Centocinquant'anni di finanza pubblica in Italia
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Centocinquant'anni di finanza pubblica in Italia

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Centocinquant'anni di finanza pubblica in Italia

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C'è una sola costante nei primi centocinquant'anni di storia dell'Italia unita: il ciclico ripresentarsi di crisi fiscali, che talora hanno lambito il rischio del fallimento sovrano. Da che cosa origina il perenne "disordine fiscale" del nostro Paese? Come mai proprio l'assenza di rigore nelle finanze pubbliche unisce momenti storici e classi dirigenti tanto diverse? Quali sono i "peccati originali" che l'Italia porta con sé, sin dalla sua nascita? Sono queste le grandi domande esplorate, con la curiosità dello storico ed il rigore dell'economista, da Vito Tanzi nella II Lectio Marco Minghetti dell'Istituto Bruno Leoni.

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2012
eBook ISBN
9788864400778
Argomento
Business
Categoria
Finanza

Commento

di Andrea Monorchio

La ricostruzione di Vito Tanzi dei “Centocinquant’anni di finanza pubblica in Italia”, pienamente aderente alla migliore e più aggiornata storiografia, offre una serie di spunti per approfondire tre temi, spesso considerati marginali nella storia tradizionale del Risorgimento italiano, quella che si limita ad analizzare i difetti nella costruzione amministrativa dello Stato unitario e le politiche di risanamento del bilancio adottate dalla Destra storica, culminate con il pareggio sotto la guida del Ministro Minghetti. Una storia risorgimentale che viene letta alla luce dei moti popolari, del romanticismo patriottico, dell’anelito ad un’Italia libera ed unita, ma che trascura gli interessi politici e finanziari internazionali ed alcuni differenziali economici interni molto complessi.
Questi approfondimenti sono ancora più indispensabili oggi, perché oggi come allora si pongono tre questioni:
1. quella del debito pubblico eccessivo, del costo degli interessi che gravano sul bilancio e delle politiche di risanamento;
2. quella della riforma dell’ordinamento politico-amministrativo;
3. quella delle relazioni politiche e finanziarie internazionali e della divaricazione nella struttura economica interna.
Cominciando da quest’ultima questione, sarebbe il caso di mettere meglio a fuoco le vicende e gli interessi internazionali che portarono ad una unificazione dell’Italia che partì dal Regno di Sardegna, davvero minuscolo dal punto di vista territoriale e fortemente indebitato, anziché da quello delle Due Sicilie. In secondo luogo, occorre riflettere sul fatto che il debito pubblico dello Stato unitario derivava per la gran parte dallo sforzo bellico precedente alla unificazione e che l’alto costo dell’indebitamento nel decennio successivo alla unificazione derivava dalla necessità di fare provvista sull’estero in un contesto caratterizzato da conflitti continentali – come la guerra franco-prussiana – che creavano tensioni sul mercato dei capitali. Da ultimo, c’è la questione della istituzione delle Province, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento ha rappresentato una rivoluzione amministrativa di cui ancora non sono stati messi in luce gli straordinari risultati in termini di riequilibrio tra potere politico centrale ed autonomia territoriale: una esperienza troppo breve nel periodo che precede la Grande Guerra e poi il Fascismo, poi mortificata dall’enfasi regionalista introdotta nella Costituzione repubblicana, sostenuta con forza negli anni Sessanta solo a fini di un ribilanciamento politico interno, per contrastare la perenne centralità democristiana del governo nazionale con la possibilità di autonomie politiche di sinistra a livello regionale.
Prendiamo in considerazione la prima questione, rappresentata dalla unificazione dell’Italia da parte del Regno di Sardegna, anziché da quello delle Due Sicilie. Basta ricordare che fu Ferdinando II di Borbone il primo Re a concedere una Costituzione in Italia, il 29 gennaio del 1848, e che solo il 4 marzo dello stesso anno Carlo Alberto di Savoia emanò lo Statuto: ci troviamo di fronte ad un allineamento politico di fronte alla richiesta di un passo indietro delle monarchie assolute rispetto alla Restaurazione voluta dal Congresso di Vienna. Ma la situazione del Regno delle Due Sicilie era molto complessa, nel ’48, perché disomogenea: via era un Regno di Napoli tendenzialmente protezionista, perchè deficitario sia in termini produttivi sia nelle relazioni commerciali con l’estero, ed un Regno di Sicilia in forte attivo: era un polmone forte, sia sul versante della produzione agricola sia su quello della esportazione di zolfo, con una presenza di interessi imprenditoriali inglesi molto forte. La Sicilia fu infatti l’unica porzione dell’Italia ad essere rimasta esente dalla invasione napoleonica, grazie all’appoggio della marina britannica: non solo si contrappose al Regno di Napoli che era caduto sotto l’influenza francese per non soggiacere alle imposte che erano state introdotte, ma adottò sin dal 1812, prima del Congresso di Vienna, una Costituzione sul modello inglese abolendo la feudalità.
Sul piano internazionale, e rispetto agli interessi economici dell’Inghilterra, l’impostazione liberale che aveva ispirato la politica del Regno di Sardegna risultava così di gran lunga più affine rispetto a quella protezionistica e mercantilistica che caratterizzava il Regno delle Due Sicilie. Per questo, in Sicilia lo sbarco di Garibaldi fu visto con favore: era una liberazione dal giogo del Regno di Napoli, cui era tributaria fiscalmente.
La seconda questione, rappresentata dalla genesi del debito pubblico del Regno d’Italia, è messa in luce in modo estremamente chiaro nella lectio di Vito Tanzi: «I fondi destinati al pagamento degli interessi sul debito pubblico e per la difesa nazionale assorbivano una considerevole fetta della spesa complessiva. Nei primi dieci anni successivi all’unificazione queste due voci oscillarono complessivamente da un minimo del 45,2 per cento ad un massimo del 61,6 per cento della spesa totale». Questa composizione della spesa va messa in raffronto con quella destinata alla istruzione, che non superò mai nel decennio 1862-1872 l’1,8 per cento delle spese totali, ed al fatto che la Lista civile, che rappresentava le spese per il mantenimento della famiglia Reale addossate al bilancio pubblico, era ampiamente superiore alla spesa per istruzione. D’altra parte, Tanzi sottolinea che «negli anni precedenti l’unificazione il Regno di Sardegna era incorso in considerevoli deficit di bilancio e aveva accumulato un debito pubblico in rapida crescita. I prestiti erano stati chiesti a finanzieri stranieri, come Rothschild a Parigi e Napoli, Hamro a Londra e altri. Oltre al pagamento annuale degli interessi maturati sul debito, questi finanzieri esigevano il versamento immediato di elevate commissioni. I fondi ottenuti dal Regno erano pertanto inferiori all’ammontare sul quale veniva calcolato formalmente il tasso di interesse. Nel corso degli anni l’indebitamento e gli interessi accumulati si accrebbero enormemente, portando il Piemonte sull’orlo del fallimento». Ed ancora, prosegue Tanzi: «Disgraziatamente, come avviene di solito in questi casi, l’indebitamento aumentò in misura significativamente maggiore della crescita economica, cosicché il servizio del debito, ossia il pagamento degli interessi, divenne un grave problema. Tra il 1847 ed il 1859 il debito pubblico piemontese aumento addirittura del 565 per cento (non si tratta di un refuso) […]. Sembra che, nell’anno precedente all’unificazione, Cavour fosse giunto al convincimento che, ben presto, l’alternativa sarebbe stata tra l’unificazione dell’Italia o l’inadempienza (default) del Regno di Sardegna. L’unificazione […] avrebbe permesso di trasferire il suo monumentale debito pubblico ad una entità ben più grande e, almeno inizialmente, meno indebitata, il Regno d’Italia. […]. Tale trasferimento avrebbe risolto i problemi del Piemonte, al prezzo di rendere maggiormente precario il futuro del nuovo paese».
Queste considerazioni di Vito Tanzi ci consentono di sviluppare ulteriormente le riflessioni prima svolte in ordine alla correlazione tra interessi politici e finanziari internazionali e processo di unificazione: il Regno delle Due Sicilie non aveva alcun interesse economico e finanziario ad estendere la sua influenza fino ad inglobare il Regno di Sardegna, perché così facendo si sarebbe dovuto accollare il suo enorme debito pubblico. Di converso, i finanziatori esteri del debito pubblico del Regno di Sardegna non potevano che vedere di buon occhio l’annessione del meno indebitato Regno delle Due Sicilie e, soprattutto, l’acquisizione delle riserve auree detenute dal Banco di Napoli. Affermare che l’unificazione partì dal Regno di Sardegna soprattutto per salvare dal ripudio del debito i suoi finanziatori è forse un azzardo, ma di certo non è sbagliato.
Passiamo alla terza questione: quella dei vizi dell’accentramento amministrativo dello Stato unitario, derivanti dall’aver mutuato solo formalisticamente l’impostazione francese. C’è, tuttora, una forte lacuna nella analisi storica e politica del contesto in cui nasce e si consolida, in Francia, l’Amministrazione pubblica. Deriva dal processo di allontanamento della nobiltà dalle terre, dall’attrazione e dalla concentrazione verso Parigi del mondo degli affari: “Il Re porta gli affari a Parigi e Parigi porta gli affari al Re”. Questo era il processo che si era innescato in Francia, dove il potere della nobiltà sul territorio era stato sostituito dalla Amministrazione dipendente dal Sovrano assoluto. Una Amministrazione da sempre implacabile nella esazione delle imposte. Questo fenomeno era del tutto sconosciuto allo stesso Regno di Sardegna: l’Amministrazione piemontese si sovrappose come un corpo estraneo al contesto amministrativo precedente. Soprattutto la nobiltà meridionale, in particolare quella siciliana di più antica tradizione e più forte radicamento sul territorio, non venne affatto coinvolta nel processo politico di costruzione del nuovo Stato unitario: il Senato regio era una stampella del Re, con le “infornate ministeriali” che miravano a garantire il sostegno al governo, ma non assomigliava per nulla alla Camera dei Lord inglese. I Senatori del Regno non erano i Pari d’Inghilterra, erano notabili, sì, ma fini a se stessi.
L’evoluzione amministrativa rappresentata dalla istituzione delle Province e dalla deconcentrazione dell’amministrazione statale sul territorio nell’ultimo decennio del secolo fu una rivoluzione mirabile. Fu la risposta alla medesima richiesta di autonomia territoriale che è emersa nuovamente, anche stavolta nell’ultimo decennio del Novecento, con la Lega Nord. Allora, a fine Ottocento, il potere amministrativo fu riallocato sul territorio: distretti militari, provveditorati delle opere pubbliche, genio civile, provveditorati agli studi, direzioni provinciali del Tesoro, uffici distrettuali delle imposte, conservatorie dei registri immobiliari, tutto venne decentrato a livello provinciale. Il Consiglio provinciale aveva il compito di controllare l’esplicazione delle funzioni statuali sul territorio: la Prefettura aveva sede presso la Provincia, come nesso esplicito di congiunzione tra la funzione di coordinamento dell’attività statale sul territorio provinciale e sistema di controllo popolare sulla stessa.
Si pongono, oggi come allora, analoghe questioni in termini di debito pubblico, di peso eccessivo degli interessi, di riordinamento complessivo dell’ordinamento amministrativo. Occorre, anche in questo contesto, non limitarsi ad una analisi solo interna della situazione italiana, che invece va letta ancora una volta alla luce degli scenari e degli interessi politici, economici e finanziari internazionali. Così, la dinamica del debito pubblico di cui si è perso il controllo a partire dagli anni Settanta va letta alla luce delle tensioni di quegli anni, e quindi va considerata come un costo diretto del conflitto sociale e politico interno relativo al mondo del lavoro dipendente, e di quello internazionale relativo alla contrapposizione tra i blocchi. L’evasione fiscale ha fatto la sua parte, ma ha riguardato i proventi di ceti e di professioni che erano e dovevano essere tenuti distanti ed estranei rispetto ai conflitti dell’epoca.
Così come fu per la costruzione dell’Italia nella seconda metà dell’Ottocento, anche la sua coesione sociale e l’integrità territoriale nella seconda metà del Novecento hanno determinato le condizioni politiche per una crescita esponenziale del debito pubblico.
Diversamente da allora, oggi ci sono condizioni di ricchezza diverse che consentono il risanamento per via finanziaria e non economica: oggi il risparmio nazionale ed il patrimonio mobiliare delle famiglie sono in grado di assorbire una quota estremamente significativa del debito pubblico allocato presso il sistema bancario interno ed all’estero, riducendo ampiamente gli oneri per interessi. Il pareggio di bilancio si può raggiungere tagliando la spesa eccessiva per interessi e valorizzando il patrimonio pubblico, piuttosto che manovrando solo sul bilancio, magari introducendo nuove tasse sul macinato. Sarebbero obiettivi effimeri, socialmente e politicamente insostenibili, come fu allora per il pareggio di bilancio, conseguito per un anno solo. Allora segnò la fine della destra storica, non solo quella di Sella e di Minghetti.
La storia dell’Italia è rimasta intrecciata a quello del suo debito pubblico: il suo consolidamento nel ’31, con la conversione forzosa attraverso la emissione di titoli irredimibili non fu risolutivo. Crebbe ancora a causa della guerra ma venne abbattuto dall’impennata dell’inflazione che ne seguì. La crescita economica vigorosa degli anni della Ricostruzione sembrava aver messo la parola fine, una volta per tutte. Fu, purtroppo, una breve pausa.
Diversi sono i fattori che nel corso degli anni successivi, a far data dal 1971, hanno contribuito alla formazione del nostro debito pubblico. Fu l’anno in cui si esaurì quello che allora era chiamato il dividendo fiscale: l’avanzo tributario che veniva destinato agli investimenti. La crisi petrolifera del ’73 chiuse il ventennio d’oro della crescita. La crescita del debito viene innescata dalla sistematica espansione della spesa corrente delle Amministrazioni in un contesto caratterizzato dal rallentamento del tasso di sviluppo della nostra economia. La spesa corrente ha cominciato a correre a ritmo particolarmente sostenuto a partire dalla metà degli anni Settanta, quando fu varata una serie di misure tese, da un lato, a consolidare il nostro sistema di protezione sociale (istituzione del SSN, estensione della copertura previdenziale, ecc.); e, dall’altro, a modificare l’assetto istituzionale dello Stato (creazione delle Regioni e di nuovi enti, ecc.). Mentre venivano prese queste misure, la nostra economia cominciava a rallentare vistosamente: il tasso di crescita del PIL reale, superiore al 5-6 per cento negli anni Sessanta, scendeva infatti al 3 per cento negli anni Settanta, al 2 per cento negli anni Ottanta, e risultava sostanzialmente stazionario nel periodo successivo.
In estrema sintesi, possiamo quindi affermare che, a partire dalla metà degli anni Settanta, la politica di equilibrio di bilancio che aveva accompagnato il “miracolo economico” del nostro paese è stata rimpiazzata da una politica di deficit spending, che ha posto le basi per la formazione di disavanzi strutturali e per un’espansione incontrollata del debito pubblico. Si aggiunga inoltre che la brevissima durata delle singole compagini di governo, di cui la massima espressione furono i cosiddetti “governi balneari”, hanno rappresentato un terreno molto fertile per lo sviluppo del ciclo elettorale di spesa, ossia di quelle politiche che comportano un repentino aumento delle spese a ridosso delle elezioni, con l’intento di espandere il consenso.
Per comprendere i problemi con cui oggi si deve misurare la finanza pubblica nel nostro paese ed individuare i fattori che stanno alla base del ragguardevole stock di debito accumulato dal settore pubblico, è necessario quindi ripercorrere le tappe fondamentali dell’evoluzione della politica di bilancio nell’ultimo trentennio. L’attuale situazione della finanza pubblica italiana è infatti il risultato del sovrapporsi di una serie di decisioni fiscali non sempre ben coordinate fra loro, alcune delle quali deliberate parecchi anni fa, in un ambiente politico, economico e sociale profondamente diverso da quello odierno.
Si possono così sintetizzare i fattori che stanno alla base della crescita esponenziale del debito pubblico nel nostro paese:
1. la frammentazione del quadro politico e la permanente debolezza degli esecutivi. La mancanza di governi stabili, di legislatura, ed il continuo avvicendamento dei ministri hanno rappresentato un serio ostacolo per la gestione equilibrata della finanza pubblica e per l’adozione di politiche di bilancio di ampio respiro;
2. il tendenziale rallentamento del tasso di sviluppo ed un’inflazione sistematicamente superiore alla media europea, accompagnati da un ampliamento del raggio di azione dello Stato in campo economico e sociale;
3. l’inadeguatezza degli strumenti di governo della finanza pubblica e la non completa osservanza dell’obbligo costituzionale della copertura della legislazione di spesa;
4. la diffusione di fenomeni di irresponsabilità finanziaria, in assenza di adeguati meccanismi di monitoraggio delle attività di spesa dei livelli di governo decentrati.
Ci sono, poi, una serie di ragioni istituzionali, quelle che attengono al “potere di spesa”: il conflitto tra Parlamento e Governo su quello che gli anglosassoni chiamano “power of the purse”. Per lungo tempo, al nostro Parlamento è stata attribuita un’ampia facoltà di emendare i documenti di bilancio presentati dal Governo. Un esempio eclatante di tale potere di emendazione è rappresentato in tale contesto dalle cosiddette “finanziarie omnibus” degli anni Settanta e Ottanta, con le quali il Parlamento è intervenuto di fatto sulle materie più svariate, rendendo particolarmente difficile il controllo degli equilibri di finanza pubblica. Anche perché non di rado le decisioni di ...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prefazione
  3. Centocinquant’anni di finanza pubblica in Italia
  4. di Vito Tanzi
  5. Commento
  6. Commento
  7. di Gianni Toniolo
  8. Gli autori