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Lo Stato nel terzo millennio
Informazioni su questo libro
Quanto Stato ci serve, nel terzo millennio? L'autore di questo libroguarda al futuro dello Stato moderno da punti di vista diversi macomplementari: come capo di Stato, come politico, come imprenditoreattivo in diversi continenti e come storico.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Filosofia politicaCapitolo 1
Il diritto di autodeterminazione: una convinzione personale
Da liceale, alla fine degli anni Cinquanta del secolo passato, mi sono interessato delle ragioni che portarono allora alla guerra di Algeria. Non riuscivo a capire, nemmeno con le migliori intenzioni, perché neppure ventimila cittadini del Liechtenstein disponevano del diritto di autodeterminazione, mentre questo diritto non doveva spettare ai vari gruppi sociali delle popolazioni che vivevano in Algeria, un Paese di diversi milioni di abitanti.
Mi trovai alle prese con un problema analogo nel 1966, ai tempi di Franco, quando studiavo economia e facevo pratica in una banca dei Paesi Baschi. Per la verità, la diplomazia non era il mio forte e nelle discussioni non potevo fare a meno di dire che se il diritto di autodeterminazione spettava ai pochi abitanti del Liechtenstein, lo stesso doveva necessariamente e naturalmente spettare ai baschi. Gli amici baschi se ne rallegravano, mentre gli amici spagnoli erano più diplomatici di me. Essi avrebbero potuto a buon diritto controbattere che se il diritto di autodeterminazione non spettava ai baschi, tanto meno spettava agli abitanti del Liechtenstein.
Quando si nasce in una famiglia come la mia, solitamente si sviluppa un interesse per la storia e si riceve una formazione intellettuale internazionale. Nella mia famiglia la storia e la politica mondiale venivano molto discusse e criticate; a partire da una certa età si era in condizione non soltanto di seguire queste discussioni, ma anche di prendervi parte. Il fatto che la legittimazione religiosa (e in particolare la “grazia di Dio”), quale legittimazione di una monarchia ereditaria e di un’autorità statale, avesse fatto il suo tempo era sempre chiaro a tutti i partecipanti. Una diversità di opinioni si riscontrava solo relativamente alla questione se il modello fosse finito soltanto nel XIX secolo o già prima. In famiglia c’era unanimità sul fatto che tutte le legittimazioni ideologiche, come il nazionalsocialismo o il socialismo, erano vicoli ciechi dell’evoluzione umana. La democrazia appariva, nonostante i suoi problemi di principio, come l’unica alternativa credibile alla “grazia di Dio”. Durante la mia gioventù, ciò di cui in famiglia invece si discuteva era quale fosse il modello giusto di democrazia.
Per un giovane come me fu un’esperienza quanto mai interessante assistere, come testimone, al processo di decolonizzazione, che durò alcuni decenni. Purtroppo quasi tutti i modelli di democrazia e di sviluppo economico, che venissero dalla “cucina” britannica, francese o americana, dal punto di vista politico ed economico si sono prima o poi rivelati un fiasco. Le poche eccezioni, come per esempio Singapore o la Corea del Sud, sembrano, per lo meno dal punto di vista economico, più che altro le eccezioni che confermano la regola. Per Singapore esperti di politica ed economia avevano, in maniera assolutamente unanime, profetizzato un futuro oscuro per la sua indipendenza dal punto di vista politico ed economico. La Corea del Sud fu considerata per un lungo tempo che seguì la guerra di Corea solo come un caso problematico privo di prospettive. Agli Stati ricchi di materie prime dell’Asia, dell’Africa o dell’America Latina gli esperti predissero negli anni Sessanta un futuro fiorente. Purtroppo, in questi stessi Stati il nazionalismo e il socialismo hanno non soltanto distrutto ogni modello di democrazia, ma anche, solitamente, l’economia.
Un ulteriore problema era che gli Stati definiti dal dominio coloniale erano, quasi senza eccezioni, formazioni artificiali. Le potenze coloniali avevano stabilito i confini senza nemmeno interrogare la popolazione coinvolta. Il risultato fu la nascita di Stati con una popolazione molto eterogenea: Stati cosiddetti multietnici. In questo contesto risultano interessanti le esperienze di un classico Stato multietnico come la monarchia asburgica, nella quale la confusione di lingue, razze e religioni si realizzava in spazi assai ridotti. In un villaggio si parlava una lingua, in quello confinante un’altra, un villaggio era cattolico, l’altro protestante oppure ortodosso e tra di loro non mancavano mai le minoranze ebree. Come il nazionalismo distrusse la monarchia asburgica e condusse l’Europa alle catastrofi politiche del XX secolo, così esso continua a esercitare, dentro e fuori l’Europa, il suo effetto distruttivo. Le minoranze vengono represse, scacciate o annientate.
La mia famiglia si è sempre intensamente occupata dei problemi dell’Impero asburgico, sicché si comprende facilmente anche il suo interesse, a ciò connesso, per altri imperi o Stati multiculturali e multiconfessionali della storia mondiale. Ciò, specialmente, se si prende in considerazione il fatto che per secoli noi abbiamo avuto stretti e buoni rapporti con gli Asburgo. Nel territorio dell’odierna Austria orientale e nella parte morava della Repubblica Ceca la mia famiglia aveva acquistato una posizione importante già sotto i predecessori degli Asburgo, i duchi di Bamberga, decidendo di sostenere, dopo l’estinzione dei duchi di Bamberga nel XIII secolo, gli Asburgo. Ci fu solo un breve periodo, nei secoli XV e XVI, in cui, dal punto di vista politico e religioso, si appartenne a schieramenti differenti. Tra le due famiglie, oltre a relazioni politiche, c’erano anche rapporti di parentela: mia nonna, ad esempio, era la sorella minore del pretendente al trono Francesco Ferdinando, assassinato a Sarajevo. In famiglia si discuteva frequentemente di quali riforme politiche avrebbero potuto salvare dal declino la monarchia asburgica. Con l’esempio della Svizzera alle porte di casa avevamo a disposizione soluzioni fortemente sviluppate di democrazia locale e di decentramento politico. Il decentramento politico della monarchia asburgica era stato suggerito dal giovane imperatore Carlo, dopo la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe, durante la prima guerra mondiale; purtroppo era già troppo tardi.
Nella seconda metà del XX secolo anche la Svizzera, pur essendo un modello di democrazia, ebbe un problema relativo alle minoranze: specificamente nel Cantone di Berna, dove si trova la capitale della Svizzera. Il Cantone di Berna è uno dei più grandi e più importanti Cantoni della Svizzera. Accanto alla maggioranza protestante di lingua tedesca, nel distretto del Giura del Cantone di Berna c’era una minoranza cattolica di lingua francese, che si riteneva danneggiata dal punto di vista politico e da quello economico. Gli sforzi fatti verso una maggiore autonomia per la parte francese del Cantone di Berna incontrarono in un primo momento il rifiuto della maggioranza di lingua tedesca. La polemica crebbe e ci furono attentati dinamitardi, mentre le forze più radicali premevano per un’annessione del Giura di lingua francese alla Francia. Il governo federale svizzero si inserì nel conflitto interno a quel Cantone cercando di mediare. Finalmente nel 1974 si poté arrivare a una soluzione. La parte francofona del Cantone votò a favore della creazione di un proprio Cantone, il Giura. Questa soluzione fu accolta da una chiara maggioranza, anche se alcuni comuni francofoni preferirono restare nel Cantone di Berna. Poiché il Canton Giura crebbe nel corso degli anni, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico, più di quanto parecchi si sarebbero aspettati, una serie di comuni, i quali precedentemente avevano deciso di rimanere con il Cantone di Berna, si orientò a favore di un ingresso nel Canton Giura. Questa soluzione pacifica e democratica dopo violenti contrasti esercitò su di me una forte impressione quale esempio di un esperimento di successo dell’autodeterminazione a livello comunale.
Oltre all’interesse storico e politico condizionato dalla famiglia, i miei studi di economia e di diritto all’Università di San Gallo mi portarono a interessarmi in maniera approfondita dell’economia pianificata e socialista dell’Europa orientale. Nella nostra famiglia si era fondamentalmente d’accordo sul fatto che nell’Europa orientale il comunismo prima o poi sarebbe crollato. Il dubbio riguardava soltanto il quando e il come. Mio padre, il Principe Francesco Giuseppe II, era convinto del fatto che il crollo dell’impero sovietico si sarebbe verificato, peraltro pacificamente, prima della fine del secolo. A causa dell’aumento del prezzo del petrolio dall’inizio degli anni Settanta, aumento del quale l’Unione Sovietica approfittò enormemente, ero dell’idea che il crollo economico ci sarebbe stato prevedibilmente soltanto nel nuovo millennio e che sarebbe stato probabilmente connesso con una grande guerra condotta con armi atomiche. Ebbe ragione mio padre: nel 1989 cominciò il crollo dell’impero sovietico e i popoli dell’Europa orientale poterono affrancarsi dalla dittatura sovietica.
Impressionato dal crollo della monarchia asburgica e dalle sue conseguenze piuttosto negative, riflettei allora su come l’impero sovietico avrebbe potuto riformarsi per evitare un crollo. La mia conclusione fu che i grandi Stati multietnici che rischiano di crollare vengono protetti dalla catastrofe soltanto grazie a riforme radicali.
A differenza della monarchia asburgica, nell’impero sovietico ci sarebbe stato bisogno di una riforma totale della struttura economica, con l’introduzione dell’economia di mercato. Nonostante questo, alcuni parallelismi c’erano. Una rottura tra province o repubbliche locali lungo confini spesso disegnati in maniera del tutto casuale doveva portare a nuovi problemi per quanto riguarda le minoranze, con il pericolo di pulizie etniche e guerre civili. D’altra parte, fino a quando le minoranze non vengono colpite dalla malattia del nazionalismo, o sobillate da fanatici religiosi, esse possono convivere pacificamente per secoli. Questo miscuglio di minoranze può addirittura rappresentare un grande arricchimento per la cultura e l’economia, come hanno dimostrato molte realtà in differenti regioni del mondo.
Quando, negli anni Ottanta, la crisi dell’impero sovietico divenne evidente, pensai che l’unica possibilità per salvare l’impero sovietico consistesse nel diritto di autodeterminazione a livello locale, nel ripiegamento dello Stato sulla politica estera e di difesa, nonché sulla sicurezza interna e sulla giustizia, su un radicale programma di privatizzazioni e sulla rapida integrazione nell’economia mondiale. Il presidente Gorbaciov non era in condizione di fare tutto questo, perché non aveva riconosciuto la necessità di una riorganizzazione così radicale. Ma anche se l’avesse riconosciuta, le sue possibilità di riuscita sarebbero state, probabilmente, minime. Innanzi tutto, con l’appoggio dell’esercito e del Kgb (la polizia segreta), avrebbe dovuto sciogliere il Partito comunista e poi, con l’aiuto del Kgb e contro la volontà dell’esercito, diminuire drasticamente le spese per gli armamenti. Infine, costruire uno Stato di diritto sarebbe stato possibile, essenzialmente, soltanto dopo l’esautoramento del Kgb. Quello del presidente Gorbaciov fu però, già di per sé, un grande risultato storico: non soltanto egli creò le condizioni affinché il crollo dell’impero sovietico si compisse in maniera abbastanza pacifica, ma seppe anche evitare che si arrivasse a una grande guerra civile, magari con il rischio di impiego dell’arma atomica. Spero che in futuro gli storici sapranno apprezzare questo grande risultato raggiunto dal presidente Gorbaciov (e dagli altri leader dell’allora Unione Sovietica) come degno di un autentico uomo di Stato.
Anche il Canada nella seconda metà del XX secolo dovette affrontare un problema politico relativo alla minoranza di lingua francese nel Québec. Quasi la metà della popolazione del Québec voleva l’indipendenza, il che avrebbe significato ancora una volta problemi con quelle minoranze, gli anglofoni e la popolazione indigena indiana, che avessero voluto restare con il Canada. Ebbi allora l’occasione di discutere con alcuni canadesi di un’ipotesi di soluzione basata sul diritto di autodeterminazione a livello comunale. Ciò avrebbe fatto sì che la parte pianeggiante del Québec, molto più grande e ricca di materie prime, con la capitale Montréal, sarebbe rimasta nel Canada. La parte della popolazione favorevole all’indipendenza abita in una regione relativamente esigua, lungo il fiume San Lorenzo. In queste circostanze l’indipendenza per la minoranza di lingua francese avrebbe perso molte delle sue attrattive. Nel frattempo il problema sembra essere stato in una certa misura risolto, con alcune concessioni alla minoranza di lingua francese.
Un controesempio fu rappresentato, quasi nello stesso periodo, dalla Jugoslavia, dove, particolarmente in Serbia e in Croazia, la leadership politica era completamente fallita. La Jugoslavia crollò in una lunga, sanguinosa guerra civile con reciproche pulizie etniche. Dal punto di vista economico e da quello politico la Jugoslavia era molto più vicina alle democrazie europee e all’economia di mercato di quanto non lo fosse l’impero sovietico, ma nonostante questo si arrivò alla catastrofe.
In Jugoslavia la comunità internazionale ha agito sin dall’inizio in maniera improvvida. All’inizio furono poste in primo piano la non-ingerenza e l’inviolabilità dei confini esistenti, senza avere le idee chiare su come si sarebbe potuta evitare la guerra civile. Ai primi spari la comunità internazionale cominciò a riconoscere come sovrane alcune singole repubbliche entro i loro confini allora esistenti, ben sapendo che, a eccezione della Slovenia, tutti questi confini statali erano artificiali ed estremamente problematici. Se la comunità internazionale fosse giunta a riconoscere la sovranità della Jugoslavia e l’inviolabilità dei suoi confini soltanto alla condizione che entro i propri confini questa rispettasse il diritto di autodeterminazione a livello comunale, forse la Jugoslavia avrebbe potuto essere salvata e si sarebbe potuta evitare una guerra civile. Sotto la pressione e con l’appoggio della comunità internazionale le funzioni dello Stato jugoslavo sarebbero state ridotte alle sue competenze essenziali e alla fine del processo l’Unione europea avrebbe potuto prendere in considerazione l’ingresso nell’Unione stessa di questa Jugoslavia fondamentalmente riformata. All’interno della Jugoslavia si sarebbe arrivati a un nuovo ordinamento dei confini statali che avrebbe corrisposto in maniera più netta ai bisogni e ai desideri della popolazione locale. Queste repubbliche regionali avrebbero allora potuto assumere – in campo sociale, economico e pure in taluni ambiti giuridici – importanti funzioni, assicurate fino ad allora a livello federale. La comunità internazionale avrebbe sempre potuto riconoscere le singole repubbliche di Jugoslavia come Stati sovrani, se i suoi suggerimenti relativamente a un diritto di autodeterminazione a livello locale non fossero stati tenuti in considerazione da parte del governo della Repubblica federale. Il riconoscimento delle singole repubbliche sarebbe stato fatto dipendere dal rispetto del diritto di autodeterminazione a livello comunale. Purtroppo in Europa si è ritornati ancora una volta alle pulizie etniche e l’Unione è rimasta a guardare, il che ha danneggiato gravemente la sua reputazione internazionale.
Un’altra circostanza mi fece presto riconoscere che gli Stati, nei prossimi cento anni, verranno sottoposti a forze centrifughe assai più che nei secoli passati; così che essi correranno il rischio di disfarsi, in modo pacifico o attraverso una guerra civile. Quando finii i miei studi a San Gallo, negli anni Sessanta, l’opinione dominante, sia per le imprese sia per gli Stati, era “the bigger the better”, ovvero “tanto più è grande, tanto meglio è”. Piccoli Stati come il Liechtenstein, tanto più essendo monarchici, venivano considerati alla stregua di curiosi relitti di tempi oramai passati, senza alcuna possibilità di futuro. L’Europa poteva sopravvivere, politicamente ed economicamente, solo se si fosse unificata. Poiché da me ci si aspettava che diventassi il capo di Stato di un siffatto piccolo Stato, mi chiedevo che senso potesse avere prepararmi a occupare una posizione che sembrava priva di futuro. Di conseguenza, sin da allora mi sono occupato, in maniera assai intensa, del problema dei piccoli Stati.
Nella storia ci sono stati periodi e regioni nei quali hanno dominato i piccoli Stati e periodi in cui a dominare sono stati i grandi Stati. Prima dell’Impero romano il panorama politico dell’Europa era dominato da piccoli Stati come le città-Stato della Grecia; così, dopo la caduta dell’Impero romano, furono i piccoli Stati, fino alla fine del Medio Evo, a dare forma all’Europa. Successivamente si affermò una tendenza in direzione di Stati grandi e centralizzati, una tendenza che avrebbe raggiunto il suo apice conclusivo con il confluire degli Stati europei nell’Unione europea.
Quale studente di economia mi colpì comunque il fatto che il successo economico del Liechtenstein, dopo la seconda guerra mondiale, si trovava in evidente contraddizione con l’opinione dominante del “the bigger the better”. Quando attiravo l’attenzione degli esperti su questa contraddizione fra la teoria e la pratica mi si rispondeva che lo sviluppo economico del Liechtenstein era da ricondurre all’attività finanziaria, al turismo e ai francobolli. Certo il turismo ebbe prima della seconda guerra mondiale una certa importanza per l’economia del piccolo Paese, ma durante la seconda guerra mondiale si arrestò e da allora giocò soltanto un ruolo marginale. I francobolli fornivano un apporto assai elevato, rispetto agli Stati più grandi, al bilancio statale, contribuendo così a tener basse le imposte, ma non potevano certo spiegare il balzo economico successivo alla seconda guerra mondiale. Già dopo la prima guerra mondiale si era tentato di incentivare l’attività finanziaria con tasse più basse e norme giuridiche favorevoli, ma con scarsi risultati, a causa delle norme restrittive che vigevano in Europa tra le due guerre. L’annessione dell’Austria al Terzo Reich, nel 1938, portò poi al ritiro della maggior parte dei capitali stranieri, in quanto si temeva un’occupazione militare del Liechtenstein da parte del Terzo Reich.
Chi negli anni Sessanta studiò un po’ più da vicino le statistiche del Liechtenstein poté subito constatare che in Liechtenstein il motore del balzo economico postbellico era l’industria. Le origini dell’industria liechtensteiniana risalivano alla seconda metà del XIX secolo, quando si riuscì a concludere un accordo doganale con la monarchia asburgica. Grazie a una tassazione contenuta e a una forza lavoro a basso costo e qualificata, per l’industria tessile della vicina Svizzera il Liechtenstein diventò un luogo relativamente attraente, dal quale si poteva rifornire il grande mercato dell’Impero asburgico. Con la prima guerra mondiale e il tramonto della monarchia asburgica si ruppero i mercati per la piccola industria del Liechtenstein e questa dovette ristrutturarsi sul mercato svizzero, in quanto dazi alti e regolamenti valutari rendevano molto difficili le esportazioni nel resto dell’Europa. Questo ritorno al mercato svizzero fu possibile solo perché la Svizzera era pronta a concludere con il piccolo Liechtenstein un trattato doganale favorevole, simile a quello che in precedenza il Liechtenstein aveva con la monarchia asburgica.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa occidentale non rifece l’errore fatto dopo la prima guerra mondiale, quando i singoli Stati compartimentarono i loro mercati con norme nazionaliste. In particolar modo grazie agli americani, il commercio venne liberalizzato, specialmente nel campo industriale all’interno dell’Europa occidentale e con gli Usa e il Canada.
I mercati mondiali che si stavano sviluppando a livello industriale offrirono possibilità inattese al piccolo Liechtenstein, che poteva vantare un’esperienza industriale pur sempre quasi secolare. Una popolazione altamente qualificata, poche tasse, un’assenza di burocrazia statale (poiché lo Stato non poteva permettersela) e uno Stato di diritto tuttavia relativamente funzionante attirarono gli investitori stranieri e diedero ai ta...
Indice dei contenuti
- Titolo pagina
- Introduzione
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Capitolo 12
- Capitolo 13
- Appendice