II. Il «bravo italiano» e il «cattivo tedesco». Stereotipi nazionali e costruzione di una memoria europea
di Filippo Focardi
Come tutti i grandi conflitti della storia, anche la seconda guerra mondiale ha trasformato non solo l’assetto dell’ordine internazionale e quello politico dei singoli paesi, ma anche gli orizzonti mentali, le rappresentazioni e le autorappresentazioni nazionali, il modo in cui un popolo raffigura un altro popolo e raffigura se stesso.
Alcuni anni fa uno storico acuto e brillante, il britannico Tony Judt, ha posto in evidenza come all’indomani del conflitto in tutti i paesi europei che avevano subìto l’aggressione nazista – sia in quelli dell’Europa occidentale sia in quelli dell’Europa centrale e orientale – fosse stata elaborata una memoria della seconda guerra mondiale plasmata su due nuclei fondamentali condivisi: la creazione in ogni nazione del «mito della Resistenza» come lotta dell’intero popolo contro l’oppressore tedesco e l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi della responsabilità esclusiva per «la guerra, le sue sofferenze e i suoi crimini»1. Entrambi i pilastri della memoria europea poggiavano certamente su un fondamento di verità: in ogni paese – dalla Francia alla Polonia, dalla Norvegia alla Grecia – erano sorti infatti dei ramificati movimenti di resistenza, così come erano davanti agli occhi di tutti le terribili performances criminali del Terzo Reich, responsabile dello scatenamento della guerra. E tuttavia il «mito della Resistenza» e la colpevolizzazione esclusiva della Germania avevano oscurato eventi altrettanto reali come l’esistenza in ogni paese di consistenti forze collaborazioniste che avevano aiutato l’occupante germanico nonché il fatto che gravi crimini di guerra fossero stati perpetrati non solo dai tedeschi ma anche da molti altri belligeranti compresi i vincitori. Fra i numerosi esempi si possono citare le esecuzioni di migliaia di polacchi compiute dall’Armata rossa, i ripetuti bombardamenti anglo-americani sui civili in Germania e Giappone, gli stupri commessi dai sovietici in Germania o da reparti del Corpo di spedizione francese in Italia; le espulsioni in massa di tedeschi, ungheresi, bulgari, ucraini, italiani avvenute nell’immediato dopoguerra2. Come ha osservato Tony Judt, la seconda guerra mondiale aveva dunque lasciato in Europa «a vicious legacy», un’eredità maledetta, una memoria distorta segnata da molte rimozioni3.
Come si inserisce l’Italia in questo quadro? Non vi è dubbio che anche in Italia sia stata elaborata nel dopoguerra una memoria fortemente segnata dall’esaltazione della Resistenza e dalla demonizzazione della Germania e dei tedeschi. Ma il caso italiano ha una sua peculiarità. L’Italia era il paese che aveva dato i natali al fascismo e che fin dalla metà degli anni trenta aveva stretto alleanza con la Germania nazista – prima con l’Asse (1936) poi con il Patto d’acciaio (maggio 1939) – operando sistematicamente alla demolizione dell’ordine europeo sancito a Versailles in vista di una radicale ridefinizione dei rapporti di forza internazionali. Nella prospettiva di assurgere a un ruolo di potenza imperiale e dar vita a un «nuovo ordine mediterraneo»4, dal 1935 in poi l’Italia monarchico-fascista aveva profuso uno sforzo bellico pressoché continuo: aggressione dell’Etiopia (1935), massiccio intervento a fianco di Franco nella guerra civile spagnola (1936-1939), occupazione dell’Albania (aprile 1939). Quindi, superata la breve parentesi della «non belligeranza», nel giugno del 1940 Mussolini aveva condotto il paese all’intervento nel secondo conflitto mondiale in veste di principale alleato del Reich5. Pur fallendo nel tentativo di «una guerra parallela» di conquista che tenesse il passo del partner germanico, l’Italia del duce e di Vittorio Emanuele III aveva occupato dapprima la Francia meridionale e, con l’indispensabile aiuto tedesco, nell’aprile del 1941 gran parte della Grecia e della Jugoslavia6; aveva partecipato alla guerra di aggressione nazista contro l’Unione Sovietica7 e combattuto intensamente in Africa settentrionale per quasi tre anni contro gli inglesi e le truppe alleate. Caduto Mussolini (25 luglio 1943), il paese, sotto la guida del maresciallo Badoglio, era rimasto ancora per quarantacinque giorni al fianco di Berlino, pur trattando in segreto la resa. Dopo la proclamazione dell’armistizio (8 settembre), il re si era schierato con gli anglo-americani ed era iniziata la Resistenza partigiana. Tuttavia, in tutta l’Italia centro-settentrionale si era insediato un regime fascista repubblicano – la Repubblica di Salò – che, con il duce alla testa, aveva fiancheggiato i tedeschi fino al crollo finale nella primavera del 1945.
Alla luce di tutto questo, si capisce come la «via italiana» alla costruzione della memoria della seconda guerra mondiale abbia seguito un percorso del tutto peculiare, simile in alcuni risultati ma nettamente distinto rispetto ai paesi europei che subirono l’aggressione tedesca e diverso anche rispetto ai cosiddetti alleati minori dell’Asse (Bulgaria, Ungheria, Romania, Finlandia) in ragione del ruolo storico giocato dal fascismo e della parte nient’affatto secondaria svolta dal paese nelle vicende belliche. Nel caso dell’Italia non si trattava solo di affrontare una resa dei conti col fenomeno del collaborazionismo e della guerra civile, ma di rendere ragione di un regime dittatoriale ventennale, preso a modello da molte destre dentro e fuori l’Europa (compreso il nazionalsocialismo), un regime che si era associato alla Germania nazista per sovvertire l’ordine europeo rendendosi responsabile di azioni eversive sul piano internazionale culminate nella partecipazione alla seconda guerra mondiale come alleato fondamentale del Terzo Reich e del Giappone, protagonista per oltre tre anni – dal giugno del 1940 al settembre del 1943 – di una guerra di aggressione e di numerose occupazioni di territori europei, dove – specie nei Balcani – si era macchiato di gravi crimini contro le popolazioni civili.
È necessario notare che da parte italiana non furono commessi crimini di massa di tipo genocidiario come quelli compiuti dall’alleato germanico – si pensi allo sterminio degli ebrei o dei rom/sinti –, tuttavia le forze armate italiane e la milizia fascista furono responsabili di numerosi atti di violenza configurabili come crimini di guerra8. Nel quadro di operazioni antiguerriglia finalizzate a neutralizzare i movimenti di resistenza sorti nei territori occupati – in Slovenia, Croazia, Dalmazia, Montenegro, Albania, Grecia ma anche in Unione Sovietica – furono dispiegate infatti misure draconiane di punizione collettiva che sfociarono spesso in una vera e propria «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti, incendi di villaggi, fucilazioni di ostaggi, stragi, deportazioni in massa di uomini, donne e bambini9. Né va trascurata la pratica di eliminare sul posto i partigiani, o presunti tali, caduti prigionieri, comprese le donne. Fra le stragi possiamo ricordare, ad esempio, quella compiuta dall’esercito nel febbraio del 1943 a Domenikon, un paesino greco della Tessaglia, dove per rappresaglia dopo un’azione partigiana furono fucilati tutti i maschi (esclusi i bambini e gli anziani): le vittime in totale furono 145 (16 greci passati per le armi per ogni soldato italiano caduto nell’attentato)10. Episodi cruenti come quello di Domenikon si verificarono in tutti i territori balcanici occupati dagli italiani11. A fini repressivi fu creato dall’Italia anche un vero e proprio sistema concentrazionario, con oltre cinquanta campi in cui furono deportati almeno 110 000 fra sloveni, croati e montenegrini12 (nel caso della Slovenia fu deportato circa l’8 per cento dell’intera popolazione). Ma anche molti greci subirono la deportazione, soprattutto nel campo di Larissa. In alcuni di questi campi, a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie e dei maltrattamenti, si registrarono alti tassi di mortalità. Il campo più famigerato fu quello installato sull’isola croata di Rab dove il tasso di mortalità raggiunse il 20 per cento (1435 vittime su 7541 internati)13.
Ebbene, di tutto ciò, di quella che è stata chiamata «la guerra sporca di Mussolini», non vi è traccia nella master narrative italiana della seconda guerra mondiale. Come negli altri paesi europei che hanno subìto l’occupazione tedesca, tale narrazione ha avuto nello stereotipo del «cattivo tedesco» uno dei suoi pilastri. Ma a questo stereotipo ne è stato fin dall’inizio associato un altro speculare: quello del «bravo italiano»14. Al cupo ritratto del soldato germanico quale disciplinato e sanguinario combattente, implacabile e sadico oppressore di inermi, fu contrapposto il ritratto antitetico e tipizzato del soldato italiano intimamente avverso alla guerra, recalcitrante al compimento di atti di violenza e di sopraffazione, sempre pronto a solidarizzare e a portare soccorso alle popolazioni indifese, comprese quelle dei territori occupati dal fascismo. E la stessa immagine speculare fu applicata alla descrizione dei due regimi e dei due popoli, il tedesco e l’italiano. Al «volto» malvagio del soldato germanico corrispose nella raffigurazione predominante il «volto» demoniaco della Germania nazista espressione di un perfetto connubio fra regime hitleriano e popolo tedesco ideologizzato e fanatizzato, mentre all’immagine benevola del «bravo» soldato italiano corrispose l’immagine del popolo italiano vittima del fascismo e dell’invisa guerra di Mussolini, un popolo pacifico e dall’innata bonomia, refrattario all’irregimentazione totalitaria voluta dal duce.
Dunque, due stereotipi strettamente intrecciati, dove le presunte virtù umanitarie del «bravo italiano» spiccavano grazie al raffronto con le spregevoli attitudini criminali del «cattivo tedesco», il quale fu utilizzato efficacemente come comodo alibi per scagionare l’Italia da ogni colpa per la guerra dell’Asse e le sue atrocità.
Ma come si è svolto il processo di formazione del binomio «cattivo tedesco»-«bravo italiano»? Quando ha avuto origine? Chi ha contribuito a produrlo e per quali ragioni? La mia tesi è che le sue fondamenta siano state poste nel periodo compreso fra la proclamazione dell’armistizio nel settembre del 1943 e i primi due anni del dopoguerra, fino al 1947, durante i quali fu preparato e discusso il trattato di pace (firmato dall’Italia il 10 febbraio 1947), sulla spinta di stringenti esigenze politiche condivise dal composito fronte antifascista, cioè sia dalla Corona e dal governo Badoglio sia dai partiti del Comitato di liberazione nazionale (Cln), che elaborarono un racconto della seconda guerra mondiale fondato sulla distinzione e la contrapposizione fra Italia e Germania, fra «bravi italiani» e «cattivi tedeschi» appunto, allo scopo di ottenere autolegittimazione politica, attuare un’efficace mobilitazione bellica antigermanica e, soprattutto, salvaguardare gli interessi nazionali minacciati dal rischio di una pace punitiva.
Per capire come tutto questo si realizzò con successo, bisogna partire da un fattore importante che, per così dire, «preparò il terreno» negli anni immediatamente precedenti: mi riferisco alla propaganda di guerra alleata. Fin dall’ingresso dell’Italia nelle ostilità, prima la Gran Bretagna, e dopo il 1941 anche l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, individuarono nell’Italia l’«anello debole» dell’Asse e considerarono possibile determinarne l’uscita dal conflitto attraverso un’intensa azione di propaganda mirata a incrinare la tenuta del fronte interno e a fiaccare il morale delle truppe del duce15. Per perseguire quest’obiettivo la propaganda degli Alleati seguì due direttrici fondamentali: da un lato, operò una netta distinzione fra l’innocente e pacifico popolo italiano e il regime fascista e additò Mussolini come unico responsabile per aver precipitato il paese nelle sofferenze della guerra per smania di grandezza e sudditanza al Terzo Reich; dall’altro lato, attizzò con abilità i sentimenti antitedeschi, mai sopiti in Italia anche dopo l’alleanza con la Germania. La Germania fu dipinta infatti agli occhi degli italiani come un «falso alleato» che in verità perseguiva solo i propri interessi egemonici; un alleato che non esitava a tradire sul campo gli italiani abbandonandoli in balìa del nemico, come era successo al momento delle sconfitte decisive a el-‘Alamein e sul Don (in realtà ciò non era vero); come un alleato brutale e sanguinario che stava assassinando i popoli europei e che rappresentava una minaccia per gli stessi italiani. Per tutto questo il popolo italiano e le sue forze armate erano invitati ad abbandonare la nefasta guerra di Mussolini a fianco della Germania e a riannodare i tradizionali legami di amicizia con le potenze democratiche cementati trent’anni prima dalla comune partecipazione alla grande guerra.
La contrapposizione f...