Parte prima
Le tradizioni della modernità
La storia dei popoli è una storia di educazione più che di emancipazione. Non esistono forze misteriose da cui emanciparsi, ma esistono princìpi da imparare, abitudini da introdurre, attività da sviluppare.
Francesco Saverio Nitti
Nella prima parte del volume tratteremo della teoria dell’approccio culturale. L’esergo di Francesco Saverio Nitti indica il contenuto di questo primo blocco di saggi: l’individuazione di quegli atteggiamenti, convinzioni e valori ideali che sono risultati funzionali allo sviluppo umano così come si è andato configurando finora, in una parola funzionali al progresso. Una parola, quest’ultima, caduta da decenni in disgrazia sotto i colpi del relativismo culturale1. Forse siamo giunti a una di quelle congiunture storiche epocali che ne richiede a gran voce la riabilitazione. In questa raccolta di saggi per progresso si intende una serie di obiettivi enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu (1948) e così sintetizzabili (Harrison 2006, pp. 8-9):
1) il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza;
2) l’uguaglianza di fronte alla legge;
3) la libertà di pensiero e di religione;
4) il diritto a un adeguato standard di vita;
5) il diritto alla democrazia;
6) il diritto all’assistenza sanitaria, all’istruzione e ai servizi sociali.
In una formulazione ancora più sintetica possiamo definire il progresso umano come l’insieme di prosperità economica, democrazia politica e giustizia sociale (Harrison - Huntington, a cura di, 2000, p. XV).
Il volume si apre con un saggio dell’economista John Kay, che ci spiega come hanno fatto i paesi ricchi a diventare tali. Si tratta di una galoppata nella storia del mondo per illustrarne le principali tappe dell’evoluzione. Coerentemente con tale visione, lo sviluppo sarebbe derivato da una serie di innovazioni in campo tecnico, economico e istituzionale di cui sarebbe vano cercare di stabilire una priorità nella sequenza storica. Tuttavia, sulla scorta della lezione di Max Weber, Kay conclude che lo sviluppo è partito dapprima in quelle regioni del mondo (l’Occidente) ove la priorità veniva data ai valori di produttività e di pluralismo, sottolineando dunque l’importanza che questi due atteggiamenti giocano nel raggiungimento di prosperità, democrazia e giustizia sociale.
Un elenco più particolareggiato degli atteggiamenti, delle convinzioni e dei valori funzionali al progresso umano ce lo illustra il saggio successivo, intitolato La mentalità sociale progressiva, di Lawrence E. Harrison. A mo’ di esempio riportiamo alcuni di questi atteggiamenti virtuosi: una moderata propensione al rischio è considerata progressiva, mentre è considerata resistente allo sviluppo un’avversione oppure un’eccessiva propensione al rischio. Il rispetto della legge e il perseguimento della corruzione sono giudicati tratti progressivi, contrapposti all’idea che tutto può essere comprato purché si abbiano le conoscenze giuste. La fiducia generalizzata verso gli altri è ritenuta un atteggiamento progressivo perché conduce alla cooperazione economica e alla partecipazione politica, mentre la diffidenza e il sospetto sono reputati ostacoli allo sviluppo in quanto conducono all’anomia sociale. E così via. L’utilità di un tale approccio analitico si può apprezzare se si parte dal presupposto che non sia necessario (né auspicabile) cambiare l’intera scala di valori di una popolazione affinché essa partecipi alla cornucopia della prosperità contemporanea. Basterebbe dare la priorità, nella propria scala di valori, agli atteggiamenti progressivi individuati da Harrison, sulla base di un’ampia rassegna di casi di studio in tutto il mondo già sviluppato o emergente.
Che i venticinque fattori culturali descritti ne La mentalità sociale progressiva non costituiscano solo un elenco di pie intenzioni, è dimostrato dal saggio successivo, in cui espongo i risultati della ricerca da me condotta presso il Cultural Change Institute della Fletcher School di Boston. Incrociando i dati del sondaggio d’opinione della World Values Survey con i dati economici e istituzionali di 95 paesi in cui risiede l’85% della popolazione mondiale, si scopre che la maggioranza dei venticinque fattori culturali di Harrison, per i quali si posseggono informazioni statistiche, ha un impatto positivo e statisticamente significativo sui livelli di reddito pro capite di un paese e sulla qualità della sua governance, a parità di dotazioni infrastrutturali e condizioni istituzionali. Inoltre si scopre che, per realizzare apprezzabili miglioramenti nel tenore di vita di una nazione e nella sua governabilità, sarebbero sufficienti piccoli spostamenti della pubblica opinione da convinzioni resistenti al progresso a convinzioni funzionali al progresso. Dunque il cambiamento culturale necessario allo sviluppo socio-economico, per quanto lento, può trasformarsi in un cambiamento istituzionale dall’impatto ben maggiore, se le forze politiche apprendono innanzitutto i contenuti delle riforme da adottare, e poi siano capaci di spostare piccole quote di elettori indecisi verso questi contenuti. Sarà poi il cambiamento istituzionale che ne deriverà, e i risultati concreti che si otterranno, a convincere gli scettici e a far mutare di segno la situazione di stallo per uscire dalla trappola del sottosviluppo. Ovviamente ci saranno degli interessi consolidati che, messi in discussione, reagiranno con la resistenza al cambiamento. Ma in democrazia è possibile sconfiggere gli interessi di una minoranza di privilegiati se e solo se la maggioranza dei cittadini, che dai privilegiati dipende economicamente e culturalmente, si emancipa innanzitutto mentalmente.
Chiude la Parte del volume un saggio del compianto Augusto Graziani, che affrontò già nel lontano 1991 una delle criticità dell’approccio culturale: il nesso esistente tra la mentalità sociale di un popolo e le istituzioni che lo governano. Se cioè siano le mentalità sociali a innervare le istituzioni che a loro volta incidono sullo sviluppo economico, o se le istituzioni possano condizionare la mentalità sociale e per questa via influenzare il livello di sviluppo di un paese. Questa contrapposizione tra i due momenti della dialettica struttura/agente è quella ancora dominante nell’immaginario degli italiani, sia di destra che di sinistra, e ho giudicato pertanto importante dedicare ad essa un saggio. Graziani, che pure parte dalla concezione di una relazione circolare e dialettica tra struttura e sovrastruttura, analoga a quella illustrata nella figura presente nell’Introduzione (supra, p. 10), alla fine, quando giunge a chiedersi cosa possa «invertire il segno» del circolo vizioso del sottosviluppo, dà la priorità alla conquista politica delle istituzioni piuttosto che alla «illusione di fare della formazione la pedina iniziale di un’opera di trasformazione». La sua è dunque la risposta tipica dei neo-istituzionalisti alla dialettica mentalità/istituzioni, e l’inclusione di questo saggio nel volume risponde all’esigenza di dar voce anche a punti di vista diversi dall’approccio culturale. In questo caso, fornendo della concezione neo-istituzionalista la più autorevole e lucida versione, anche se datata2.
1 Per la critica al concetto di progresso si veda Paolo Rossi (1995), ma anche il volume collettaneo curato da Bertrand Binoche (2005) e quello di Sabine Delzescaux (2003) entrambi sul concetto di civilizzazione. Per comprendere i guasti che il relativismo culturale può provocare, si vedano le risposte date dall’antropologo di Harvard Michael Herzfeld a Marino Niola che l’ha intervistato per «la Repubblica» (5 agosto 2014). A proposito dell’assenza di cultura della legalità in certe zone del Mezzogiorno d’Italia, il noto studioso sostiene che: «Certi fatti sono di ordine criminale solo se la comunità locale li considera tali». Un paradigma definito dallo stesso Herzfeld «dell’intimità culturale».
2 Per una visione più equilibrata della dialettica mentalità/istituzioni si veda la Lezione Rossi-Doria che Carlo Trigilia ha tenuto il 9 ottobre 2014 presso l’Università Roma Tre (ora in Trigilia 2015). Tra i numerosi spunti di riflessione offerti da questo studioso, due sono gli aspetti particolarmente importanti: il ruolo che la mentalità sociale svolge nelle origini delle istituzioni e il rapporto sinergico che si instaura tra questi due elementi per il buon funzionamento del mercato concorrenziale.
Come i paesi ricchi sono diventati ricchi*
di John Kay
1. Le origini1.
Le economie moderne sono sistemi complessi, insiemi di istituzioni che interagiscono tra loro e che si sono evolute nel corso di migliaia di anni. Discendiamo tutti dall’Eva mitocondriale risalente all’Africa di 150 000 anni or sono. Quando i suoi pronipoti arrivarono in Europa, 40 000 anni fa, rimpiazzarono l’Uomo di Neanderthal. Come ci riuscirono non è dato saperlo, ma è certo che nei loro siti archeologici di Cro-Magnon sono stati rinvenuti oggetti fatti di materiali provenienti da regioni distanti centinaia di chilometri, mentre gli uomini di Neanderthal usavano solo materiali locali. I Cro-Magnon dovevano dunque praticare il commercio. Introdussero anche delle innovazioni, come emerge dalla forma evoluta dei loro utensili. Ciò che può aver fatto la differenza è l’uso del linguaggio da parte dei Cro-Magnon, in quanto la comunicazione è essenziale alla specializzazione e allo scambio.
L’agricoltura fece la sua prima apparizione nelle fertili pianure della Mesopotamia, irrigate dal Tigri e dall’Eufrate, circa 8-10 000 anni fa, vale a dire in quel paese che oggi chiamiamo Iraq. La gente ha sempre posseduto vestiti e utensili, ma l’invenzione dell’agricoltura richiese l’esercizio dei diritti di proprietà sulla terra e sugli animali. Tali diritti dovettero essere codificati e riconosciuti per la prima volta in quel tempo, e furono proprio essi a creare le condizioni per l’ulteriore progresso tecnico. Infatti la selezione animale e la domesticazione di piante e specie si verificarono insieme all’istituzione della proprietà privata degli animali e delle sementi. Queste nuove tecniche, insieme alle istituzioni che le avevano rese possibili, si diffusero poi nel resto del mondo conosciuto: rapidamente attraverso pianure e lungo i fiumi, lentamente quando si trattava di valicare montagne.
Le tecniche agricole venivano trasferite più facilmente lungo i paralleli (Est/Ovest) che lungo i meridiani (Nord/Sud), perché lungo i Paralleli le escursioni climatiche sono meno brusche. Ancora oggi i paesi più ricchi si trovano in zone temperate, proprio come la Mesopotamia di 10 000 anni fa.
I passi successivi dell’evoluzione economica avvennero in Europa: produzione e commercio erano attivamente praticati nella Grecia antica. Lì furono inventate l’impresa e la gestione d’impresa, anche se entrambe non erano ben viste dai filosofi e dagli scrittori del tempo, a riprova che lo sdegno degli intellettuali per il mercato non è solo una moda contemporanea.
Oggi ad Atene i turisti possono ancora visitare le antiche piazze del mercato, i luoghi in cui i mercanti, in concorrenza tra loro, si incontravano con gli ac...