Spazi che contano
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Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale

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Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale

Informazioni su questo libro

L'attacco al riduzionismo funzionalista negli anni settanta veniva portato avanti entro almeno due differenti angolazioni. Da un lato Henri Lefebvre, a sfidare l'ortodossia marxista. Dall'altro, la pista anarchica di Colin Ward. La critica al riduzionismo funzionalista è già tutta lì, compresa negli attacchi rivolti all'incapacità del funzionalismo di cogliere l'essenza della città. Oggi il progetto urbanistico rischia di finire entro le maglie di un nuovo funzionalismo. Questa l'ipotesi che il libro propone, a valle di alcune ampie ricerche condotte su territori europei. Il progetto contemporaneo è, di nuovo, un progetto funzionalista perché gioca tutto su aspetti percettivi, di sensibilità, di comfort; sulla necessità di rinforzare identità e abitabilità per un soggetto scarnificato e astratto; rende lo spazio e la società piatti. Spazio e società non sono piatti, neppure negli anni della crisi che molte cose ha ridotto. Al contrario, i territori europei mostrano questioni complesse che hanno a che fare con le ambiguità del vivere assieme in società individualizzate, con l'intimità e l'esibizione, con il deflagrare dei diritti relativi all'abitare, in un'epoca segnata dalla loro forte restrizione. Scopo di questo libro è mettere in evidenza questi snodi affinché essi mantengano la loro problematicità. Gli spazi della condivisione, dello stare entre nous, dell'abitare felice nella dispersione, delle passioni gioiose e di quelle tristi, dell'intimité e dell'extimité, gli urban interiors, gli spazi generati dalla desingolarizzazione dei diritti funzionano in questo modo. Hanno una certa efficacia nel disvelare, teatralizzandolo, l'orizzonte normativo del reale. Sono spazi che contano esattamente in questo senso: per rapporto ai soggetti, ai corpi, alle passioni, alle pratiche.

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Informazioni

II. Familiare ed estraneo.
I giochi destrutturati della condivisione

La riflessione sulla città come forma dell’esperienza degli individui ha permeato l’urbanistica della seconda metà del Novecento, declinandosi in modi diversi. L’immagine di individui che si aggirano liberati per le vie del mondo, compiendo scelte e prendendo decisioni all’interno della propria sfera personale ha rafforzato la convinzione che la città fosse un corpo fatto di soggetti che si concepiscono come singoli, che rivendicano il diritto di esprimere sé stessi, prendere parola, distinguersi, muoversi liberamente in microsfere di autonomia soggettiva. I territori che questi soggetti abitano sono, per convinzione comune, quelli della diffusione degli anni novanta, segnati da un’orizzontalità, nella quale è sempre più difficile reperire tracce di differenziazione simbolica. Letti come espressione di quella «cultura del narcisismo» che diviene segno dell’epoca1.
L’individualizzazione è destinata a rimanere tra noi2. Così la città diffusa, almeno in Europa. Ma l’idea della città come corpo di individui è in larga parte una semplificazione. Su questo sfondo orizzontale è sempre più evidente la presenza di individui che rivendicano la scelta di non giocare più da soli3, di stare entre nous prima che nella società. Cerchie ristrette entro le quali si stabiliscono robusti legami orizzontali tesi a ridisegnare le forme dell’abitare, del produrre, del proteggersi. Fino a generare, nei casi estremi, forme contemporanee di antiurbanesimo, giocate a mezzo di relazioni che prendono la forma seducente della prossimità, del volontariato, del dono e si reggono sulla convinzione che far da sé, in piccoli gruppi, in cerchie ristrette, renda le proprie azioni più ambiziose, più sostenibili e di maggiore qualità. La condivisione rivendica lo stato felice in cui «il più povero dei pescatori rema con remi d’oro», per dirla con (un insolitamente ottimista) Nietzsche. Dove l’oro, la luce del sole al tramonto, indica i beni fondamentali della vita, il vivere bene4.
Tra la presunta indifferenza dell’individualismo e la presunta superiorità morale delle minoranze si gioca il nuovo abitare. La prima fatta di abitudine ed estraneità. La seconda pervasa da un’ossessione di purezza che si dice centrata sul mondo, ma che bada innanzitutto a sé stessa. Di questa tensione si connota l’abitare contemporaneo: di una stridente e troppo facile opposizione tra le ragioni dell’individuo e quelle del piccolo gruppo, il narcisismo del singolo e quello dell’entre nous, l’estraneità e la familiarità, l’innovazione sociale e la protezione ridisegnata alla piccola scala. Se «la ville est toujours la ville de quelqu’un»5, quel quelqu’un è forse, meno di quanto non sia stato ieri, un individuo singolo.
Coleman è il sociologo che più di altri, nella sua monumentale opera, ha affrontato il tema degli attori collettivi che agiscono entro contesti di individualizzazione, assolvendo le funzioni in altri tempi svolte dalle famiglie o dalle comunità locali. Per lui le società del futuro saranno sempre più segnate da queste figure e dalla loro capacità di ridisegnare capitale sociale6: piccole e grandi utopie cooperative in cui individui destinati alla solitudine si impegnano in un mutuo soccorso. Ciò che Coleman prefigura si traduce in un invito a prendere la questione sul serio. Il che non significa, come cercherò di dire, un’adesione ingenua alle virtù della condivisione.

1. La città: un corpo fatto di individui.

L’emergere dell’individuo nella cultura e nella città europea è uno dei temi centrali nella discussione urbanistica degli ultimi trent’anni, cioè da quando si parla di città diffusa. L’emergere dell’individuo ha evidentemente una storia assai più lunga e complessa, certo non ascrivibile al Novecento. L’affermarsi di un’umanità di individui liberi e responsabili è fondante della nuova prassi culturale dell’Illuminismo. È la kantiana uscita dell’uomo dallo stato di minorità7: l’appello rivolto al soggetto perché si serva dell’intelletto a dare tono e sapore di concretezza, libertà e spregiudicatezza al proprio pensiero. Ma è anche il tema dell’educazione, posto bene al centro di un disegno di organizzazione sociale. Rousseau, Fénelon, Sade: l’educazione alla politica, alla cultura, al piacere hanno al centro l’individuo moderno. Le contraddizioni tra l’«osa sapere» kantiano, come affermazione di piena autonomia del soggetto, e la fiducia nelle potenzialità dell’educazione trascinano l’individualismo nel Moderno. Dapprima nella sfera romantica ottocentesca con Emerson, Thoreau e Mill, a disegnare il dualismo tra libertà degli stili di vita e tirannia dell’opinione pubblica. In seguito, nella seconda metà del Novecento, nella frattura tra un individualismo democratico (che si sostanzia in uguaglianza e libertà) e un individualismo apatico e indifferente ai destini degli altri. Siamo, come scrive Urbinati, ancora dentro la prospettiva socio-politica di Alexis de Tocqueville8.
È però solo nell’amalgama della città diffusa che gli urbanisti colgono la forza di una struttura sociale individualizzata. Superata la prima fase dell’indignazione che leggeva la modernizzazione come deplorevole catastrofe e temeva l’avvento di una «Nuova piccola Borghesia» a invadere il mondo e annullare le differenze9, messi da parte il conservatorismo dell’intellighentia vecchia e nuova e gli innumerevoli lamenti per la fine della città, intessuti di pietà, devozione e memoria, messa da parte l’angoscia e lo spaesamento per una crescita edilizia travolgente, messo da parte tutto questo, nella città diffusa si scorgono i mutati rapporti tra società, economia e territorio alla fine del Novecento. Ovvero il frantumarsi dei modelli di regolazione fordista10. Attraverso la lente dei territori della diffusione, torna, nel pensiero urbanistico, attenzione al mutare delle forme di accumulazione, di dominazione, di rappresentanza democratica11. È ancora attraverso le ragioni individuali che si toccano, seppure lateralmente, memoria collettiva e mitologie inconsce12. Ovvero tutto ciò che colloca gli individui «innumerevoli e irriducibili» entro visioni d’assieme altamente simboliche che li riportano a un’idea più complessa di territorio. Come, in fondo, già era stato per la grande ville di inizio secolo, luogo di condensazione dell’esperienza individuale del mondo, espressione materiale di una «civilisation des individus»13.
Il legame, forte e lineare, tra emergere del soggetto e territorio della diffusione insediativa è l’oggetto di una intera stagione di ricerche14. Esercizi condotti un po’ ovunque in Europa vi insistono: «la società urbana, non più interpretabile come formata da grandi aggregati omogenei, si disperde nell’innumerevole»15; il singolo individuo, la singola famiglia, la singola impresa come fantasmagoria di un nuovo paesaggio; un vasto spazio abitato a debole densità che è anche un «mare di solitudine di massa»16. La dispersione come esito visibile di un processo che parzializza, paralizza e dissolve in episodi singoli l’abitare. Viene mobilitato il concetto di razionalità minimale che è centro di ogni visione individualistica, altra faccia di quell’«antica voglia di far da sé»17, irruenta forza motrice dello sviluppo del paese durante la Golden Age, alla quale è stato fornito, in passato, qualche sostegno da parte della politica, seppure in modo ambiguo e strumentale18, consolidando un modello retto sull’individuo, quanto sul consumo forsennato del capitale sociale e territoriale ereditato: un modo di vivere caratterizzato da livelli di benessere che appaiono, per alcuni aspetti, più elevati grazie a sistemi di compensazione individuali e familiari. Ripensando a quella stagione, Paola Viganò ha recentemente sottolineato come il moltiplicarsi di minute indagini, descrizioni e progetti, che si è misurato con la dispersione, abbia reso comprensibile e operabile uno spazio che appariva caotico, frammentato, sfuggente alle immagini tradizionali della città: situazione complessa, «derivata da una miriade di scelte individuali»19.
Ma la ricezione dell’individualismo nelle ricerche urbanistiche sulla dispersione è stata perlomeno duplice. Nella gran parte dei casi, il giocare da soli, à la Putnam, di cui i territori della dispersione sono riflesso, è inteso come corrosione di legami collettivi, crisi dei vincoli politici, dissolvimento di corpi collettivi, delle appartenenze, delle comunità di destino di weberiana memoria. Entro questo scenario, ancora dominato dalla perdita, gli urbanisti oppongono, al giocare da soli, compattezza e cooperazione, processi co-evolutivi, idee di comunità che appaiono, in più casi, incatenate al territorio. Coralità produttive, intimità di legami, lente costruzioni dei luoghi sono condizioni collettive che la città diffusa faticherebbe a contenere. In altri termini, la diffusione e il suo esasperato individualismo sono il contrario del tepore domestico della comunità che, per distrettualisti e territorialisti, caratterizza la nozione stessa di territorio20.
Dall’altro lato, uno scenario opposto: la città diffusa come «città perfetta», ritratta dalle 7942 immagini di Olivio Barbieri e Pippo Ciorra che ripercorrono i 400 chilometri della costa adriatica da Vasto a Ravenna. Perfetta per la capacità di rivelare «complessità e contraddizioni» dell’urbanesimo contemporaneo (omaggio trasversale ed eretico a Robert Venturi). È il bordo di strass di Pier Vittorio Tondelli: esile e continuo, lungo la linea di costa, costruito sulla sovrapposizione di qualità di vita e spreco ecologico, dove non contano le distanze, ma la fitta infrastrutturazione che le rende percorribili21. Non più, evidentemente, spazio della distrazione nella duplice declinazione moderna di luogo di divertimento e di smarrimento22. Ma spazio dell’abitare dentro una condizione altra. Una «città perfetta»: così vicino all’Arcadia for All di Hardy e Ward, seppure a un secolo di distanza23. Di questa condivide l’insistente richiamo a un senso di libertà. Qui l’associazione tra il possesso di un pezzo di terra e la scelta di abitare ai margini (politici e geografici) poggia meno sul concetto di proprietà e più sull’opportunità di creare «una piccola realtà a partire da una scelta personale».
Abitare dentro una condizione altra è la rivendicazione di una lunga tradizione di idee: da William Godwin a Pierre-Joseph Proudhon. Pensatori non a caso mobilitati da Hardy e Ward per raccontarci le tante Arcadie del Sud dell’Inghilterra, sparpagliate e irregolari, così simili alla città adriatica24, nate inizialmente come «paesaggio dei poveri» e solo in seguito ibridate degli interessi di bohémien, artisti e ceti medi25: un caleidoscopio di baracche e alloggi arrangiati che colonizzano territori di frangia, spesso poco appetibili e scarsamente produttivi. La «città perfetta» come espressione contemporanea di una città anarchica? Per alcuni versi è un ossimoro, per altri una banalizzazione. Ma la prospettiva è la stessa. Ovvero quella che afferma che vi sono modi diversi per costruire un abitare migliore.
Sulla copertina del libro di Hardy e Ward sono ritratti, in una fotografia degli anni venti, i corpi di giovani donne che corrono, o probabilmente danzano, in costume da bagno, in riva al mare26. I gesti e gli sguardi sono scenografici: il giocare da soli, ci dicono, è anche leggerezza e libertà. La leggerezza bene resa dall’espressione francese à corp perdu che indica l’agire senza badare a conseguenze, con noncuranza, che esalta il primato del corpo sulla ragione. Corpo di una soggettività felice. Uscita da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I. Nuovi funzionalismi. Introduzione
  6. II. Familiare ed estraneo. I giochi destrutturati della condivisione
  7. III. Corpi e spazi. La redistribuzione dell’egemonia simbolica del pubblico
  8. IV. Sovranità e conflitto. Il deflagrare dei diritti
  9. V. Spazi che contano. Nota conclusiva