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Sudditi è un viaggio in un'Italia in cui lo Stato è rimasto ancora il Sovrano e i Cittadini sono rimasti, appunto, Sudditi. In cui si è perso quello che Cavour chiamava il "senso della libertà".
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Argomento
EconomicsCategoria
Economic TheoryCapitolo 1 – Cittadino? Quale cittadino?, di Giorgio Rebuffa
Il tema del rapporto fra Stato e Cittadino risale ai primi anni di vita dello Stato unitario. Da allora a oggi, infatti, all’esperienza costituzionale italiana è mancata la consapevolezza dell’importanza dei diritti individuali, l’idea che il cittadino sia definito dalla sua posizione di libertà nei confronti del potere politico.
Diritti e unificazione del Regno: la questione della giustizia amministrativa
Il rapporto tra diritti del cittadino e poteri dell’amministrazione ha risentito per lungo tempo, nell’esperienza costituzionale dell’Italia unita, della mancanza di una cultura giuridica in grado di fondare e giustificare in senso “pre-legislativo” la categoria dei “diritti soggettivi”. Con il fallimento della via mazziniana alla “rivoluzione italiana” e alla Costituente, la costruzione di un efficace sistema di tutela dei diritti fu fortemente condizionata dalle esigenze dell’unificazione legislativa e amministrativa del Regno.
Diverse sono le circostanze, storiche e politiche, in ragione delle quali l’esperienza costituzionale non fu influenzata – come accadde, per esempio, negli Stati Uniti – dalla consapevolezza dell’importanza dei diritti individuali, dell’idea che prima vengono i diritti e, poi, lo Stato. Pesarono, certamente, il liberalismo di tipo “difensivo”, gli interessi dinastici, ecclesiali e antiunitari, il localismo.
Pesò, infine, l’esigenza organizzativa del nuovo Stato unitario: l’idea del Risorgimento democratico di un riconoscimento di “diritti nel popolo” espressi in una dichiarazione solenne nell’esercizio di un potere costituente, mal si coniugava con l’estensione del sistema amministrativo del Regno di Sardegna alla penisola: fu questo l’autentico “banco di prova” per i successori di Cavour.
La soluzione organizzativa scelta dallo Stato unitario tendeva, infatti, a favorire l’accentramento e la supremazia del soggetto pubblico e, in particolare, a sottrarre al controllo degli organi giurisdizionali comuni la volontà dell’amministrazione. Proprio la giustizia amministrativa costituirà il tema su cui la dottrina si impegnerà di più sino all’età crispina. Impegno che segnerà, con gli anni Ottanta, il passaggio dall’iniziale impostazione “liberale” e privatistica della scienza giuridica italiana alla successiva “svolta” orlandiana.
Al momento dell’unificazione, la cultura giuridica italiana risentiva ancora dell’influenza esercitata dall’impostazione individualistica e anticoncettualistica delle scuole francesi di diritto privato. Secondo tale posizione dottrinale i principi informatori del diritto pubblico non avrebbero rivestito alcuna “specialità” rispetto a quelli del diritto privato. La costruzione del diritto pubblico nazionale avrebbe dovuto dunque svolgersi adottando i principi ispiratori del diritto privato, i quali costituivano, inoltre, un «elastico, ma effettivo limite di costituzionalità materiale», come ha scritto Paolo Ungari.
Inevitabile fu, in tal senso, l’ostilità dimostrata nei confronti delle leggi di unificazione del 1865 e, in particolare, dell’abolizione delle vecchie strutture del contenzioso amministrativo realizzata con l’allegato E della legge 20 marzo 1865. La legge, che pure dichiarava di adottare per l’Italia il sistema più liberale tra quelli vigenti in Europa (quello del Belgio), si fondava su un’interpretazione del principio della separazione dei poteri diretta a vietare al giudice ordinario di sindacare il potere esecutivo; competenza riservata all’amministrazione. Se, infatti, la distinzione tra “diritto soggettivo” (un diritto pieno, non toccabile dallo Stato) e “interesse legittimo” (una posizione affievolita dei privati, che può anche soccombere rispetto a un interesse “superiore”, pubblico) consentiva l’attribuzione alla giurisdizione di ogni ipotesi di lesione dei diritti soggettivi di un cittadino da parte dell’amministrazione, nel contempo la medesima distinzione dava luogo a due conseguenze fondamentali. Da un lato, veniva sottratta a ogni tutela giurisdizionale l’area degli “interessi legittimi”. Dall’altro, veniva imposta l’intangibilità dell’atto amministrativo impugnato: il giudice ordinario, accertata incidenter tantum l’illegittimità dell’atto, avrebbe dovuto limitarsi a disapplicarlo, senza poterlo annullare. In realtà, come fu notato dalla cultura giuridica del tempo, lo stesso principio della “separazione” dei poteri avrebbe dovuto condurre al “controllo” di legalità, da parte della giurisdizione ordinaria, anche delle attività amministrative.
Silvio Spaventa fu la voce forse più autorevole nel denunciare le «tre cause, da cui il male proviene»: «La prima è il difetto o incertezza di norme giuridiche, che limitino rigorosamente nell’amministrazione le facoltà e i poteri che essa deve esercitare. La seconda è il difetto e incertezza del giudice, che decida sulla controversia che nasce quando il cittadino si risente e si oppone all’abuso e arbitrio, che contro di lui si commette o si tenta commettere. La terza è il difetto di responsabilità immancabile e pronta degli ufficiali pubblici».{36}
Certo è che il carattere illiberale – ma soprattutto l’inefficienza – del sistema di giustizia amministrativa del 1865 condusse, a partire dalla fine degli anni Settanta, a una più chiara percezione della necessità di un suo superamento. Pasquale Stanislao Mancini sostenne nel 1877 che senza una nuova legge l’abolizione del contenzioso amministrativo avrebbe finito per rivelarsi «un pericolo alla libertà e alla giustizia, fonte continua e inesauribile d’incremento di potestà arbitrarie nel governo e nell’amministrazione ai danni dei cittadini». Lo stesso Minghetti – che pure era stato tra gli artefici della legge del 1865 – finì per riconoscere come «l’amministrazione rimaneva più sciolta e porgeva guarentigie minori nelle materie che non potevano portarsi davanti ai tribunali».
La riforma del sistema di giustizia amministrativa si avrà, tuttavia, soltanto nel 1889, con l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato. Essa manteneva la distinzione tra diritti e interessi legittimi, e la tutela di questi ultimi veniva affidata alla nuova sezione. Contro la stessa intenzione del legislatore – che era quella di mantenere il Consiglio di Stato come “organo del potere esecutivo” –, la riforma portò alla giurisdizionalizzazione del nuovo istituto, e alla creazione, per opera delle decisioni dello stesso Consiglio, di un sistema di giustizia amministrativa.
La legge del 1889 era, tuttavia, intervenuta in un’atmosfera ormai cambiata: la cultura giuridica aveva, infatti, “svoltato” su posizioni diverse da quelle “liberali” e “individualistiche”. L’età crispina aveva portato con sé la critica al parlamentarismo, al “liberalismo dottrinale”, nonché l’affermazione della dottrina dell’“unità organica dell’amministrazione”.
La “svolta” orlandiana
Con l’inizio degli anni Ottanta qualcosa cambia nella sensibilità della cultura giuridica italiana. Viene importata dalla Germania la dottrina dello Stato-persona e soprattutto, per opera di Vittorio Emanuele Orlando, si assiste a un ripensamento in senso “autoritario” dei rapporti tra diritto pubblico e privato.
Saranno, allora, gli indirizzi maturati nell’ambito della giuspubblicistica tedesca a imporsi, nella prospettiva di una subordinazione delle garanzie individuali all’organizzazione dei poteri e delle procedure costituzionali. La scienza del diritto pubblico amministrativo assumerà da allora il compito di descrivere e legittimare la discrezionalità dell’azione dello Stato, come tale non soggetta a limiti rappresentati dai “diritti” dei privati. La dottrina dello Stato-persona giuridica sarà funzionale, da allora, a ridurre organizzazione e attività del potere esecutivo a fenomeni esclusivamente giuridici, nonché a ridisegnare i rapporti tra amministrazione e privati come formalmente uguali, ma gerarchicamente ordinati. Sono due, in particolare, le funzioni che l’attribuzione di personalità allo Stato assolve nelle teorizzazioni della dottrina pubblicistica italiana: sottrarre alle regole del codice civile l’attività negoziale dell’amministrazione (sottoposta ora a principi giuridici “speciali”), e affermare l’accentramento dell’organizzazione amministrativa contro “corpi” e “volontà” intermedie. Secondo la nozione organica dello Stato come “supersoggetto” dotato di una volontà, le norme costituzionali divengono ora regole sull’organizzazione interna dei poteri, e non anche regole di garanzia dei diritti soggettivi individuali. La stessa separazione dei poteri, scriverà Orlando, indica soltanto il fatto che atto legislativo, giudiziario e amministrativo sono distinti “per la forma”, come diversi modi di manifestazione della volontà statale. Separazione dei poteri, dunque, come distinzione degli atti, ma non reciproco controllo degli organi. Si può qui trascurare di analizzare la profondità dell’influenza della giuspubblicistica tedesca. È sufficiente, sul punto, rimandare alle tesi di un autore come Jellinek, secondo il quale la parte delle norme costituzionali dedicate ai diritti individuali non determina alcun sistema di garanzie soggettive immediatamente applicabili: «Le disposizioni costituzionali – si legge nel System der subjektiven öffentlichen Rechte – come in generale tutta quella parte dei “diritti di libertà”, che è indirizzata al legislatore, non creano perciò alcun diritto di libertà». I diritti costituzionali sono in tal senso “diritti senza azione”. Tratto tipico del “costituzionalismo continentale” sarà, pertanto, l’idea che la necessità di organizzazione del potere politico si giustifichi in funzione non della garanzia di diritti individuali preesistenti, ma degli equilibri fra organi costituzionali, finalizzati all’efficienza dello Stato-persona.
Le linee teoriche di Orlando e della giuspubblicistica italiana seguono, del resto, la riformulazione, a partire dal governo Crispi, del rapporto tra sistema politico e organizzazione amministrativa e del “doppio ruolo” del ministro. Il modello franco-piemontese che aveva presieduto all’unificazione prevedeva che, nell’organizzazione gerarchica dell’amministrazione, il ministro esercitasse la duplice funzione di responsabile politico e al contempo vertice dell’apparato. Questo “mostruoso connubio” – come qualcuno lo definì – era giustificato dal modello di costituzionalismo “puro” disegnato dallo Statuto, secondo il quale la posizione del ministro dipendeva dalla titolarità dell’azione amministrativa in capo al sovrano, il quale delegava al ministro le funzioni.
Con le riforme di Crispi nel febbraio del 1888, la pubblica amministrazione cessa di essere “amministrazione della Corona”: all’esecutivo viene infatti attribuito il potere di disciplinare l’organizzazione dell’amministrazione centrale, e vengono altresì istituiti i sottosegretari parlamentari. Dieci anni prima, lo stesso Crispi aveva dichiarato alla Camera: «Signori, comincio per farvi una professione di fede. Io ritengo che gli statuti non creino diritti, che i diritti individuali siano innati, anteriori a qualunque carta scritta». Tra il 1878 e il 1888, tuttavia, il “trasformismo” condusse al “blocco” del sistema e all’esigenza di garantire il funzionamento del sistema parlamentare attraverso – come allora si pensò – il primato del potere esecutivo. Non si realizzò, tuttavia, il rafforzamento del potere esecutivo, quanto piuttosto del potere “amministrativo”.
L’esperienza crispina condusse, in altri termini, a una sempre più profonda identificazione del potere esecutivo con l’apparato amministrativo, facendo del primo ministro il capo dell’amministrazione, ma non il leader della maggioranza parlamentare. E, in questo senso, il primato dell’esecutivo cui Crispi mirava finiva per risolversi in qualcosa che ne era, per certi versi, l’opposto: il primato dell’amministrazione. È in questo limite politico e costituzionale che la cultura giuridica italiana rivela la propria impostazione dopo la “svolta” degli anni Ottanta. La proclamazione della supremazia degli interessi pubblici, l’estensione della discrezionalità dell’azione amministrativa, finiranno per imporre una visione del diritto pubblico in cui le situazioni soggettive individuali in tanto sono garantite in quanto riconosciute dal diritto “oggettivo”, dalla volontà del legislatore ordinario. La “separazione dei poteri”, nell’interpretazione orlandiana, implicava il rigetto della teoria del reciproco controllo, al fine di assicurare l’efficienza organizzativa dello Stato. La cultura politica e giuridica italiana dominante, in tal senso, non considerò come il significato autentico della “separazione” fosse, in realtà, quello di assicurare la tutela costituzionale dei diritti soggettivi.
La successiva esperienza costituzionale italiana – dall’avvento del fascismo sino a oggi – è segnata da questa antica debolezza: l’assenza di una cultura dei diritti individuali, il fondamento di ogni regime liberale.
L’ideologia del “cittadino”
La definizione del tipo e modello di “cittadino” in una Costituzione è determinata dal rapporto tra diritti individuali e forma di governo. Il concetto di cittadino, in tal senso, si definisce e precisa nelle diverse esperienze costituzionali a partire dalle differenti organizzazioni del potere pubblico.
Nell’esperienza anglosassone è la teoria della rappresentanza parlamentare che, a partire da Locke, compie il passaggio al “cittadino” inteso come individuo titolare di diritti propri. Tale passaggio è dunque reso possibile dalla corrispondenza tra sistema delle libertà e organizzazione dei poteri. Sarà, successivamente, la Rivoluzione americana a collegare esplicitamente – attraverso le codificazioni costituzionali (e alla struttura “declaration of rights” “frame of government”) – la legittimità del potere politico e il suo modo di esercizio ai diritti individuali. Come scriverà nel 1789 David Ramsay, uno dei primi storici della Rivoluzione americana, il nuovo Stato compiva il passaggio «from subjects to citizens».
La differenza è immensa. Soggetto deriva dalle parole sub e jacio, e indica chi si trova sotto l’autorità di un altro; ma un cittadino è un’unità in una massa di persone libere, che detengono collettivamente la sovranità. I soggetti rispettano un padrone, mentre i cittadini sono uguali a tal punto che nessuno gode di diritti ereditari superiori agli altri. Ogni cittadino di uno Stato libero racchiude in sé, per natura e per la Costituzione, la stessa comune sovranità di un altro.{37}
È, tuttavia, la Rivoluzione francese ad aver definito, nell’esperienza continentale europea, il nesso fondamentale tra cittadinanza e nazione: si è cittadini soltanto nella nazione. A tale impostazione è sottesa, tuttavia, la tensione tra l’homme e il citoyen, come noterà Marx: «Il citoyen viene considerato servo dell’homme egoista [...] non l’uomo come citoyen, bensì l’uomo come bourgeois viene preso come l’uomo vero e proprio». Il diritto del “cittadino astratto”, in altri termini, riflette l’homme come “membro della società civile”, come borghese, come “cittadino-proprietario”. Ciò che Marx, nell’«emancipazione della società civile», scorgeva come diritto dell’«uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità», sottendeva in realtà il riconoscimento di una posizione prestatuale di libertà e di eguaglianza formale tra gli individui, da rivendicare anzitutto contro il potere dello Stato. È il codice civile che, in tal senso, porta a compimento l’idea moderna del cittadino, inteso come soggetto unico di diritto, giuridicamente capace, titolare di diritti individuali.
Rappresentanza e proprietà sono, in tal senso, alla radice del concetto moderno di cittadinanza, il quale, nel corso del tempo, conoscerà ulteriori precisazioni, definizioni, allargamenti e restrizioni: le guerre napoleoniche porteranno l’immagine del cittadino-soldato, il suffragio universale creerà la figura del “cittadinoelettore”. L’idea del “cittadino”, in tal senso, è soggetta a variazioni, passa attraverso figure intermedie, si modifica. Nel Novecento, con la “mobilitazione totale” propria delle democrazie di massa è apparso il “cittadino-lavoratore”, mentre, con il superamento degli Statinazione nei “grandi spazi” degli Imperi, si dovrà definitivamente abbandonare il legame tra cittadinanza e “identità nazionale”.
La cittadinanza assume dunque, nella storia, funzioni e caratteri diversi. Eppure, il “cittadino” non dovrà mai più potersi confondere con il “suddito”, e la condizione per mantenere tale distinzione – che è all’origine concettuale della stessa idea moderna di cittadinanza – è un sistema costituzionale che regola e organizza i poteri in funzione della tutela dei diritti individuali. Ciò che definisce il cittadino non è tanto la sua appartenenza a una comunità politica, quanto la sua posizione di libertà nei confronti del potere politico. Non soltanto, pertanto, i diritti degli individui costituiscono il limite all’esercizio del potere, ma la stessa forma di governo trova il proprio significato nel legittimarsi quale meccanismo attraverso cui il potere garantisce i diritti.
Questo principio non costituisce una regola del sistema costituzionale, ma un’ideologia politica, che attiene dir...
Indice dei contenuti
- Titolo pagina
- Introduzione, di Nicola Rossi
- Capitolo 1 - Cittadino? Quale cittadino?, di Giorgio Rebuffa
- Capitolo 2 - Uno Statuto non si nega a nessuno, di Natale D’Amico
- Capitolo 3 - Paga e taci!, di Serena Sileoni
- Capitolo 4 - Le tasse sono bellissime!, di Franco Debenedetti
- Capitolo 5 - Faso tuto mi, di Enrico Zanetti
- Capitolo 6 - Il Grande Fratello non è un reality, di Manuel Seri
- Capitolo 7 - Parassita sarà lei!, di Enrico Zanetti
- Capitolo 8 - Il Sovrano la legge non la applica. La cambia, di Pietro Ichino
- Capitolo 9 - Lei non sa chi sono io, di Marianna Vintiadis
- Capitolo 10 - Non ti pago!, di Giampaolo Galli
- Capitolo 11 - Io potrei..., non potrei..., ma se vuoi..., di Pasquale Medina
- Capitolo 12 - Il mio concorrente me lo scelgo io, di Silvio Boccalatte
- Capitolo 13 - Io compro. Tu paghi, di Lucia Quaglino
- Capitolo 14 - Ho cambiato idea. E allora?, di Luigi Ceffalo
- Capitolo 15 - Io ho sbagliato. Tu paghi, di Carlo Stagnaro
- Capitolo 16 - Io sono diverso, di Maria Leddi
- Capitolo 17 - Preferirei di no, di Alessandro De Nicola
- Capitolo 18 - C’è un giudice in Europa, di Pasquale Medina
- Capitolo 19 - C’è un giudice nel mondo, di Fabio Scacciavillani
- Capitolo 20 - Quanto ci costa il Sovrano?, a cura dell’Istituto Bruno Leoni
- Gli autori