II. La democrazia totalitaria nel liberalismo della guerra fredda
1. Le due democrazie.
Uno studio dedicato al concetto di democrazia totalitaria non può prescindere dall’affrontare l’opera e il pensiero di altri importanti esponenti del pensiero liberale del dopoguerra, e specialmente di Isaiah Berlin. E questo, non solo perché Berlin è pressoché unanimemente considerato uno dei grandi maestri della storia delle idee nel Novecento, ma anche a causa dell’estrema vicinanza e comunanza di visione che caratterizzano il suo pensiero rispetto a quella di Jacob Talmon. Una vicinanza esemplificata innanzitutto da affinità metodologiche: a scorrere le pagine dell’opera di Berlin, in particolare quelle dedicate allo studio di Marx e del marxismo, ci si confronta con un modo di concepire l’analisi intellettuale molto simile a quello di Talmon. Un modo che, a una certa semplicità di esposizione, che a volte comporta un efficace schematismo intellettuale, unisce una lucida capacità di penetrazione dei problemi, coglie e restituisce il senso profondo di certe esperienze concettuali e storiche fondamentali negli ultimi tre secoli.
Tra Talmon e Berlin c’è poi una vicinanza dovuta anche ai loro percorsi di vita. Entrambi, come del resto la loro quasi coetanea Hannah Arendt, si trovarono a vivere la realtà dell’apolidìa, un fenomeno centrale per comprendere gli equilibri politici e storici soprattutto della prima parte del Novecento. Una condizione dalla quale uscirono, sì, in qualche modo indenni, ma sempre, e comunque, segnati nella loro formazione intellettuale. Ma anche, fattore decisamente importante, l’ebraismo, il rapporto, sempre più o meno diretto, altalenante ma, va detto, improntato alla coerenza con se stessi, con il sionismo, con lo Stato di Israele, e l’ebraismo, che fornì loro una lente particolare attraverso cui osservare la modernità e le democrazia liberali. Berlin finì per diventare una vera celebrità in Inghilterra, la sua patria di adozione, ma, in giovane età, era dovuto fuggire con la famiglia dalla Lettonia, in seguito alla Rivoluzione bolscevica. Talmon si trasferì in Israele e divenne un importante e stimato professore di Storia all’Università di Gerusalemme. Quanto a Hannah Arendt, è noto il suo rapporto non sempre facile con il sionismo europeo e d’oltreoceano, che le permise di mantenere sempre una grande autonomia intellettuale quando si parlava dello Stato d’Israele.
Come abbiamo già avuto modo di specificare nel primo capitolo, è nel contesto del liberalismo della guerra fredda che si sviluppa la riflessione sulla democrazia totalitaria e, in tal senso, è importante in questa prima parte del secondo capitolo insistere sulla centralità del pensiero di Karl Popper per gli intellettuali del primo dopoguerra e sui motivi che rendono la sua opera The Open Society and Its Enemies1 un testo fondamentale per la riflessione sulla democrazia totalitaria. Nell’appendice finale al libro del 1952, Talmon arriva a sostenere che Popper già si fosse occupato della distinzione tra democrazia totalitaria e democrazia liberale: e lo avesse fatto, individuandone gli aspetti filosofici, sia pure trascurandone gli aspetti storici e psicologici2.
In questa prima parte del secondo capitolo, cercheremo dunque di occuparci in maniera più dettagliata dell’influenza che Popper ha esercitato sui liberali del dopoguerra, analizzando due temi che costituiscono l’oggetto centrale della critica popperiana ai totalitarismi e che influenzano in maniera decisiva anche il pensiero dell’autore di cui ci occuperemo più distesamente nella seconda parte del capitolo, Isaiah Berlin. Questi due temi sono la problematicità del concetto di democrazia (che ci permetterà di ricostruire per sommi capi la teoria democratica popperiana) e la teoria dei paradigmi come chiave di lettura del totalitarismo. Riguardo al primo punto – il tema della teoria democratica, che è anche il punto centrale nell’analisi della nozione di democrazia totalitaria – ci occuperemo in particolare del rapporto tra liberalismo e democrazia nonché tra libertà individuale e sovranità popolare che si delinea nella riflessione di Popper ed è, sotto molti punti di vista, accomunabile a quella di Berlin. Questi, che nel 1946 è tornato in Inghilterra dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, è investito dall’ondata antimarxista dilagante in quel periodo tra molti intellettuali occidentali e legge e apprezza l’opera di Popper rimanendone profondamente colpito3. Berlin si mostra un attento studioso delle opere popperiane anche per quanto riguarda la logica dei paradigmi adottata da Popper nella contrapposizione tra società aperte e società chiuse. L’empirismo e il giudizio critico che sono di per se stessi, secondo Popper e molti liberali della guerra fredda, il fulcro di una visione pluralista della convivenza civile e dunque alleati della libertà, hanno come opposto il monismo epistemologico, cioè l’idea che esista una sola verità con più diritti di tutte le altre, che finisce per essere imposta dalla politica come paradigma di convivenza civile dominante. In casi come questi, si può dire, tenendo conto del contesto in cui si sviluppa tale antitesi, cioè tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, che siamo di fronte a una vera e propria trasposizione sul piano intellettuale della divisione in blocchi.
L’aspetto interessante di questa trasposizione è che, come sul piano storico, l’antitesi tra i due blocchi veniva spesso percepita con una semplificazione quasi da slogan come l’opposizione tra libertà e eguaglianza, seppure di un’interpretazione ipertrofica dell’eguaglianza, sul piano intellettuale questa contrapposizione tendeva a riproporsi in maniera più elaborata. E la tesi di questo lavoro è che si proponesse, sia nel pensiero di Berlin che, con sfumature diverse, in quello di Hannah Arendt, anche attraverso un’attenta riflessione sulle complesse articolazioni storiche e teoriche del concetto di democrazia. Certo, parlare di democrazia totalitaria in Berlin, Popper o von Hayek vuol dire costruire di fatto un’ipotesi metodologica molto utile e rilevante ai fini di una ricerca pratica sulla loro visione dei concetti di sovranità popolare e liberalismo, ma presenta degli elementi di forzatura intellettualistica che vanno riconosciuti come tali. Molti di questi autori non usano il termine in questione, se non isolatamente, e, a differenza di Talmon, non portano avanti una riflessione sistematica sull’argomento dedicandovi monografie o studi specifici. In ognuno di questi pensatori, tuttavia, si ripropone in maniera differente la prospettiva talmoniana di una democrazia alternativa a quella liberale, le cui caratteristiche costituiscono lo spunto per strutturare una definizione di democrazia liberale più consapevole dei propri limiti e della propria forza. Dunque la democrazia totalitaria è essenzialmente un paradigma idealtipico e storiografico utilissimo per inquadrare la riflessione dei Cold War Liberals su concetti chiave come socialismo, liberalismo e democrazia nell’immediato dopoguerra: ed è in questo senso che va usata anche a proposito di Popper, Hayek e, soprattutto, di Berlin. Questi autori, seppure con percorsi differenti, non si accontentano di rivendicare la giustezza di un astratto concetto di democrazia, che di per sé non è affatto una garanzia per la difesa delle libertà individuali. Essi propongono un’interpretazione dualistica della tradizione democratica, sviluppando l’antitesi tra una forma di democrazia «aperta», pluralista e rispettosa dell’individuo e una forma di democrazia (solo in parte riconducibile alle origini greche di questo regime) «etica», monistica e dunque totalitaria4.
Può essere utile, per meglio inquadrare questa distinzione concettuale, richiamare il modo in cui un grande studioso del pensiero politico come Norberto Bobbio imposta la questione in un suo fondamentale testo sull’argomento, pubblicato nel 1985 e intitolato Liberalismo e democrazia5. Bobbio si occupa del tema della democrazia anche in un altro libro piuttosto famoso pubblicato nel 1984: Il futuro della democrazia, in cui enuncia la sua celebre concezione di democrazia come «metodo». Tuttavia, è nell’opera del 1985 che egli tratta più specificamente del rapporto problematico tra democrazia e liberalismo e della relazione stretta che lega una certa interpretazione dell’ideale democratico alla tradizione socialista.
In Il futuro della democrazia Bobbio propende per una definizione procedurale della democrazia come metodo utile per arrivare a prendere decisioni riguardanti il bene pubblico e cita tre condizioni che considera imprescindibili in una democrazia: 1) alle decisioni collettive partecipa un gran numero di cittadini in modo diretto o indiretto; 2) sono vigenti regole precise per decidere, a cominciare dalla regola di maggioranza; 3) i cittadini hanno la possibilità di scegliere tra alternative reali e dispongono di quelle libertà necessarie per valutare queste alternative e propendere per una piuttosto che per l’altra. Secondo Bobbio, una vera e propria democrazia è tale solo se preserva le libertà individuali dei cittadini che la compongono o, per dirla in altri termini, se la libertà come autonomia, che esercitiamo nello scegliere chi ci governa, presuppone la libertà come non-impedimento, cioè la possibilità di esercitare liberamente la nostra capacità di scelta6.
Nell’opera pubblicata nel 1985 però il quadro si complica. Bobbio, pur tenendo ferma la sua fede nella democrazia liberale e criticando la nozione di democrazia totalitaria come modello interpretativo del pensiero di Rousseau, concede che «l’esistenza attuale di regimi che vengono chiamati liberal-democratici o di democrazia liberale induce a credere che liberalismo e democrazia siano interdipendenti», ma aggiunge anche che il problema dei loro rapporti è «molto complesso, e tutt’altro che lineare»7. A tal punto si mostra convinto di ciò da procedere a una disamina accurata di un concetto di democrazia che è diverso da quello del liberal-democratismo. Ci sono due elementi importanti che vale la pena richiamare nell’analisi di Bobbio: 1) esistono due concezioni distinte della democrazia che nulla hanno a che fare l’una con l’altra ma che devono ugualmente essere considerate nella propria autonomia, 2) i rapporti tra democrazia e socialismo sono particolarmente stretti perché fanno perno sul concetto comune di eguaglianza.
Riguardo al primo punto, Bobbio ritiene «indubitabile che storicamente «democrazia» abbia due significati prevalenti, almeno all’origine, secondo che si metta in maggiore evidenza l’insieme delle regole la cui osservanza è necessaria affinché il potere politico sia effettivamente distribuito tra la maggior parte dei cittadini oppure l’ideale cui un governo democratico dovrebbe ispirarsi, che è quello dell’eguaglianza»8. Ora, secondo Bobbio, questi due significati si impongono in base al fatto che si prenda il termine democrazia nel suo senso giuridico-istituzionale e dunque procedurale, oppure nel suo senso «etico», inteso dunque in modo essenzialistico.
Commentando il secondo significato, Bobbio si spinge a mettere in relazione i concetti di democrazia e socialismo, sostenendo che «il rapporto tra socialismo e democrazia fu sin dall’origine di complementarità, così com’era stato quello tra liberalismo e democrazia»9, perché sia il socialismo che la democrazia si basavano su un concetto ipertrofico di eguaglianza tra gli uomini. Questo è il motivo per cui, secondo Bobbio, il concetto di democrazia è ormai conteso tra liberalismo e socialismo. La fondamentale dicotomia alla base della tradizione democratica presuppone due assunti radicalmente diversi: mentre nel binomio liberalismo più democrazia, quest’ultima significa principalmente suffragio universale, cioè un mezzo per consentire agli individui di esprimersi liberamente, nella coppia socialismo più democrazia, la democrazia indica un ideale egualitario sostanziale che solo la riforma della proprietà proposta dal socialismo sarà in grado di attuare pienamente. In quest’ultimo caso si stabilisce una sorta di co-essenzialità tra democrazia e socialismo, che porta la prima a realizzarsi pienamente solo nel secondo, attraverso un’equa e completa distribuzione della ricchezza e un trattamento sociale che mira al livellamento delle condizioni materiali delle persone (in ultima analisi era questa l’idea principale alla base delle democrazie popolari nell’Est europeo)10.
È più o meno questo il senso dell’opposizione tra le due forme di democrazia che ritroviamo in molti Cold War Liberals nei quali essa si specifica ulteriormente nel contrasto filosofico tra il monismo storicista delle grandi filosofie della storia e la tradizione realista, empirica ...