L'Isola dei ciechi
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Informazioni su questo libro

Beppe, un maestro di scuola stanco della compagnia dei suoi simili, salpa da Verona per raggiungere il Giappone. Approda invece in un'isola sconosciuta i cui abitanti sono privi della vista. I cittadini di Amauropoli, così si chiama la "città cieca", dormono durante il giorno e lavorano la notte, hanno un bizzarro concetto della bellezza femminile e considerano il sole una risibile superstizione e gli occhi un organo contrario ai principi del buon senso."L'Isola dei ciechi" di Giuseppe Fraccaroli (1849-1915), professore di Letteratura greca all'Università di Torino e polemista fra i più noti a cavallo dei due secoli, è una brillante e divertente satira della fiducia ottusa nelle scienze positive e nel progresso. Apparsa nel 1907, viene qui riproposta per la prima volta a cura e con un saggio di Giuseppe Dino Baldi, che la recupera come una delle testimonianze più significative della fortuna di Swift in Italia. Le altre opere narrative di Giuseppe Fraccaroli sono in corso di pubblicazione in questa stessa collana.

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Informazioni

L’Isola dei ciechi

Capitolo I

Come io ci sia capitato, non lo saprei davvero raccontare. Ma era un paese molto strano. Io ero lì in mezzo alla strada con la valigia, che mi pesava, e non ero capace di trovare un facchino. Un facchino? Ma non si vedeva neanche l’ombra d’un cane per tutta la via quant’era lunga, e le case eran tutte chiuse e tappate, porte e finestre, quelle poche finestre che c’erano. Che sia una città abbandonata?, pensai tra me. L’aspetto degli edifici era disadorno e meschino, ma di rovina e di abbandono non c’era traccia; le strade erano selciate di piastrelle disposte a strisce longitudinali di differenti figure geometriche, per ciascuna figura una striscia; ed erano pulite e levigate come il pavimento di San Paolo a Roma. Io mi trassi da un canto, scossi dalle scarpe la polvere.
Poiché erano le ore calde, immaginai dunque che in quel paese ci fosse l’uso di far la siesta. Mi pareva strana per altro questa siesta così generale (nemmeno a Roma di mezz’agosto c’è per la siesta un tal deserto); e intanto guardavo di qua e di là, se ci fosse l’insegna di qualche osteria: lì ci dovrà pur essere, pensavo io, qualcheduno di guardia. Ma per quanto guardassi e camminassi, non vedevo né frasca né circolo, né scrittura, né figura, niente, niente, nessuna indicazione, nessun segno, salvo lungo le case, di tratto in tratto, ad altezza d’uomo delle piastrelle murate di diverse forme geometriche, simili a quelle del lastrico, mezzo consumate in parecchi luoghi dal toccare forte e dallo sfregare dei passanti. Camminavo, camminavo, camminavo; quando finalmente mi corre l’occhio dietro al muricciuolo di un orto, e vedo due galline che beccano e un gatto sdraiato che sbadiglia. Io ho una certa prontezza di ingegno, e perciò argomentai tutto a un tratto: se ci son galline, ci deve essere chi le mangia, e se c’è un gatto, ci sarà chi lo mantiene: provo a picchiare a questa porta? Quando uno è stanco ed esausto, com’ero io, anche l’azione che d’ordinario corre spontanea costa uno sforzo di volontà. Picchio, o non picchio? Il sole era già vicino al tramonto e centinaia di passeri cinguettavano tra i rami d’un tiglio che dall’orto si sporgeva sulla strada. Picchio, o non picchio? Si può pensarci anche stando seduti. E poiché la porta di quella casa avea due gradini davanti, mi sedetti sopra il secondo a guardare i passeri e il tiglio: avevo il vantaggio d’essere all’ombra e insieme al sicuro, o così mi pareva, dalle incongruenze di quelli uccelli.

Capitolo II

Mi svegliai di soprassalto, anzi, dirò meglio, mi svegliarono, e in che bel modo! Si vede che da seduto un po’ alla volta mi ero sdraiato attraverso la porta con la valigia per capezzale; una persona uscì di casa che era già buio, e non s’accorse di me: il resto si capisce. Io mi ebbi dunque un potentissimo calcio in uno stinco, che quando cambia il tempo mi duole ancora; ma la signora (perché la persona che usciva era una signora), mi cadde addosso di traverso con la faccia avanti in così malo modo, che, pesante com’era, andò a battere le protuberanze frontali sopra la geometria del selciato.
Lì per lì mi misi a gridare: – che maniera? – ma poi sentendo la donna urlare forte e disperarsi io sono tenero di cuore, e poi mi rendo ragione delle cose; così mi grattai un poco lo stinco e mi alzai zoppicando per soccorrerla. Ma non mi ero per anco bene alzato, che una folla di gente ci fu addosso; c’era, come ho saputo dopo, il marito della mia vittima, c’era la figlia, c’erano le guardie, e molti curiosi. – Portate dei lumi, accidenti! – mi misi a gridare. E poiché nessuno se ne dava per inteso, io pensai subito che non capissero l’italiano.
Era buio pesto, eppure io sentivo che in quella tenebra tutta quella gente si moveva senza far molto rumore, e si agitava senza urtarsi, senza impedirsi gli uni con gli altri. Mi corse un brivido di spavento per tutto il corpo: io avevo dormito sotto il tiglio; che fosse accaduto anche a me come al vecchio Tobia[1]? Mi fregai gli occhi, poi li alzai istintivamente e vidi una stella. Non avevo finito di racconsolarmi, che quattro mani mi afferrarono simmetricamente, due per braccio: – Alla polizia!
Io me la vedevo un po’ brutta: la folla cresceva, e pareva proprio che ce l’avessero amara con me!
– Ha ammazzato una donna. – Chi? – Un forestiero ha ammazzato una donna. – Dàlli, dàlli, all’assassino! – Ma è già morta? – Sì – No. – Le ha spaccato il cranio. – Che orrore! Dàlli, dàlli!
Io me la vedevo molto brutta.
Fortunatamente poi lungo la via la bufera parve rabbonirsi. – Avanti! – mi disse il birro che avevo a destra; – alla polizia!
– Avanti! – Sta bene, dissi io, ma non ci vedo.
Quello non parve capire.
– Sono forestiero, non so la strada.
– Cinquantacinque passi a diritta sui circoli, ducentodiciotto a sinistra sulle elissi, poi a destra ancora centocinquantaquattro sui triangoli
Io non ascoltai fino alla fine, e mi piantai lì. – Portatemi, dissi io; io non capisco e non ci vedo.
Parve che i birri si consultassero; poi a un tratto mi presero sotto braccio uno per parte, e dissero: – andiamo!
E si andava via di buon passo, e io zoppicavo per lo stinco ferito, e non avvezzo a camminare nel buio incespicavo e scivolavo. Essi mi reggevano e di tratto in tratto mi aiutavano anche con qualche incoraggiamento a posteriori; all’infuori del quale io non capivo nulla di nulla. Sentivo per la strada il brusio della gente che andava e veniva stropicciando i piedi. Erano lì tutti per me? Non mi pareva. Chi andava in un senso, chi in un altro: discorrevano. Io guardavo tra i tetti sopra il mio capo, e le stelle indicavano la direzione della via: del resto buio. – Che siano come i gatti costoro, che vanno attorno di notte?
Come giungemmo finalmente al commissariato, i birri mi consegnarono a due altre guardie, dicendo: – Badate di reggerlo, perché è ubriaco fradicio. – Queste mi introdussero dal capo ufficio in uno stanzone anche più buio della strada.
– Sedete, mi disse il commissario, come fui dentro.
– Dove?
– Sulla sedia.
– Dov’è la sedia?
– Al suo posto.
E come io brancolavo per cercarla, una guardia mi prese per un braccio e mi tirò verso di essa, smovendola insieme rumorosamente per farmi sentire dove la era. Io mi piegai verso quella parte e feci per sedermi, ma sbagliai e caddi a terra.
– Sa, signor commissario, disse la guardia, è ubriaco fradicio: non si regge in piedi.
Se io non fossi stato in quel brutto frangente, gli avrei rotto il muso a quell’animale.
Dopo un quarto d’ora il commissario suonò:
– È pronto dunque cotesto rapporto?
– Pronto, signor commissario.
– Ebbene, datene lettura al prevenuto[2].
Io avevo letto da ragazzo che il tribunale dell’Areopago teneva i suoi giudizi di notte, senza lumi, affinché l’aspetto dell’imputato non avesse a commuovere eventualmente l’animo dei giudici; e quando fui introdotto in quella sala così buia buia, immaginai subito che in quel paese durasse pur anco un tale costume. Ma come sentii che c’era un rapporto da leggere, – oh, adesso i lumi, pensai, si dovranno pure accendere! Invece no, lumi niente. Sentii bensì una voce monotona e chioccia recitare di fila una pappardella sconnessa, senza pause, senza respiri, senza senso: e poiché nessuno parla a quel modo lì, neanche i matti, non poteva dunque essere che una lettura; e quello che leggeva era nella sala. La mia attenzione era rivolta a questa meraviglia, e perciò al contenuto della pappardella non badai: intesi per altro che vi si parlava di una donna ferita, e di un ubriaco fradicio.
– La parte lesa è presente?, domandò il commissario.
– Ha pregato di attenderla qualche minuto.
– Ebbene, intanto procederemo all’interrogatorio del prevenuto. Prevenuto, voi siete forestiero?
– Signor sì.
– Cosa siete venuto a fare ad Amauropoli[3]?
– Scusi, commissario, Amauropoli è forse il nome di questa illustre città?
– Non fate lo gnorri. Cosa ci siete venuto a fare?
Era proprio la domanda terribile: cosa ci sono andato a fare? Ma l’ho forse io mai saputo? Io restavo lì senza rispondere.
– Andiamo per ordine, ripigliò il commissario: di dove venite?
– Oh, questo sì glielo posso dire. Vengo da Verona.
– Da...?
– Da Verona.
– Cosa è Verona?
Un bell’asino, pensai tra me, che fa di queste domande. – Verona, risposi forte, è la più bella città del mondo.
– Non è questo il luogo di scherzare, capite?, saltò su il commissario. Che storie mi venite a contare? Ecco qui il dizionario delle città e dei villaggi di tutta la terra; lì dentro c’è tutto. A voi! trovatemi nel dizionario questa vostra… come si chiama?
– Verona.
– Trovatemela, se siete capace.
E sentii passarmi sulle mani un libraccio grande come un messale.
– Sapete leggere? Soggiunse il commissario.
– Sono maestro di scuola, e questo è parte del mio dovere.
– Ebbene, leggete e toccate con mano.
– Se il signor commissario, dissi io, volesse aver la compiacenza di far portare una candela, io potrei leggere benissimo tutto ciò che comanda.
– Questi sono discorsi insensati, cominciò il commissario; ma non proseguì, perché intanto la porta dietro di me si riaperse ed entrarono alcune persone. Era la rappresentanza della parte lesa, il marito e la figlia della mia vittima. Essi entrarono, fecero i convenevoli, si sedettero, senza incespicare e senza urtare niente.
– Come va la povera sua signora?, domandò il commissario.
– Fortunatamente, rispose l’uomo, è cosa leggera, e fu assai maggiore la paura che il danno.
– Bene, bene, fece il commissario: stavamo appunto interrogando il prevenuto, il quale è ubriaco fradicio, e dà perciò delle risposte insensate.
– La prego signor commissario, dissi io impermalito: ma che maniera è questa di offender la gente gratuitamente?
– Ma se non potete nemmeno reggervi in piedi! e non volete essere ubriaco?
– Prima di tutto, ribattei io, io non sono avvezzo a camminare all’oscuro: poi ho ricevuto un potente calcio in uno stinco da una persona che mi è caduta addosso, e ho la gamba che mi fa male. Finalmente le posso affermare sul mio onore, che da quando sono partito da Verona non ho più assaggiato una goccia di vino: chi si è avvezzato al Valpolicella non può soffrire gli intrugli. Questa è la verità.
– Bene, bene, disse il commissario; tutte queste sono chiacchiere inutili, e noi non abbiamo tempo da perdere. Stendiamo il verbale; e dite pure quello che vi piace, ma pensate bene che la verità poi la si scopre, e che la menzogna si paga cara.
– La mi interroghi.
– ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. Collana
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. L'Isola dei ciechi
  7. Nota al testo
  8. Giuseppe Fraccaroli tra filologia e romanzo (nota biografica)
  9. Nell’Isola dei ciechi di Dino Baldi
  10. Bibliografia
  11. Profilo del curatore
  12. Note azzurre