V. Governare la rivoluzione: la fondazione introvabile
L’operazione è stata condotta a termine. I due Comitati possono presentarsi in veste di trionfatori sui corpi dell’esagerazione e dell’indulgenza. Ma a quale costo dal punto di vista della loro credibilità politica, variabile questa imponderabile, benché decisiva, dell’esercizio del potere? Se il momento in corso è certo il meno adatto per esprimerlo, il dubbio si è però insinuato nello spirito della loro base, e forse in quello dei più lucidi dei loro membri. Come altrimenti leggere, infatti, questi enigmatici appunti che Saint-Just deve aver scritto poco dopo: «Ho attaccato uomini che nessuno avrebbe osato attaccare, tutto concorreva a rendere criminale colui che avesse osato farlo, io solo ho dovuto compilare questo pericoloso messaggio. Tocca al più giovane morire e dimostrare il suo coraggio e la sua virtù»? Vi è un che di straziante nell’incertezza che percorre questa autogiustificazione. Stavolta il Comitato di salute pubblica e, in misura minore, il Comitato di sicurezza generale il potere lo detengono interamente, al riparo dalla pressione dei sanculotti e senza le reticenze di una buona parte della Convenzione, quella montagnarda. Ma anche, allo stesso tempo, senza il resto di legittimazione che malgrado tutto proveniva dall’appoggio seppur debole del movimento popolare, e con un sostegno molto ridotto, in realtà, all’interno della Convenzione, dietro l’unanimità di facciata dei suoi voti. Un potere solitario che governa ormai solo una «Rivoluzione raggelata», come scrive Saint-Just poco più avanti. Un potere, per questo, assediato dalla questione della sua stessa finalità: il potere, per fare cosa? Perché è ormai solo in questa prospettiva che esso può fondare la propria ragion d’essere. C’è da condurre la guerra, senza dubbio; c’è «la lega dei tiranni congiurati contro la Francia» da combattere, senz’altro, come Robespierre non manca mai di ribadire. Ma all’interno? La duplice eliminazione delle fazioni non ha senso che in funzione della promessa di pacificazione di cui è portatrice. La pagina delle lotte intestine è stata voltata, «abbiamo opposto il gladio al gladio, e la libertà è fondata», come dirà lo stesso Saint-Just.
Di questo imperativo di stabilizzazione politica come unica maniera di giustificare a posteriori la liquidazione di quei fantasmagorici cospiratori i membri dei Comitati sono ben coscienti. Alla vigilia degli arresti dei dantoniani, e certamente non per caso, Barrère annuncia alla Convenzione che il Comitato di salute pubblica si sta occupando di un «vasto piano di rigenerazione il cui risultato sarà bandire dalla Repubblica a un tempo stesso l’immoralità e i pregiudizi, la superstizione e l’ateismo». Perché, continua, «bisogna a qualunque prezzo fondare la Repubblica sui princìpi e sui costumi». È il programma che delineerà un mese dopo il grande rapporto di Robespierre sulle «idee religiose e morali» del 7 maggio (18 fiorile). Forse l’origine di quel testo a cui attribuiva tanto valore, mentre diversi dei suoi colleghi ne respingevano con forza l’ispirazione, è nel prezzo della sua adesione all’eliminazione di Danton, riguardo alla quale sembra essere stato prigioniero della propria linea di equilibrio tra le due fazioni, più che elemento motore. Ma nell’immediato, è Saint-Just che fornisce la traduzione più direttamente operativa di questo bisogno di delineare una politica stabilizzatrice, col suo Rapport sur la police générale, sur la justice, le commerce, la législation et les crimes des factions (Rapporto sulla polizia generale, sulla giustizia, il commercio, la legislazione e i crimini delle fazioni), del 15 aprile (26 germinale).
È opportuno citarne il titolo completo, per cogliere immediatamente la misura della sua ambizione. Vi si definisce un programma per rimettere in ordine il paese sotto la guida di un governo che finalmente sia in grado di rispondere pienamente agli auspici del popolo. «Non basta, cittadini, aver distrutto le fazioni, bisogna ancora riparare il male che esse han fatto alla patria. Poiché volevano risollevare la monarchia, avevano bisogno di far odiare la Repubblica e di rendere i cittadini molto sventurati per prepararli al cambiamento». Le fazioni non hanno scuse! La spiegazione è breve, ma interessante, perché ci fa entrare all’interno della coscienza che gli attori potevano avere della situazione della Francia rivoluzionaria, e Saint-Just, lo si è già detto, si distingue senza dubbio a tale riguardo per il realismo con cui coglie le situazioni – un realismo che contrasta così bizzarramente con l’elevata vaghezza delle sue formule. Il suo rapporto lo testimonia; costituisce a suo modo un documento sulla situazione del paese in quei terribili primi mesi del 1794 e sui «mali della patria» a cui il potere deve porre rimedio. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio il quadro. Si tratta qui semplicemente di cogliere la percezione che uno dei membri più lucidi del Comitato di salute pubblica (e l’unico probabilmente influente su Robespierre) aveva del compito che gli si prospettava davanti, per comprendere la sua politica.
La diagnosi di Saint-Just può riassumersi in quello che egli definisce «il federalismo civico». Lo imputa, naturalmente, al «federalismo» tout court, quello della fazione brissottina, ma ne estende suggestivamente la descrizione all’insieme dei rapporti sociali. I suoi «crimini», dice, non si sono limitati alla sfera politica; hanno avuto l’effetto di distruggere «il cambio, il commercio, la fiducia, le relazioni». «Il federalismo non consiste soltanto in un governo diviso, ma in un popolo diviso». Consiste nell’isolamento delle parti della società, sotto l’effetto della diffidenza, che è arrivata al punto di coinvolgere le relazioni familiari: «Da qualche tempo sono stati pochi i matrimoni alla lontana; ogni casa era per così dire una società a parte». Il compito fondamentale del governo rivoluzionario, in questa situazione, è ripristinare l’unità che deve regnare fra «tutti gli interessi e tutti i rapporti dei cittadini». «Bisogna che costituiate una città, vale a dire dei cittadini che siano amici, ospitali e fratelli; bisogna che ristabiliate la fiducia civile».
In questo programma, Saint-Just attribuisce un ruolo particolare al controllo delle autorità e degli agenti del governo. Non è una preoccupazione nuova per lui, in quanto la si trova già al centro del Rapport sur le gouvernement che aveva presentato alla Convenzione nell’ottobre del 1793, sotto l’egida di una forte massima: «Le leggi sono rivoluzionarie, quelli che le eseguono no». Nel frattempo, c’è stato il terrore anarchico, col suo carico di conseguenze disorganizzatrici. La descrizione è priva di condiscendenza: gli arbitrî di una «polizia di sbirri», la rilassatezza della giustizia ordinaria di fronte al crimine, le amministrazioni popolate da «creature dell’intrigo», i funzionari indifferenti o disonesti. In breve, «è venuto il momento di trarre dal sonno tutti i depositari dell’autorità pubblica». L’esordio del discorso è un vigoroso appello a riprendere in mano la situazione: «Date la legge a tutti i poteri», poiché lo scopo della legge è «assoggettare gli uomini ai doveri e ad altri obblighi dai quali la libertà non dispensa».
Se fa appello in tal modo all’energia dei membri della Convenzione e al loro ideale dell’«uomo rivoluzionario», di cui traccia un suggestivo ritratto, non per questo Saint-Just fa balenare davanti ai loro occhi prospettive affascinanti. Queste misure permetteranno di «salvare la patria», ma «non vi aspettate altra ricompensa che l’immortalità. So che coloro i quali hanno voluto il bene sono spesso morti». A parte la retorica dell’eroismo, di cui Saint-Just è il rappresentante per eccellenza, vale la pena di prendere sul serio questa invocazione della morte sacrificale che abbiamo già incontrato in lui in una versione intima. È un orizzonte onnipresente nella coscienza degli attori, in questo momento parossistico. È una componente della loro condotta di fronte all’abisso di un compito smisurato, fuori dalla quale è difficile comprenderla.
Del decreto che fa seguito al Rapport si cita soprattutto, in genere, l’articolo I, relativo all’accentramento del terrore: «Gli imputati di cospirazione saranno tradotti da tutti i punti della Repubblica al Tribunale rivoluzionario a Parigi». Ci ritorneremo, poiché è uno dei fili conduttori che conducono direttamente al 9 Termidoro. Ma l’ambito del decreto è molto più ampio. Riguarda anche l’abbreviazione delle procedure amministrative, la sorveglianza sui funzionari, la sicurezza degli approvvigionamenti e il riordinamento del codice legislativo, senza dimenticare la redazione di un «corpo d’istituzioni civili adatte a conservare i costumi e lo spirito di libertà». È un programma mirante a far sì che il Comitato di salute pubblica riprenda le redini del potere, per riallacciare i contatti con un popolo del quale fra le righe si coglie, a contrario, l’allontanamento dalle autorità rivoluzionarie. La centralizzazione della repressione ne è appunto un elemento prioritario. La questione dei «patrioti oppressi», vale a dire degli arresti arbitrari attuati in virtù della legge dei «sospetti», aveva fatto il suo percorso dopo che era stata sollevata dagli Indulgenti nell’autunno del 1793. Una volta schiacciata quella fazione, si tratta però di rispondere alla protesta che ne accreditava la causa. L’eco moltiplicata della strumentalizzazione del terrore al servizio delle lotte locali e delle gesta di certi rappresentanti in missione ha finito per imporre l’urgenza di uno stretto controllo delle motivazioni delle condanne. A questo riguardo si suppone che il Tribunale rivoluzionario parigino offra migliori garanzie. Perlomeno è in buona misura sotto la sorveglianza del Comitato di salute pubblica. Saint-Just è talmente convinto dell’importanza nevralgica del tema che sullo slancio ottiene la creazione di un Ufficio di polizia generale del quale si prende carico lui stesso, testimoniando in tal modo, allo stesso tempo, la sua scarsa fiducia nel Comitato di sicurezza generale (i cui componenti non se lo dimenticheranno) e il carattere urgente che aveva ai suoi occhi l’epurazione di un apparato amministrativo incancrenito dalla corruzione. Nel corso della sua missione presso l’Armata del Nord, dal 3 maggio (14 fiorile) al 29 giugno (11 messidoro), è Robespierre ad avere la responsabilità dell’Ufficio: sarà l’unico incarico di gestione amministrativa che eserciterà nel corso della sua carriera politica, e anche l’unico momento in cui si scontrerà con le difficoltà pratiche di attuazione della politica che sosteneva.
1. La virtù all’ordine del giorno.
Il rapporto di Robespierre sulle idee religiose e morali del 7 maggio (18 fiorile) s’inserisce esattamente nella medesima vena di quello di Saint-Just. Ne costituisce il complemento, e precisa uno degli aspetti del programma da questi definito, cioè la proposta di un «corpo d’istituzioni civili adatto a conservare i costumi e lo spirito di libertà». Un tema sul quale Saint-Just proseguì la riflessione per proprio conto e la cui traccia ci è giunta sotto forma di un testo incompiuto e frammentario, le sue Institutions républicaines. Uno dei suoi appunti ne traduce bene l’intento: «Il terrore può sbarazzarci della monarchia e dell’aristocrazia; ma cosa ci libererà dalla corruzione? Delle istituzioni? Non se ne dubita: si crede di aver fatto tutto, quando si ha un meccanismo di governo…». Il soggetto che non dubita e che pensa di potersi fidare della meccanica governativa è forse una delle chiavi del 9 Termidoro. Probabilmente designa in primo luogo i suoi colleghi dei Comitati, poco convinti di questo orientamento. Indica la linea divisoria che isolerà Robespierre e Saint-Just, col loro amico Couthon (il «triumvirato»), dal resto del gruppo dirigente. I loro due testi devono essere letti in parallelo. Sono il frutto di due sensibilità un po’ diverse – detto sommariamente, Robespierre si affida alle «idee», mentre Saint-Just, più «sociologo» ante litteram, ai costumi, alle idee incorporate in modi di vivere consueti –, ma sono mossi da una convinzione comune e rispondono a un medesimo interrogativo. La Repubblica è stata decretata, ma non è fondata. Galleggia nel vuoto, priva dell’ancoraggio nelle condotte spontanee dei cittadini, senza il quale un regime così esigente non può vivere a lungo. Come colmare questo vuoto? Come rendere immediata e familiare l’identificazione del cittadino col bene della patria che lo distoglierà dall’egoismo e instaurerà il regno della virtù?
Lo stesso titolo del rapporto di Robespierre lo indica: i principî repubblicani hanno bisogno del concorso delle «idee religiose e morali». Non bastano a se stessi. La virtù ha un bell’essere naturale per il popolo: ancora al suo esercizio effettivo manca il sostegno delle credenze comuni sancite dalla riconoscenza pubblica e mantenute da una pratica rituale e di culto. Bisogna inoltre cogliere, nella proposta di Robespierre, l’effetto dell’opera del dubbio sulla presunta attitudine istintiva del popolo alla probità e alla giustizia. La sua invocazione, così pregnante nelle vibranti arringhe iniziali dell’oppositore, diventa rara in questo ultimo sforzo dell’uomo di governo per conferire solide basi alla sovranità del popolo. Un posto importante vi è dedicato, invece, all’anamnesi della corruzione dello spirito pubblico, che ha fatto dell’esperienza rivoluzionaria una lotta tanto violenta e tanto ricorrente fra il vizio e la virtù. La battaglia contro le fazioni, ripercorsa con termini che non sorprendono, che non è stata un accanimento particolare contro Danton (definito «il più pericoloso dei nemici della patria, se non fosse stato il più vigliacco»), ne ha costituito solo l’ultimo episodio. Al di là di essa, bisogna risalire alle origini intellettuali della Rivoluzione, che Robespierre colloca nella «setta degli enciclopedisti»: «Chiunque ignorasse la sua influenza e la sua politica non avrebbe un’idea completa della prefazione alla nostra Rivoluzione». Tutto il male viene da lì. Infatti quella setta, in politica, «è restata sempre al di sotto dei diritti del popolo», mentre in campo morale «ha propagato con molto zelo l’opinione del materialismo», cioè il «sistema dell’egoismo».
Non bisogna neppure stupirsi del fatto che i suoi eredi, i quali considerano la Costituzione inglese come il «capolavoro della politica e il massimo della felicità sociale», si siano ritrovati nella Rivoluzione a fianco della fazione di Orléans, fonte di tutte le fazioni, e non abbiano fatto altro che «adulterare i principî repubblicani e corrompere l’opinione pubblica». «In questa Rivoluzione gli uomini di lettere in generale si sono disonorati», afferma Robespierre. E a tale riguardo risalta ancor più l’eccezione costituita da Rousseau, l’unico che, «con l’elevatezza del suo animo e la grandezza del suo carattere, si mostrò degno del ministero di precettore del genere umano», attirandosi «l’odio e la persecuzione dei suoi rivali». Lui solo seppe dipingere «con tratti infervorati il fascino della virtù» e difendere «quei dogmi consolatori che la ragione fornisce in sostegno al cuore umano». Non c’è da dubitare che «se fosse stato testimone di questa Rivoluzione di cui fu il precursore […] avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e dell’uguaglianza». È in conformità con la sua ispirazione che «il buon senso senza intrigo e il genio senza istruzione» che caratterizzano la «ragione del popolo» sono arrivati a trionfare. Ciò non impedisce che l’influente fascino di questi «sofisti intriganti che usurpavano il nome di filosofi» abbia contaminato in profondità il movimento rivoluzionario: prova ne sono i maneggi delle fazioni, i quali incoraggiano «tutto ciò che tende a giustificare l’egoismo, a inaridire il cuore e a cancellare l’idea di questa bella morale». La lotta virtuosa contro le fazioni non può concludersi, in queste condizioni, che con la solenne adozione di una filosofia contraria e l’istituzione di un culto che possa controbilanciare e soffocare a poco a poco questi germi di dissoluzione.
L’opera del dubbio non tocca soltanto la moralità del popolo. La si avverte, fin dal momento in cui il rapporto entra nel merito della questione, in un indirizzo scongiuratorio rivolto ai membri della Convenzione, che tradisce una vertiginosa inquietudine riguardo al compimento dell’opera rivoluzionaria, almeno come la concepisce Robespierre. I segni dell’attuale corruzione non si congiungono forse alla testimonianza della storia nel mostrare l’impossibilità del regno della libertà e della virtù fra gli uomini, che a parte qualche rara e breve eccezione, è riservata all’antichità? È contro questa sensazione di essere giunti a un’impasse che Robespierre parla e scrive. La virtù non può essere solo un «fantasma». «Fondatori della Repubblica francese, guardatevi dal disperare dell’umanità, o dal dubitare un solo momento del successo della vostra grande impresa!». È nella storia, appunto, che Robespierre cerca gli argomenti a sostegno di questa fiducia da preservare o da ritrovare, la storia intesa non nel senso classico di repertorio di fatti ed esempi del passato, bensì in quello moderno di potenza creatrice, di sviluppo del mondo umano nel tempo: «Il mondo è cambiato, deve cambiare ancora». Il cammino percorso in confronto al passato autorizza a sperare in trasformazioni future ancor più rilevanti, e soprattutto più vaste. Poiché «se tutto è cambiato nell’ordine fisico», tutto resta da cambiare «nell’ordine morale e politico». Solo «metà della rivoluzione del mondo» è stata realizzata; l’altra è ancora da compiere. «I popoli dell’Europa hanno fatto progressi stupefacenti in quelle che si chiamano le arti e le scienze, e sembrano ignoranti nelle prime nozioni della morale pubblica. Conoscono tutto, a parte i loro diritti e i loro doveri». La direzione del divenire è quindi chiara: va verso un progresso politico equivalente a quello che si è prodotto nella conoscenza e nel dominio della natura.
È proprio alla riduzione di questo scarto fra le due sfere che la Rivoluzione francese ha dato l’impulso. È per questo che «il popolo francese sembra aver anticipato di duemila anni il resto della specie umana; si sarebbe perfino tentati di considerarlo, in essa, come una specie diversa». L’impresa, quindi, ha tutto per riuscire. «Sì, potete mostrare al mondo lo spettacolo nuovo della democrazia consolidata in un vasto impero». Non si tratta che di rafforzarne le basi.
È a questo punto che nel pensiero di Robespierre emerge la contraddizione. Poiché questo progresso della ragione nell’ordine politico al quale si affida è per lui concepibile solo sotto la forma del ritorno a un ordine naturale che esclude l’idea stessa di un progresso. Non è una contraddizione riferibile soltanto a lui, ma quella di tutto lo spirito della Rivoluzione, combattuta fra l’eredità del diritto naturale e le nuove prospettive di una storia aperta sull’avvenire, divisa fra la ricerca di una fondazione intangibile in termini razionali e l’orizzonte di una progressiva affermazione della ragione. In Robespierre questa contraddizione diffusa assume semplicemente una piega manifesta e acuta, a causa della sua esigente visione di una Repubblica la quale non può basarsi che sulla virtù mediante cui ogni cittadino fa proprio l’interesse pubblico, s’identifica con la patria e «mescola la propria felicità alla felicità di tutti». Una prospettiva che, nel clima deleterio della Francia della primavera del 1794, acquista un’attualità scottante. La forza interiore che permette di preferire la cosa comune al proprio bene personale è la morale, e in questo senso la scienza della politica e della legislazione si riduce «a introdurre nelle leggi e nell’amministrazione le verità morali relegate nei libri dei filosofi».
Ed è nelle idee religiose che tali verità morali trovano la loro garanzia più sicura. «Il capolavoro della società consisterebbe nel creare [nell’uomo] un rapido istinto che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse a fare il bene e ad evitare il male […]. Ebbene, ciò che produce o sostituisce questo istinto prezioso, quel che supplisce all’insufficienza dell’autorità umana è il sentimento religioso, che infonde negli animi l’idea di una sanzione conferita ai principî morali da un potere superiore all’uomo». È quindi indispensabile mantenere il senso del «sacro vincolo» che unisce gli uomini all’«autore del loro essere», epurando l’antica religione dalle sue credenze superstiziose e allontanandone l’impostura dei preti, per non conservarne che il nucleo fondamentale. Non compete al legislatore scendere sul terreno metafisico o teologico. L’unico criterio che esso deve adottare è l’utilità pratica. «L’idea dell’Essere supremo e dell’immortalità dell’anima è un costante richiamo alla giustizia; essa è dunque sociale e repubblicana». Bisogna essere consapevoli che al momento non esistono modi per farne a meno: «Colui che può sostituire la divinità nel sistema della vita sociale è ai miei occhi un genio prodigioso».
Solo che questa riappropriazione utilitaristica della divinità da parte della Repubblica della virtù comporta pesanti conseguenze per la sua stessa concezione. Va di pari passo con la riproposizione dell’immagine di un corpo politico unito nell’intangibilità del suo accordo con la propria legge fondatrice e in grado, per ciò stesso, di accordare ognuno dei suoi membri con se stesso e con i suoi concittadini nella comune dedizione alla cosa pubblica. Immagine nella quale non è difficile riconoscere la metamorfosi moderna dell’antico ideale dell’unità religiosa, grazie all’idea della natura, che mette il tema dell’origine e dell’eterno alla portata della ragione. Ed è un’immagine poco compatibile con l’indipendenza dei partiti, con la forza di rottura delle invenzioni, con la dinamica del lavoro che implica l’apertura verso un avvenire indeterminato.
La prospettiva appare ancor più netta in Saint-Just. L’insieme di «istituzioni eterne e impassibili» in cui egli sogna di racchiudere l’esistenza collettiva al fine di «porre l’unione nelle famiglie, l’amicizia fra i cittadini, l’interesse pubblico al posto di tutti gli altri interessi» si riconnette tipicamente a questa rilettura dell’Uno sacro alla luce della libera ragione. Ma questa specie di Arcadia repubblicana che egli prospetta, immobilizzata nella sua severa armonia e nella sua frugale felicità, mal si concilia col ritmo di un’economia moderna, di cui ha d’altronde una precognizione acuta. Egli è allo stesso tempo più «antico» e più «moderno» di Robespierre, più radicale nella sua visione di una Repubblica ordinata, basata su leggi capaci di «sostituire l’ascendente dei costumi all’ascendente degli uomini» e più sensibile alla novità delle condizioni concrete nelle quali deve stabilirsi questo meccanismo sociale. Ma entrambi sono analogamente lacerati tra una filosofia del nuovo, la certezza del progresso, la coscienza del cammino delle società e un ideale che ha le sue radici nel passato religioso.
È questo, senza dubbio, che li porta a rifarsi all’esempio delle repubbliche antiche, in un momento in cui s’impone loro la questione della fondazione, mentre fino a quel punto era stata piuttosto l’affermazione del progresso dei Lumi a ispirarne il discorso e l’azione. Ma di fronte all’avversità che devono affro...