognome della nonna, ma lei era nata Nommesen. All’ospedale doveva occuparsi di un giardino, dal quale ogni sabato sera portava via qualche fiore che le permettevano di prendere; quei fiori adornavano la cassapanca di mia madre, ma erano miei; avevo il permesso di metterli in un bicchiere d’acqua; quanto era bella quella gioia. Mi portava di tutto; mi voleva bene con tutta l’anima; io lo sapevo, lo capivo.
Due volte l’anno bruciava le erbacce del giardino; venivano ridotte in cenere in un grosso forno dentro l’ospedale e io allora stavo con lei la maggior parte del tempo, sdraiato sui grandi mucchi di foglie e tralci di piselli, potevo giocare con i fiori e avevo la cosa più importante, un cibo che credevo migliore di quello che trovavo a casa. Tutti i malati di mente che non facevano del male, e perciò avevano il permesso di girare liberamente nel cortile dell’ospedale, venivano spesso da noi, e io ascoltavo con curiosità e timore i loro canti e le loro parole; spesso li seguivo persino per un tratto nel «cortile verde», sotto gli alberi, e quando c’erano i guardiani osavo anche entrare nell’edificio dove stavano i pazzi furiosi. Un lungo corridoio passava tra le celle; in quello un giorno me ne stavo accovacciato e spiavo attraverso la fessura di una porta; dentro c’era una donna nuda su un pagliericcio, aveva i capelli sciolti sulle spalle e cantava con una splendida voce; d’improvviso balzò in piedi, si scagliò con un grido contro la porta dietro la quale mi trovavo; il guardiano si era allontanato, ero completamente solo, lei picchiava sulla porta con tanta violenza che sopra di me lo sportello dal quale le veniva passato il cibo si spalancò, così lei mi scorse, tirò fuori un braccio per afferrarmi; gridai terrorizzato e mi rannicchiai ancora di più sul pavimento. Ancora oggi che sono vecchio quella vista e quell’impressione non si sono cancellati; sentivo le punte delle dita toccarmi i vestiti; ero mezzo morto, quando arrivò il guardiano.
Vicino al capannone dove venivano bruciate le erbacce, le vecchie bisognose avevano un posto per filare; lì entravo spesso e ben presto divenni il loro favorito, perché di fronte a quel pubblico mostravo un’eloquenza che faceva prevedere, come dicevano, che «un bambino così intelligente non sarebbe vissuto a lungo», cosa che mi lusingava molto. Per caso avevo sentito parlare della conoscenza che i medici hanno dell’interno del corpo umano, avevo sentito nominare il cuore, i polmoni e l’intestino e tanto mi bastava per tenere alle vecchie una conferenza sull’argomento! Dipingevo arditamente col gesso sulla porta un mucchio di scarabocchi che dovevano rappresentare i visceri; parlavo del cuore e dei reni, tutto ciò che dicevo faceva una profonda impressione a tutti i presenti; passavo per un bambino di singolare intelligenza e le mie chiacchiere venivano premiate raccontandomi fiabe; mi si apriva davanti un mondo ricco come quello delle Mille e una notte. Le storie delle vecchie, le figure dei malati di mente che mi vedevo intorno in ospedale, tutto ciò che veniva da quei luoghi mi faceva una tale impressione, pieno com’ero di credenze superstiziose, che quando faceva buio quasi non osavo avventurarmi fuori casa; di solito i miei genitori mi lasciavano andare a letto al tramonto, non sulla mia panca, perché era ancora presto per aprirla, occupava troppo spazio nella nostra stanzetta, ma venivo messo nel lettone dei miei genitori, le cortine di cotone a fiori erano abbassate tutt’intorno, la luce era accesa, potevo sentire tutto ciò che accadeva nella stanza eppure ero così solo nei miei pensieri e nei miei sogni, come se il mondo reale non esistesse. «Sta così buono, quel bambino benedetto!», diceva mia madre. «È così tranquillo per conto suo, non può succedergli niente!».
Di mio nonno malato di mente avevo grande paura; solo una volta mi aveva parlato usando l’insolito «lei»; intagliava nel legno delle figure strane, uomini con la testa di animale, bestie con le ali e singolari uccelli; li metteva in una cesta e poi andava per la campagna, dove le contadine lo invitavano ovunque, gli davano anche semola e prosciutto da portare a casa, perché regalava a loro e ai bambini i suoi giocattoli artistici; un giorno, tornava a casa a Odense, sentii dei ragazzacci gridargli dietro; per lo spavento mi nascosi dietro una scala mentre passavano a frotte; sapevo che era il mio stesso sangue.
Non stavo quasi mai con gli altri ragazzi; anche a scuola non partecipavo ai loro giochi e restavo dentro; a casa mi bastavano i giocattoli fabbricati da mio padre; avevo delle figure che si trasformavano tirando un filo, un mulino che, quando veniva messo in movimento, faceva danzare il mugnaio; avevo una prospettiva e dei pupazzi con la testa ciondolante. Inoltre provavo gran piacere a cucire vestiti per le marionette o a starmene in cortile accanto all’unico cespuglio di uvaspina che c’era; tra il cespuglio e il muro, aiutandomi con un bastone di scopa, appendevo il grembiule di mia madre. Quella era la mia tenda con il bello e il brutto tempo, stavo seduto lì a guardare le foglie dell’uvaspina, ne seguivo la crescita ogni giorno da quando erano piccoli germogli verdi fino a quando si staccavan...