Fuochi d'artifizio
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Fuochi d'artifizio

Corrado Govoni, Francesco Targhetta

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Fuochi d'artifizio

Corrado Govoni, Francesco Targhetta

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Terza raccolta pubblicata da Corrado Govoni, Fuochi d'artifizio (1905) è tra i libri di poesia più scioccanti e insoliti del nostro Primo Novecento. Dopo che il giovane poeta ferrarese si era affrancato, attraverso le prime due opere (Le fiale e Armonia in grigio et in silenzio, 1903), dai modelli simbolisti francesi e dall'egida di Pascoli e d'Annunzio, non gli restava che godere del vuoto letterario con la maggiore libertà possibile, e questa raccolta celebra l'emancipazione trasgredendo qualsiasi codice lirico tradizionale: nei Fuochi d'artifizio ecco dunque trionfare l'anti-sublime e l'anti-letterario, l'ineleganza e il disordine, il caos e lo stupore. Govoni gioca a disorientare il lettore, accompagnandolo in viaggi allucinati ed euforici nella campagna ferrarese, e poi travolgendolo in continue girandole di fantasie esotiche, sogni macabri, visioni di stampo decadente ed esplorazioni conventuali, per meandri che mimano la struttura di un labirinto. Grazie alla mancanza di sezioni che scandiscano secondo un disegno ordinato le poesie, il senso di spaesamento, nella lettura, è totale, tanto più che i numerosi rimandi interni creano immagini ricorrenti e percorsi nascosti nel dedalo di un mondo in incessante metamorfosi, mentre esplodono analogie e metafore che scardinano dalle fondamenta i nessi tra gli oggetti. E così Govoni, mentre assiste e ci fa assistere alla frantumazione della realtà, si e ci lascia meravigliare dai colori e dai suoni dello spettacolo ottenuto, e prova in ogni modo, forzando il linguaggio e boicottando la grammatica, a trasmettere al lettore il godimento di un mondo che si dissolve e perde, da ogni falla, il suo significato. Ma dallo spazio della creazione poetica bisogna giocoforza uscire: non a caso i Fuochi d'artifizio sono attraversati da una sotterranea vena luttuosa che rende sinistra la sua festosità; la fiera, a ben vedere, si rivela pur sempre una carrellata di figure marginali: pazzi, saltimbanchi, vedove e malati di tisi, suore che escono dal convento e mendicanti, in un tripudio dell'anomalia che rimane un'esperienza eccentrica e fortemente isolata nella storia della poesia italiana. Questa è la prima volta che i Fuochi d'artifizio vengono ripubblicati integralmente dopo la prima edizione, e la veste digitale consente di riprodurne il colore originale e di confermarne la spiazzante vitalità.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788874629183
Fuochi d'artifizio
Al mio caro barbagianni che si chiama Buffone, alla trinità vergine e luminosa delle mie buone sorelle – cercatele – ed alla tenera custodia della mia grande campana di vetro che cova la bellezza variopinta d’un mazzo smodato di fiori di cera in un canestro per la cui anima di legno gira un tarlo.
STUDIO DI NUDO
Grigio uniforme della mia vita! Pare
un qualche povero salone provinciale
rischiarato da un troppo grande focolare,
in un triste crepuscolo domenicale.

Chi scalda quella fiamma stanca di bruciare
di nascosto? Che vuoto! Solo un canterale
con uno stipo in cui si sente rosicchiare
un tarlo, e sotto un vetro un mazzo artificiale.

Una gottosa pendola del settecento
trascina la pesante ruota del mulino
del tempo come un mulo ansante, a la parete.

Le ombre giuocano ai dadi sopra il pavimento,
ed un pattuisce coi sicari nel giardino
la vendita del giorno per poche monete.
DOPO L'INEVITABILE
Le donne tacciono. E la loro angoscia
intorno ad esse impregna tutta l’aria.
Dopo l’inevitabile! La pioggia scroscia
malinconicamente sulle lastre.
Il fondo della stanza è di tinte verdastre.
Ognissanti! Ogni cosa à la stess’aria.

È già sera. E su le sorelle bionde
il sentore de l’infelicità
si accentua. Il lutto della veste le soffonde
di pace; e i loro mesti atteggiamenti
oh come saturi di rinunziamenti!
sembrano quelli della Pietà.

L’Addolorata siede. E la mitezza
delle sue mani sopra il poveretto
tavolo temperan la lor rassegnatezza
nell’effluvio dei lunghi tuberosi
che s’ammalan nel candido vasetto.
NELLA CASA PATERNA
Buio. È la sera dell’Ascensione.
Le cugine ànno inaugurato una veste.
Ora la strada s’anima di peste.
Le donne son tornate da benedizione.

Nella cucina, nel paiuolo rattoppato
la polenta solleva delle bolle.
Sul tagliere si tagliano delle cipolle.
Il merlo sta vicino al fuoco: è un po’ malato.

Si apparecchia, e si accende la lumiera.
L’orologio coi suoi rosolacci
segna l’ora di notte tra gli stacci.
L’insalata con l’uova è pronta nell’insalatiera.

Il crepuscolo è d’un lilla soave.
I passerotti si rifugian nel pagliaio.
Le galline tardive corrono al pollaio.
Sbatte una porta. Gira stridendo una chiave.
ECCO LA VITA!
Dove sono gli amici? Vane
parole! E i parenti? e colei
che commise un delitto dandoti la vita? Vane
parole! sì, vana anche lei!

Vana: chè preferibile alla vita
era il nulla, l’esistenza
come quella dell’aria della luce della solitudine infinita
che non conosce alcuna sofferenza.

E la felicità? Ma chi è che dice
quel nome senza significazione?
chi è che può dire d’essere felice
quando la gioia non è che una mistificazione,

la maschera impastata di belletto
che copre la cancrena del dolore,
la puttana che si concede all’avversario sul suo letto
per poi piantargli mentre dorme il suo pugnale dentro il cuore?

Il bene poichè non è duraturo è un male,
il celo è troppo lungi e troppo vuoto,
noi siamo il niente nel reale
e l’ignoto nel noto.

E se pure il dolore è una sciocchezza
più non esiste unica verità
unica via di salvezza
che la morte col manto dell’eternità…
IN CAMPAGNA
Per le fessure della finestretta
s’inserisce una luce scialba scialba.
Il campanile di Saletta
è il primo a suonare l’alba.

Le faraone ed i galli
schiammazzano dentro il pollaio.
Nitriscon nella corte dei cavalli.
Il vento scuote l’uscio del granaio.

Le rondini non ànno ancor parlato
nei loro nidi sopra il forno…
Rabbrividiscono i pioppi del prato.
Chissà se sarà un bel giorno!

La scopa or su e giù per la scala
fruscia ed ora in cucina;
e, al pian terreno, il merlo nella sala
canta indomenicando la mattina.
LE LAGRIME
Lagrime, lagrime, o mie piangevoli sorelle,
perchè mai ve ne siete tutte andate
così improvvisamente come fan le rondinelle
quando arriva la fine dell’estate?

Lagrime, lagrime, e a che dunque mi valse
l’avervi tanto predilette se or siete lontane?
Anche voi eravate dunque false?
Anche voi eravate dunque vane?

O crudeli! Smarriste forse l’orma come le formiche
quando si segna con il dito il loro viaggio
ed esse tornan desolate per le strade antiche
col loro viatico senza tentar altro passaggio?

O vi esauriste a forza di versare giorno e notte
la vostra placida ed anodina pietà
come Danaidi per riempir la botte
senza fondo de la mia infelicità?

Lagrime, lagrime, e voi eravate
le gocce della cera del dolore che si consumava,
eravate le perle liquide sfilzate
dalla collana della vedova illusione che si rassegnava!

Ed ora che voi non ci siete chi è che bagna l’aridezza spaventevole
della polvere dei miei giorni ardente di rimpianto?
Oh! ditemi: dov’è quell’anima caritatevole
che mi vuol vendere un po’ del suo pianto?
VARIAZIONE IN SILENZIO MINORE
Il gelsomino dentro il variopinto vaso
à già sbocciato il suo bianco firmamento;
sul tavolo scolpito, il satiro d’argento
si stanca della ninfa che sorprese a caso.

La dentiera del piano coperto di raso
ride d’un riso giallo di pervertimento;
un quadro antico sembra che abbia un sentimento
d’innocenza che l’ombra vela del suo taso.

Nella mostra del pendolo una lancia scruta
il costato dell’ora, e n’esce del capecchio.
La noia dentro l’anima i suoi soldi conia.

Il silenzio sguinzaglia la sua destra muta,
e la lampada nella serra dello specchio
apre il suo cuore rosso, come una peonia.
AL REZZO DELLA SERA
Sul limitare dell’infaticabile mulino ad acqua
il mugnaio s’affaccia con la sua pancia stanca;
la ruota giuoca con la sua spuma bianca
che si direbbe una farina d’acqua.

Il cimitero fragra d’una grigia umidità
di ruggine e della soddisfazione delle rose dissetate dalla pioggia;
tra le zucche adipose, sopra il tetto della loggia
il comignolo fuma la monastica frugalità.

Per le lenticchie del canale gracchiano le povere ranelle.
Come un’erba immediata nella prateria cresce la caligine.
Il celo sembra preso di vertigine
dai circoli continui dei rondoni e delle rondinelle.

Nel cortile, le suore ridono guardando un majalino
che grufola – cruff, cruff – e che si voltola nel fango;
un capinero canta dentro l’orto che finisce ad angolo
a l’ombra dello scroscio del mulino.
UDENDO SUONARE DEI CECHI
Noi siamo i malinconici rimpianti,
le vite tronche, le speranze decadute,
gli ideali in esiglio, i sogni vani,
le carezze impossibili, gli amori infranti,
le illusioni che con dei passi incerti di sperdute
emigran tristemente verso lidi pallidi e lontani,
e verso ciò che non fu mai e che mai non sarà!

Noi siamo i poveri ideali morti,
i monotoni giorni scorsi senza scopo,
i ricordi che son caduti nell’oblio,
i sogni come navi erranti che non trovano più porti,
le cose terminate, i gesti languidi d’addio
sfogliati dietro il bene lusinghiero che partì!

Noi siamo le invisibili tristezze,
le perpetue crisalidi dei desideri,
i baci non donati, i pianti non versati,
le indifferenze, le rassegnatezze
che copron come lapidi di cimiteri
le rinunzie le gioie non pensate i beni non usati
e i sogni vergini che mai nessuno si sognò!

Noi siamo le implacabili illusioni,
la stanchezza di tutto quello che finisce...

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