Fenomeni curiosi
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Fenomeni curiosi

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Fenomeni curiosi

Informazioni su questo libro

Per quali ragioni ci si affaccia dalla finestra? Che fine hanno fatto i "tacchini danzanti" addestrati dall'ingegnere minerario Cašnik, nato a Tule nel 1854? Gli uccelli migrano solo per ragioni climatiche? Cosa spinge Alcide Pescherini, muratore di Ancona, a riempirsi di zolfo le tasche dei pantaloni? Sono alcuni dei temi indagati con cura da Paolo Albani (già autore per Quodlibet di "Dizionario degli istituti anomali nel mondo", 2009 e "I mattoidi italiani", 2012) in questo nuovo libro. Si tratta di una piccola enciclopedia di fatti curiosi, ordinati per parole chiave e alfabeticamente disposti, dalla "a" di "appuntamenti saltati" alla "z" di "zingarelli" (il vocabolario, di cui si consulta la voce "integrale"), passando per la "c" dove s'incontra il diffuso fenomeno del "convegnismo", la "e" di "espedienti per riempire il frigorifero", la "p" di "parlare da soli" e così via. Una "camera delle meraviglie" costruita con ironia e pietas, dove le azioni più comuni, se attentamente osservate, mostrano la loro stranezza e ambiguità, mentre i fatti più sconcertanti, portati sotto la lente del racconto, ci mostrano bonari la loro abbacinante ragionevolezza. Perché osservare e catalogare casi di anomalia e di devianza comportamentale rispetto al molto citato "pensiero omologante" è forse l'unico modo per capire, e mettere in scacco, la presunzione della nostra normalità.

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Informazioni

Fenomeni curiosi
Alla maniera di Bouvard e Pécuchet
Da sempre il cammino degli esseri umani è costellato di storie bizzarre e insolite, al limite del credibile, dello «strano ma vero» come recita una rubrica di un noto settimanale di passatempi. Storie che ci restituiscono un variegato campionario di personaggi anonimi e marginali, eccentrici, a volte patetici e involontariamente comici, ma che allo stesso tempo, proprio in virtù del loro grottesco vaneggiamento che un po’ ricorda i «fous littéraires» di Queneau o gli iconoclasti di Wilcock, hanno un che di autentico, di sanamente istruttivo che li riscatta e li rende simpaticamente amabili.
Per anni mi sono prodigato nella raccolta di fenomeni curiosi generosamente offerti dalla cronaca, fenomeni più o meno attendibili che mi hanno colpito per la loro inverosimiglianza e singolarità, per il loro collocarsi nel limbo delle eccezioni e dell’imprevedibile; da questo paziente accumulo, è nato un significativo, per quanto limitato, repertorio, una personale collezione di «fatti inquietanti», una specie di «Piccolo Gabinetto delle Curiosità», ordinato per parole-chiave, alfabeticamente disposte, in modo da simulare la forma di un dizionario o di un’enciclopedia: oggetti librari, come diceva Manganelli, fascinosi, seducenti e innamorativi.
L’ho fatto, questo lavoro da archivista, al solito con un piglio distaccato e divertito, mi viene da dire alla maniera di Bouvard e Pécuchet, convinto che l’osservare e il catalogare casi di anomalia e di devianza comportamentale rispetto al pensiero dominante, dilagante e omologante sia un ottimo viatico per comprendere meglio e al contempo mettere bonariamente alla berlina l’illusoria presunzione della nostra normalità.
A
affacciarsi alla finestra
Perché ci affacciamo alla finestra? Cos’è che ci spinge a guardare fuori da una finestra che si affaccia su una strada, un cortile, una piazza, la campagna aperta o in certi casi il mare? È un problema spinoso che mi sono posto tante volte senza però riuscire mai a darvi una risposta persuasiva, soddisfacente.
Mi rendo conto che, data la natura complessa, oltre che curiosa, del fenomeno (sbagliano di grosso coloro che pensano che l’«affacciarsi alla finestra» sia un evento banale, di routine e dunque perfettamente spiegabile), non è facile rispondere a una simile domanda perché implica una serie di connessioni, rimandi, intrecci fra elementi diversi e aspettative, a volte contraddittorie, che non sempre si è in grado di far interagire fra loro, di cogliere in tutte le loro molteplici sfumature. E si rifletta bene: qui stiamo trattando non del problema legato alla pura e semplice apertura di una finestra, gesto che di per sé potrebbe essere dettato da un elementare bisogno di aerazione del locale cui appartiene la finestra che viene dischiusa; non è il gesto meccanico, preso isolatamente a interessarci, bensì l’apertura della finestra cui fa séguito lo sguardo di colui che la apre sullo spazio che gli si offre davanti, è l’«affacciarsi» come mera esplorazione verso l’esterno, come indagine di ciò che appare oltre la finestra aperta, che ci preme sviscerare e comprendere.
Comunque sia cercherò un po’ alla meglio di formulare una risposta sulla base di una riflessione che ho fatto sull’argomento in questi ultimi giorni. In sintesi io credo che siano due i motivi di fondo per cui ci affacciamo alla finestra, uno di tipo pratico e l’altro di tipo esistenziale.
Il primo motivo, quello pratico, è legato a circostanze conoscitive: suonano alla porta e, stando al piano di uno stabile che si affaccia sul portone dove c’è la pulsantiera e non avendo il citofono (sono numerosi gli stabili che non lo hanno), uno si sporge dalla finestra per vedere chi è, prima di aprire la porta che è un’operazione, quando non esiste uno spioncino, non sempre raccomandabile di questi tempi; oppure si sente un gran rumore per strada, uno scoppio di gomma, un grido o uno sferragliare di lamiere o un suono ripetuto e fastidioso di clacson e allora ci si affaccia alla finestra per accertarsi dell’accaduto, per vedere chi è lo stronzo maleducato che suona a quel modo, o se ci sono dei feriti, se qualcuno si è fatto male in un ipotetico incidente e magari ha bisogno del nostro aiuto. Un altro motivo pratico può essere legato all’arrivo di una persona che stiamo aspettando con impazienza, il postino ad esempio o un amico, un idraulico o un elettricista che devono farci una riparazione: in questo caso ci affacciamo alla finestra per verificare che la persona attesa sia nei paraggi e non sbagli indirizzo; dalla finestra possiamo segnalargli il portone giusto, per non fargli perdere tempo. Naturalmente va tenuto conto che l’«affacciarsi alla finestra» sarà tanto più attuabile quanto più intervengono determinati fattori ambientali e fisici: voglio dire che l’apertura di una finestra dipende anche dalla stagione in cui suonano alla porta; d’inverno come s’intuisce facilmente la propensione a aprire una finestra sarà più contenuta, come pure sarà meno frequente e più problematica, in giorni particolarmente gelidi, quando si tratti di soggetti in età avanzata, più sensibili alle correnti d’aria fredda per paura di prendersi un malanno. Già da questa prima ricognizione si vede, a dispetto di coloro che sono portati a semplificare le cose, quanto ampio e articolato sia il raggio delle motivazioni, pratiche in questo caso, che ci spingono a mettere il naso fuori di una finestra, va da sé dopo che l’abbiamo regolarmente aperta.
Il secondo motivo, che abbiamo definito di tipo esistenziale, investe una dimensione psicologica, e perciò stesso incerta e suscettibile di interpretazioni discordanti, a seconda delle scuole di pensiero che si approcciano al problema. Se non è una molla che nasce da esigenze pratiche, come quelle descritte in precedenza, perché ci apprestiamo a aprire una finestra per osservare l’altrove che ci sta di fronte o sotto se abitiamo al primo piano di uno stabile o ancora più in alto? Che cos’è che ci porta a questo gesto in apparenza semplice che tuttavia può nascondere motivazioni inconsce e inconfessabili? In questo caso dobbiamo ricordare che l’osservatore che apre la finestra sa bene cosa lo aspetta davanti a sé, ovvero quello che vedrà oltre la finestra, e cioè la solita strada, il solito giardino, il solito caseggiato con i terrazzi tutti uguali, i soliti negozi, in breve il solito scenario: ciò che cambia ogni volta che l’osservatore si affaccia alla finestra saranno le persone e le macchine (se non è una strada chiusa al traffico) che transitano da lì nel preciso istante in cui l’azione di aprire una finestra si compie (se ci affacciamo nelle prime ore di un pomeriggio d’estate è probabile che ci saranno poche persone e poche macchine), ma la cornice sarà sempre la stessa, il panorama che la visuale della finestra spalancata mostrerà non cambierà per nulla, sarà in tutto e per tutto identico a quello che ci appare ogni giorno. Questa è una premessa importante, da non sottovalutare, se vogliamo cercare di capire il perché ci prendiamo la briga di aprire una finestra, quando non siamo spinti da ragioni pratiche, e ci affacciamo per guardare fuori.
Dopo aver riflettuto a lungo in questi giorni, sono arrivato alla conclusione che la stragrande maggioranza delle persone, salvo qualche rara eccezione (una signora, quando può, mangia la frutta appena lavata, specialmente l’uva, affacciandosi alla finestra per non sgocciolare sul pavimento; un tale guarda i tramonti di un rosso–viola dalla finestra di casa sua che dà sul mare; ecc.), la stragrande maggioranza delle persone, dicevo, sta affacciata alla finestra perché si annoia e non sa cosa fare, e ciò dipende dal fatto che le persone per lo più sono sole, ovvero, anche se convivono con qualcuno, è come se lo fossero, e si sentono sole nell’appartamento da cui spiano il mondo attraverso la finestra e ogni tanto nell’arco della giornata, per ingannare il tempo e vincere la solitudine, si affacciano a una finestra, in genere sempre la stessa (a volte c’è chi mette sul davanzale della finestra un cuscino per stare più comodo), sperando di vedere qualcosa di nuovo, un evento imprevisto, un fatto diverso dal solito come una persona che inciampa e cade per terra e si rompe il femore, uno scippo, un incidente automobilistico o, Dio lo volesse, un efferato omicidio, attesa che quasi sempre viene delusa perché, dalla finestra che hanno aperto e da cui si affacciano, quelle persone vedono più o meno sempre le stesse cose, tutti i giorni, salvo qualche trascurabile dettaglio. È triste doverlo constatare, ma purtroppo la realtà di coloro che, senza una finalità pratica, si affacciano alla finestra è questa, e lo dico, non soltanto sulla base della riflessione che ho fatto sul fenomeno, ma anche e soprattutto per esperienza personale.
aggiustamento delle perdite di tempo
In un piccolo appartamento sopra il Café Sabarsky nella Quinta Avenue di New York, dove ha il suo studio, il giovane e brillante psicologo Harold Smith, con una laurea anche in legge ottenuta a Harvard, si occupa professionalmente di una questione che negli ultimi anni ha assunto una rilevanza considerevole sul piano socio–economico e che va accentuandosi sempre più a causa della condizione di precarietà e di non lavoro in cui vivono milioni di persone al mondo, in questa fase storica di sviluppo bloccato.
Il problema che Smith affronta ogni giorno con la sua clientela è aggiustare le perdite di tempo. È questa la sua attività di consulenza, che Smith svolge in modo egregio sfruttando le sue qualità di psicologo e di avvocato.
Fra i suoi clienti Smith annovera i soggetti più disparati, uomini e donne di ogni età, cultura, religione e fascia di reddito che si rivolgono a lui afflitti dall’angosciante cruccio delle perdite di tempo, un problema sociale, come s’è detto, molto diffuso e sentito in specie nei paesi ricchi, ma che sta prendendo campo con modalità inquietanti anche in quelli meno sviluppati o poverissimi.
Si perde tempo in tanti modi, ha detto di recente Smith in un’intervista rilasciata a un settimanale finanziario statunitense. In genere si comincia con delle sciocchezze, dei trastulli, dei passatempi innocui, a cui lì per lì non si dà alcun peso e di cui si è portati a sottovalutare la rischiosità, come ad esempio restarsene una mezza giornata a guardare il passaggio dei treni da un cavalcavia o le anatre che si rincorrono nel laghetto di un parco o contare e ricontare per ore e ore le mattonelle del pavimento di una sala d’aspetto o leggere attentamente tutti i necrologi di un quotidiano senza saltarne nemmeno uno o intrattenersi a lungo in chiacchiere di poco conto con il primo sconosciuto incontrato alla fermata dell’autobus, o altre cose simili, apparentemente banali, ma che già prefigurano una latente e rovinosa propensione alla perdita di tempo.
Poi, a forza di accumulare perdite di tempo una dietro l’altra, ci si prende l’abitudine, diventa un fatto normale, per quanto avvilente, perché piano piano si arriva a perdere tempo di continuo, sfruttando ogni piccola occasione, magari senza rendersene conto, inconsciamente, in uno stillicidio di perdite di tempo che alla fine, sommate assieme, si raggrumano in un deleterio senso di vuoto di cui finiamo per lamentarci e che è alla base, afferma Smith, di «una crescita esponenziale del grado di insofferenza e smarrimento che investe gran parte della popolazione, non solo adulta».
Il più delle volte poi – e questo forse è uno degli aspetti più interessanti del problema – le perdite di tempo sono legate al linguaggio, ovvero all’uso improprio, distorto, superficiale che facciamo delle parole. Al riguardo, per sensibilizzare i propri clienti sui pericoli insiti nelle perdite di tempo che sono la spia di un modo di agire compulsivo, Smith cita spesso una teoria il cui autore è sconosciuto, tanto che viene da pensare sia stata inventata dallo stesso Smith che in ogni caso la spaccia come il risultato di una seria ricerca antropologica commissionata da «una famosa università statunitense» (di cui tuttavia Smith si guarda bene dal riferire il nome).
Le perdite di tempo, sostiene in pratica questa teoria, sono inferiori nelle comunità primitive (ad esempio in alcune tribù del centro Africa o dell’Asia meridionale) nelle quali non solo il linguaggio è più semplice, con poche regole grammaticali e una bassa percentuale di termini ambigui, ma si parla di meno in assoluto, e ci si avvale prevalentemente del linguaggio dei gesti, ovvero del corpo, delle mani, dell’espressione del volto, e si fanno lunghe pause di riflessione, lunghi e meditati silenzi fra un discorso e l’altro.
La citazione di questa teoria, che forse nessuno ha mai elaborato davvero, è in realtà solo un pretesto che offre al giovane e brillante psicologo Harold Smith l’opportunità per ribadire un concetto importante sul piano della comunicazione verbale, e cioè che uno dei rimedi più efficaci per aggiustare le perdite di tempo, comunque si manifestino, è quello di parlare poco, di non sprecare il fiato inutilmente, ovvero di limitarsi all’essenziale nello scambio di informazioni, al minimo strettamente necessario.
È questo il pensiero di Harold Sm...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Il libro
  3. L'autore
  4. Collana
  5. Frontespizio
  6. Colophon
  7. Fenomeni curiosi
  8. Note azzurre