Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane
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Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane

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Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane

Informazioni su questo libro

Nell'imminenza della definitiva rottura tra Inghilterra e colonie americane, Edmund Burke interviene in Parlamento per illustrare il suo piano di riconciliazione con le colonie nordamericane. Con il Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane, infatti, questo grande interprete della cultura whig prova a evitare ogni conflitto: «La proposta è la pace. Una pace che non passi attraverso lo strumento della guerra; una pace che non si deve cercare nei labirinti di intricate e lunghissime trattative; una pace che non trae origine dalla discordia universale fomentata in tutte le parti dell'impero come se fosse la regola; una pace che non sia determinata dalla definizione giuridica di questioni incerte o dalla precisa delimitazione di confini fumosi della competenza in un governo complesso».Per Burke, essere dalla parte delle colonie significa difendere il meglio della tradizione inglese, perché «è lo spirito della Costituzione inglese, che, instillato in questa imponente massa, invade, alimenta, unisce, corrobora, rende più vitale ogni parte dell'impero, anche nella sua più piccola estremità». I contemporanei non seppero comprendere la saggezza di tali parole, ma questo discorso ci trasmette oggi il senso profondo di un tentativo generoso e la solidità di una grande tradizione di pensiero.

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Informazioni

Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane{*}

Spero, Signore, che, nonostante l’austerità richiesta dalla vostra carica di Presidente della Camera dei Comuni, la vostra buona natura vi permetta un qualche grado di indulgenza verso la debolezza umana. Non riterrete innaturale che coloro che trattano una materia che si lega alle proprie speranze e paure siano inclini alla superstizione. Mentre entravo in quest’Aula, pieno di ansia per il risultato della mia mozione, ho scoperto con grande sorpresa che quel grandioso progetto di legge, da noi approvato per colpire il commercio e i mezzi di sussistenza americani, ci sarà rinviato dalla Camera dei Lord. Confesso che non ho potuto far altro che ritenere questo evento un buon auspicio. Lo considero, infatti, un favore della Provvidenza che ci concede ancora una volta la facoltà di deliberare su una questione così controversa e dall’esito così incerto. Grazie al ritorno di questo progetto di legge, che sembrava ormai aver preso il volo, siamo adesso liberi di scegliere un piano per il nostro governo dell’America come lo eravamo nel primo giorno della sessione parlamentare. Se, Signore, ci ponessimo dal lato della conciliazione, non saremmo affatto imbarazzati (a meno che questo non ci dia soddisfazione) da nessuna incoerente mescolanza di coercizione e equilibrio. Siamo, dunque, chiamati, come se fossimo ammoniti da una voce dall’alto, a occuparci di nuovo dell’America (a occuparcene interamente), e a rivedere l’intera questione con un grado inusuale di cautela e calma. È ovviamente una questione cruciale, anzi, non ce n’è una simile al mondo. Quando ebbi per la prima volta l’onore di sedermi in questa Camera, gli affari di quel continente si imposero come la materia più importante e delicata che meritava l’attenzione del Parlamento. La mia piccola partecipazione in quella grande decisione mi opprimeva. Sentivo di fare parte di un altissimo mandato; e dato che non avevo ragione di confidare nelle mie capacità naturali, per la corretta esecuzione di questo mandato, mi sentii anche obbligato a prepararmi con straordinaria cautela su tutto ciò riguardasse le nostre colonie. Ritenevo, inoltre, altrettanto utile costruirmi qualche idea definitiva a proposito della politica generalmente seguita nelle relazioni interne dell’impero britannico. Ciò sembrava indispensabile per poter, tra passioni e opinioni così mutevoli, concentrare i miei pensieri, dare un giusto equilibrio al mio comportamento, e per impedire che fossi risucchiato dal vento di ogni dottrina alla moda. Non mi sembrò sicuro o maturo cercare nuovi principi ogni volta che arrivasse la posta dall’America. In quel periodo fui fortunato a essere sempre d’accordo con una grande maggioranza in questa Camera. Ho continuato, senza alcuna deviazione, a provare i miei sentimenti originali, inchinandomi a quell’alta autorità ed essendo pervaso dalla chiarezza e dalla potenza della prima impressione. Se questo dimostra una insistente perseveranza all’errore o una religiosa adesione a ciò che io credo sia la verità e la ragione, è vostro compito dimostrarlo. Signore, il Parlamento, pur avendo una visione amplificata delle materie di cui si occupa, ha cambiato, durante questo intervallo, i propri sentimenti e il proprio comportamento più frequentemente di quanto farebbe un individuo giustificato dalla scala ridotta dell’informazione privata. Ma, nonostante non voglia azzardare niente che possa avvicinarsi a una censura delle ragioni per cui i Parlamenti precedenti abbiano proceduto a tutti quei cambiamenti, è certo che, sotto di essi, l’America sia stata mantenuta in un continuo stato di agitazione. Tutto ciò che è stato somministrato come rimedio al malcontento generale, quando non ne è stato proprio la causa, è stato seguito da un acuirsi della malattia, fino a condurre quell’importante paese, mediante gli esperimenti più svariati, alla sua situazione attuale – una situazione a cui non vorrei dare un nome sbagliato, a cui veramente non oso dare un nome, che insomma non so cogliere nei termini di alcuna descrizione. Così, Signore, stavano le cose all’inizio della sessione. In quel tempo un illustre membro della Camera, uomo di grande esperienza parlamentare, che nel 1766 aveva diretto con molta abilità i lavori della Commissione per gli affari americani, mi prese da parte e, lamentandosi del presente stato della nostra politica, mi disse che le cose erano giunte a tal punto che non si sarebbero tollerati ulteriormente i nostri soliti metodi di procedere nella Camera; che il tribunale pubblico – il quale non è mai stato troppo indulgente nei confronti di opposizioni lunghe e senza risultati – avrebbe a questo punto esaminato con insolita severità la nostra condotta; che le alternanze e i cambiamenti delle misure ministeriali sarebbero stati considerati non come prove della discontinuità e della mancanza di sistema dei loro autori, ma come occasione per accusarci del malcontento premeditato che non poteva essere in alcun modo soddisfatto, e di voler bollare a ogni costo come crudele qualsiasi misura di forza e come debole e inutile qualsiasi proposta che andasse nella direzione dell’indulgenza. Il pubblico, mi disse, non avrebbe aspettato pazientemente che finissimo questo giochetto con i nostri avversari; dovevamo mettere le carte in tavola; ci si aspettava che chi per tanti anni si era occupato attivamente di questi affari mostrasse di essersi formato idee chiare e decise sui principi del governo coloniale, e che insomma fosse capace almeno di abbozzare qualcosa che assomigliasse a un programma delle fondamenta che si dovevano porre per costruire una futura e duratura tranquillità. Sentii subito la verità in quello che il mio nobile amico mi aveva descritto; e sentii cosa avrei dovuto fare. Avrebbe potuto rivolgersi in modo più appropriato a molti altri gentiluomini. Nessuno, a dire la verità, era meglio disposto o meno qualificato per tale progetto di me.
Sebbene fossi talmente d’accordo con le sue idee da mettere immediatamente i miei pensieri in forma di proposta parlamentare, non ero altrettanto disposto a diffonderli. A meno che non si occupi un posto di potere, in genere azzardare piani di governo denuncia una certa impotenza naturale della mente, o almeno una certa mancanza di conoscenza del mondo. Avanzare proposte quando le menti degli uomini non siano correttamente disposte ad accoglierle non solo è inutile, ma anche in qualche modo disonorevole; e per quanto mi riguarda, non ho l’ambizione di rendermi ridicolo, non mi candido assolutamente al disonore pubblico. Inoltre, Signore, a dir la verità, di solito non ho una grande opinione della virtù dei governi pianificati sulla carta, né di alcuna politica in cui il progetto sia completamente separato dall’esecuzione. Ma quando ho visto prevalere ogni giorno di più la rabbia e la violenza, e la situazione precipitare verso una definitiva frustrazione delle nostre colonie, confesso di aver messo da parte la mia cautela. Ho sentito questo momento come uno di quei pochi in cui il decoro cede a un dovere più grande. La calamità pubblica è una potente livellatrice; e vi sono circostanze in cui qualsiasi occasione, anche la più piccola, di far del bene, anche da parte dell’individuo meno importante, deve essere messa in atto. Riportare l’ordine e la pace in un impero grande e diviso come il nostro è un’impresa che, anche solo nelle intenzioni, basterebbe a nobilitare i voli della fantasia del genio più alto e a ottener perdono per gli sforzi del più debole degli intelletti. Tormentato per qualche tempo da questi pensieri, ho cominciato a sentirmi sempre più sicuro. Ho tratto fiducia da quello che in altre circostanze produce solitamente timidezza: la mia incertezza si faceva minore, anche grazie al fatto di essere cosciente proprio della mia irrilevanza. E giudicandovi per quello che dovreste essere, mi sono persuaso che non respingerete una proposta ragionevole solo perché la ragionevolezza è l’unica raccomandazione. D’altra parte, essendo totalmente privo di ogni ombra di influenza politica, naturale o accidentale, ero davvero sicuro che se la mia mozione fosse stata futile o pericolosa, studiata debolmente o proposta al momento sbagliato, non c’era niente di estraneo a essa, come potere o influenza, che potesse stupirvi o deludervi. La vedrete qual è, e la tratterete esattamente come merita. La proposta è la pace. Una pace che non passi attraverso lo strumento della guerra; una pace che non si deve cercare nei labirinti di intricate e lunghissime trattative; una pace che non trae origine dalla discordia universale fomentata in tutte le parti dell’impero come se fosse la regola; una pace che non sia determinata dalla definizione giuridica di questioni incerte o dalla precisa delimitazione di confini fumosi della competenza in un governo complesso. La semplice pace cercata nel suo corso naturale e nei suoi ordinari nascondigli. La pace ricercata con lo spirito della pace, che si pone in principi puramente pacifici. Io propongo, rimuovendo ogni base di divergenza, e riportando l’antica completa fiducia delle colonie nella madrepatria di dare permanente soddisfazione al vostro popolo e (ben lontano dall’intenzione di comandare con la discordia) di riconciliarle l’un l’altra con lo stesso atto e con il legame di quello stesso interesse che le riconcilia al governo britannico. La mia idea è semplicemente questa. La politica raffinata ha sempre generato confusione; e sarà sempre così, fino a quando durerà il mondo. Le semplici buone intenzioni, facilmente riconoscibili come tali a prima vista, così come la frode lo è invece dopo un’attenta analisi, si rivelano, lasciatemelo dire, considerevoli nel governo del genere umano. La semplicità sincera del cuore costituisce di per sé un principio risanatore e un elemento che unisce. Il mio piano, pertanto, essendo stato formato sulle più semplici basi immaginabili, potrà forse deludere qualcuno, quando lo ascolterà. Non ha niente per cui possa essere raccomandato alla morbosità di orecchie curiose. Non c’è niente di nuovo e accattivante. Non ha lo stesso splendore del progetto che recentemente vi è stato proposto dal nobile primo ministro. Non si propone di riempire la vostra anticamera di rumorosi agenti delle colonie che richiederanno continuamente l’intervento dei vostri mazzieri per mantenere l’ordine. Non istituisce nessuna asta finanziaria, in cui le province imprigionate si procurano il riscatto generale facendo le proprie offerte l’una contro l’altra, finché non sbattete il martello e stabilite una proporzione di pagamenti che non trova riscontro nei poteri dell’algebra, in modo da equiparare e saldare i conti. Il piano che mi permetto di suggerirvi trae un grande vantaggio dalla presentazione del progetto di quel nobile signore e da come è stato accolto. L’idea della conciliazione è, adesso, ammissibile. In primo luogo la Camera, accettando la mozione presentata dal primo ministro ha ammesso, malgrado il fronte minaccioso della nostra linea, malgrado tutte le sanzioni cui abbiamo fatto ricorso, che non riteniamo preclusa la via del perdono e della magnanimità. La Camera è andata oltre: ha dichiarato, infatti, ammissibile una conciliazione prima di un qualsiasi atto di sottomissione da parte dell’America. E ha oltrepassato di molto quel limite, perché ha ammesso che il malcontento per il modo con cui avevamo esercitato il nostro diritto di tassazione non era del tutto infondato. Si è ammesso che quel diritto, esercitato in quel certo modo, aveva in sé qualcosa di contestabile – di poco saggio o di oppressivo –, dal momento che anche se proviamo odio e risentimento abbiamo spontaneamente proposto una modifica importantissima, e, per liberarci di quello che sembrava criticabile, abbiamo istituito un sistema del tutto nuovo, anzi, del tutto estraneo ai metodi antichi del Parlamento.
Il principio di questo procedimento è del tutto sufficiente ai miei fini. Credo che, invece, i modi proposti dal primo ministro per portare avanti le sue idee non siano adatti a dimostrare il fine; questo tenterò di mostrarvi prima di terminare il mio intervento. Ma per il momento inizio a esporvi la mia posizione partendo da quel principio ammesso anche dalla Camera. Intendo proporre la pace. La pace implica riconciliazione: e dove c’è stata una disputa importante, la riconciliazione implica in un modo o nell’altro una concessione da una parte o dall’altra. Così stando le cose, non esito ad affermare che la proposta dovrebbe partire da noi. La forza vera, e riconosciuta come tale, non diminuisce, né di fatto né nelle opinioni, a causa dell’esitazione a esercitarla. Il potere riconosciuto come superiore può offrire la pace mantenendo intatti il proprio onore e la propria sicurezza. Tale offerta fatta da tale potere verrà attribuita alla magnanimità. Solo le concessioni dei deboli sono dettate dalla paura. Quando il debole è disarmato, è totalmente in balìa di chi è più forte di lui; e perde per sempre quella frazione di tempo e quelle opportunità che, nel momento in cui si presentano a tutti gli uomini, rappresentano la vera forza e le vere risorse di tutti i poteri minori. Le questioni principali su cui dovete decidere oggi sono due: primo, se dovreste o meno far concessioni, e secondo, di che concessioni dovrebbe trattarsi. Sulla prima questione (come mi sono appena preso la libertà di farvi notare) abbiamo conquistato un po’ di terreno. Ma mi rendo conto che c’è ancora molto da fare. Inoltre, Signore, per permetterci di decidere con convinto e accurato giudizio sia sulla prima sia sulla seconda grande questione, credo sia necessario considerare distintamente la vera natura e le circostanze peculiari dell’oggetto che ci troviamo di fronte: perché dopo tutti i nostri sforzi, che lo vogliamo o no, dovremo governare l’America secondo quella natura e quelle circostanze, e non in base alla nostra fantasia, a idee astratte di diritto, o vaghe teorie generali di governo, dato che ricorrere a questi strumenti mi pare, nella presente situazione, non meglio della totale mancanza di senno. Devo tentare, pertanto, col vostro permesso, di presentarvi alcune di queste caratteristiche essenziali nella maniera più completa e chiara possibile. Il primo aspetto che dobbiamo considerare sulla natura di questa questione è il numero degli abitanti delle colonie. Da anni mi sto impegnando su questo punto. Ho calcolato una cifra di almeno due milioni di persone bianche e di sangue europeo; oltre a circa 500.000 di altre origini, che contribuiscono in modo non trascurabile alla forza e all’opulenza del tutto. Credo che questo, Signore, sia un numero quasi esatto. Non c’è ragione di esagerare quando la pura verità si presenta già con così tanto peso e importanza. Ma che io stabilisca un numero troppo alto o troppo basso, è una questione di poca rilevanza. Considerata la forza con cui la popolazione si espande in quella parte del mondo, possiamo anche dare una cifra alta quanto vogliamo, ma, mentre il conflitto continuerà verrà meno l’esagerazione. Mentre discutiamo dell’ordine di grandezza, la popolazione è già cresciuta. Mentre perdiamo tempo a decidere come governare due milioni di persone, ci troveremo a gestirne milioni di più. I vostri figli passano dall’infanzia all’età adulta meno rapidamente di quanto essi crescano da famiglia a comunità, da villaggio a nazione.
Fornisco questi dati numerici all’inizio della nostra delibera, perché, Signore, questa considerazione da sola renderà evidente anche a chi ha una capacità di comprendere meno sottile della vostra che nessuna soluzione parziale, ristretta, ridotta, angusta, occasionale, sarà adatta a tale oggetto. Vi dimostrerà che esso non deve considerarsi come una di quelle cose di poco conto che sono fuori dalla portata dell’occhio e della considerazione della legge, che non si tratta di una insignificante escrescenza dello Stato, di un insignificante dipendente che possiamo ignorare con poco danno o provocare rischiando un pericolo modesto. Vi dimostrerà che, nel maneggiare questa materia, è richiesto un certo grado di responsabilità e cautela; e che la ragione impone di non trattare come sciocchezze una porzione così grande degli interessi e dei sentimenti della razza umana. Non potreste mai farlo senza provare alcun senso di colpa; e siate certo che non potrete farlo a lungo senza essere punito. Ma la popolazione di questo paese, grande e in costante crescita, sebbene sia una considerazione importante perderà molto del suo peso se non sarà combinata con altri fatti. Il co...

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