Parte prima
Dinamiche produttive e culturali
I. Nel segno di Roma:
per una storia culturale del peplum
«Péplum» è un termine coniato dalla critica francese a proposito dei film italiani di ambientazione storico-mitologica che hanno dominato gli incassi nelle sale di periferia – aprendo al contempo la strada all’esportazione di massa di film italiani di genere negli Stati Uniti – tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta1. Quest’etichetta deriva dal peplo, una veste femminile in uso presso le donne greche fino al VI secolo a.C., e come altre designazioni, tra cui l’anglosassone «sword and sandal» (letteralmente «spada e sandalo») o l’italiano «sandaloni», allude a un universo ispirato, genericamente, all’antichità. Di conseguenza, quest’etichetta è passata dall’indicare uno specifico tipo di produzione italiana degli anni sessanta, ad abbracciare progressivamente contesti produttivi lontani nel tempo e nello spazio: dai kolossal statunitensi degli anni cinquanta e del decennio successivo – quali Quo Vadis (Mervyn LeRoy, 1951), Ben Hur (William Wyler, 1959) o Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1963) – alle grandi produzioni del muto italiano degli anni dieci (Quo Vadis?, Enrico Guazzoni, 1913; Cabiria, Giovanni Pastrone, 1914); da alcune spettacolari pellicole hollywoodiane dell’ultima fase del muto, come I dieci comandamenti (The Ten Commandments, Cecil B. De Mille, 1923) o Ben Hur (Fred Niblo, 1925), ad alcune recenti riproposizioni del genere, sorte nel panorama produttivo americano – Il gladiatore (Gladiator, Ridley Scott, 2000); 300 (Zack Snyder, 2006) – o europeo (Centurion, Neil Marshall, 2010)2
«Peplum» (d’ora in poi si adotterà la grafia italiana, senza accento) è quindi un’etichetta-ombrello che, così come fa riferimento a contesti produttivi differenti dal punto di vista cronologico, geografico e culturale, è altrettanto eterogenea anche dal punto di vista dei contenuti. Il termine infatti comprende al suo interno una serie non meglio specificata di universi discorsivi, tutti appartenenti, genericamente, alla sfera dell’antichità: dalla mitologia greca all’Antico e Nuovo Testamento; dall’antico Egitto alla Roma imperiale; dalle opere di Omero o Euripide a quelle, pubblicate nel XIX secolo ma ambientate nell’antica Roma o a Cartagine, di Edward Bulwer-Lytton, Henryk Sienkiewicz, Gustave Flaubert ed Emilio Salgari. Non aiuta certo a orientarsi l’eclettismo iconografico di questo tipo di produzioni, che contraddistingue soprattutto la metà degli anni sessanta, termine ultimo del periodo più glorioso del peplum, quando una certa stanchezza e ripetitività conseguenti allo sfruttamento intensivo del genere spinge i realizzatori ad alzare continuamente la posta formulando allo spettatore, fin dai titoli, le promesse più stravaganti. Universi in partenza culturalmente distinti si fondono così nel segno dell’avventura: Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli invincibili (Giorgio Capitani, 1964)3 fa combattere il figlio di Zeus insieme al giudice israelita, al forzuto servo di Licia uscito dal Quo vadis? di Sienkiewicz e a un personaggio nato direttamente sullo schermo cinematografico come Maciste. Ma quest’ultimo, apparso per la prima volta in Cabiria, già nel film successivo (Maciste, Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Denizot, 1915) si trasferisce dal III secolo a.C. all’epoca contemporanea, dando vita a un genere limitrofo a quello storico-mitologico, ovvero il cinema dei forzuti. Infine vi sono i numerosissimi esempi di rovesciamento parodistico che, già a partire dagli anni dieci, «testimoniano l’universale notorietà raggiunta dal genere»4 e contraddistinguono buona parte del nostro cinema comico, da Tontolini Nerone (Ferdinand Guillaume, 1910) a S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa (Carlo Vanzina, 1994), passando per Mio figlio Nerone (Steno, 1956) e Totò contro Maciste (Fernando Cerchio, 1962); mentre se si contemplasse anche la produzione hollywoodiana, andrebbero inclusi allo stesso modo Il museo degli scandali (Roman Scandals, Frank Tuttle, 1933), con Eddie Cantor, o l’ultimo film interpretato da Buster Keaton, Dolci vizi al foro (A Funny Thing Happened on the Way to the Forum, Richard Lester, 1966).
Prendendo in considerazione il solo cinema italiano, la situazione non si rivela essere meno complessa. Le due epoche di massima intensità produttiva del genere, ovvero gli anni dieci e il periodo che va dallo straordinario successo de Le fatiche di Ercole (Pietro Francisci, 1958) al momento in cui il western scalza definitivamente il peplum nelle preferenze degli spettatori (tra il 1964 e il 1965), hanno dato luce rispettivamente a un’ottantina5 di pellicole (oggi in massima parte perdute) e a circa duecento titoli6. Se l’indagine proposta in questo volume si limitasse a tale mole – già di per sé enorme – di materiale, le vicende del peplum acquisirebbero un andamento relativamente lineare. Quest’ultimo infatti apparirebbe come un genere cinematografico dalle coordinate relativamente solide e stabili dal punto di vista produttivo, della semantica e della sintattica7, che dopo essere stato inaugurato durante la breve e intensa stagione dei fasti del muto italiano avrebbe raggiunto il massimo delle sue potenzialità negli anni sessanta, per poi cadere in un’inarrestabile decadenza interrotta, sporadicamente, da film nostalgici come i due Hercules diretti negli anni ottanta da Luigi Cozzi8. Così facendo, però, si perderebbero di vista altri punti focali in cui il serbatoio di figure, situazioni e modelli culturali propri del peplum, pur non cristallizzandosi in una relazione stabile con l’industria del cinema italiano e il suo pubblico, acquistano un rilievo non indifferente. Per esempio rimarrebbe fuori il rapporto tra il genere e la rilettura dell’antica Roma cui ha dato forma il regime fascista, e che imprevedibilmente si è concretizzata nella realizzazione pressoché di un unico film, Scipione l’Africano (Carmine Gallone, 1937); così come verrebbe esclusa da questa trattazione la rinegoziazione dell’immagine della romanità che verrà successivamente effettuata, nell’Italia degli anni della Liberazione, a partire da Fabiola (Alessandro Blasetti, 1949). Allo stesso modo, il peplum intrattiene un rapporto complesso con il cinema d’autore della fine degli anni sessanta di Pier Paolo Pasolini o Federico Fellini, e contemporaneamente marca il passaggio della Rai dagli sceneggiati girati in studio su nastro magnetico alla realizzazione di complesse coproduzioni internazionali, come l’Odissea (Franco Rossi, 1968), Mosé (Gianfranco De Bosio, 1974) o Gesù di Nazareth (Franco Zeffirelli, 1977). Infine si sarebbe impossibilitati ad approfondire la curiosa scelta, effettuata dalla Rainbow di Iginio Straffi, di utilizzare l’immaginario dell’antica Roma per lanciare Gladiatori di Roma (Iginio Straffi, 2012), uno dei pochissimi esempi di lungometraggio in animazione digitale girati in Italia al di fuori dei franchise per l’infanzia già avviati sul mercato editoriale o in quello televisivo.
La proposta avanzata da questo lavoro, perciò, è quella di considerare il peplum non soltanto come un genere o una linea produttiva, ma piuttosto come un cinema che segna diverse fasi del contatto tra la cultura italiana e un’antichità (greca, romana, egizia, biblica ecc.) la cui immagine viene di volta in volta ridefinita attraverso la mediazione, da una parte, dell’industria culturale (letteratura, stampa a rotocalco, sport, spettacoli di massa) e, dall’altra, di istanze (politiche, sociali, culturali) di diverso tipo. Questa prospettiva presenta il vantaggio di costruire una linea narrativa parallela a quella della parabola biologica del genere – normalmente articolata in nascita, maturità e infine declino – e che è contrassegnata invece dai punti di intersezione tra la produzione cinematografica e i bisogni sociali di una nazione che, nel corso di più di un secolo, ha affrontato fasi diverse e all’apparenza inconciliabili le une con le altre: la democrazia liberale, la dittatura fascista, la ricostruzione, gli anni del boom, il post-Sessantotto ecc. Da questo punto di vista, il peplum diviene una componente di un più ampio macro-genere, il film storico, che offre agli spettatori una rappresentazione sensibile della Storia, una sua messa in scena ottenuta attraverso una ricostruzione del passato che risente delle esigenze di carattere culturale, ideologico, spettacolare ed estetico del contesto spazio-temporale (ma anche e soprattutto industriale) di realizzazione. Il film storico è diffuso tanto a Hollywood quanto nel resto d’Europa o in altre cinematografie nazionali, ma da sempre svolge un ruolo fondamentale all’interno del cinema italiano. Infatti, l’avvento di un genere storico-mitologico nei primi anni del muto italiano rientra nel solco di una produzione imperniata sulla messa in scena di eventi storici che risale ancora all’apparizione della prima pellicola a soggetto realizzata in Italia, La presa di Roma di Filoteo Alberini (1905). Si potrebbe affermare che nel peplum questa dimensione venga estremizzata per via della dimensione fortemente identitaria, quando non originaria, che per la cultura italiana assumono di volta in volta il mito dell’antica Roma, il mondo classico o l’immaginario religioso a seconda delle diverse epoche. Il già citato Scipione l’Africano, per esempio, si situa nel più vasto ambito del film storico degli anni trenta, cui appartengono opere ambientate nel passato risorgimentale, come 1860 (Alessandro Blasetti, 1934), o rinascimentale, come Condottieri (Luis Trenker, 1937). Tuttavia esso assume anche una dimensione peculiare, che deriva non solo dall’inedito sforzo produttivo profuso dalle strutture statali coinvolte nella sua realizzazione, ma anche, come si è già rilevato, dal fatto di essere l’unica pellicola ambientata nell’antica Roma a venire realizzata in un’epoca, ossessionata dall’idea della romanità, come quella fascista9.
Allo stesso tempo, un’analisi di questo tipo evidenzia come il peplum sia una presenza costante quando il cinema italiano si appresta a marcare una svolta dal punto di vista dei modelli industriali, narrativi o tecnologici. Per esempio, all’alba degli anni dieci e fino alla prima guerra mondiale, il cinema storico-mitologico svolge una complessa funzione catalizzatrice che coinvolge profonde trasformazioni nelle strutture industriali e nel modo di rappresentazione corrente, così come il processo di legittimazione artistica oppure la nascita di una vera e propria critica cinematografica. Similmente, negli anni cinquanta e sessanta, il peplum ha un ruolo determinante nello sviluppo dei rapporti di coproduzione con la Francia e nell’avvio delle runaway productions americane sul territorio italiano (le cosiddette «lavorazioni per conto»), ma effettua anche un’opera di negoziazione di istanze apparentemente da esso assai distanti, come quelle legate alla nascente (almeno in Italia) società dei consumi. Infine, così come negli anni dieci il genere storico-mitologico aveva avuto un ruolo di rilievo nel sostenere il passaggio al lungometraggio, il peplum postbellico contribuisce significativamente all’adozione del colore o dei nuovi formati panoramici. In questo contesto, la recente scelta di realizzare un lungometraggio di animazione digitale ambientato nell’antica Roma si spiega con la disponibilità del genere a farsi utilizzare come banco di prova per tecnologie ancora relativamente estranee al contesto produttivo nazionale.
I punti chiave dell’indagine condotta in questo lavoro saranno pertanto il rapporto con il contesto produttivo, con le pratiche filmiche e tecnologiche, e infine con il mutevole immaginario della società italiana: nella consapevol...